A scapito del titolo militante, questo articolo si propone come una rapida serie di spunti di riflessione su alcune tendenze culturali contemporanee. Col rischio di attirarmi l’avversione di chi legge, il testo si potrebbe intitolare anche “Critica della sinistra postmoderna”, sebbene non costituisca una sorta di manifesto culturale, bensì un coagulo di osservazioni intorno ai problemi e le aporie dell’opinione pubblica odierna. Per semplificare i prossimi ragionamenti, chiarisco fin da subito che dividerò le facoltà cosiddette “razionali” in: intelletto, che recepisce i dati concreti (non assolutamente validi, ma statisticamente prioritari); ragione, la facoltà discorsiva che tesse relazioni tra i vari processi intellettuali; e morale, un filtro etico che può essere individuale o comunitario e che, insieme alla ragione, contribuisce alla creazione di schemi interpretativi. In un soggetto conoscitivo, tali facoltà operano simultaneamente, benché in ciascuno con diverse intensità, modulando i suoi giudizi sui fenomeni con cui entra in contatto.
Il postmodernismo, che potremmo definire la filosofia latente all’epoca contemporanea, nasce negli anni Ottanta come reazione allo strutturalismo, mettendone in discussione la presunta obiettività e spostando l’analisi critica dalle strutture basilari dell’oggetto a quelle del soggetto che interpreta. La sua estrema conseguenza è la crisi totale della Verità che, secondo la temperie postmoderna, non esiste – mentre, invece, a esistere sono le sue interpretazioni. Si ha quindi un passaggio netto dalla ricerca della Verità, unica e assoluta, a un sistema di verità simultanee e non gerarchizzate: le fantomatiche narrazioni.
Tornando alle categorie sopra indicate, il postmodernismo sostiene che l’intelletto e la ragione non agiscano in modo indipendente, ma che invece subiscono l’ineludibile influenza dalla morale, tendenzialmente intesa non come sfera di giudizio etica-individuale, bensì come rete cognitiva costruita culturalmente in un’ottica politica e sociale. Pertanto, le narrazioni della verità sono sempre dettate da pregiudizi culturali che ne inibiscono l’imparzialità. Non è un caso che, almeno tra gli anni Ottanta e Novanta, il postmodernismo mirasse a decostruire il “buonsenso” condiviso per trovare, quando possibile, nuclei di verità puramente intellettuale e statistica, liberando il campo da una ragione e una morale considerate non argomentabili.
L’obiettivo era, quindi, spiccatamente liberale, poiché questi approcci volevano garantire interpretazioni libere, sciolte da binari prestabiliti e ottenute tramite funzioni razionali e morali risanate. A questo si aggiunga che il postmodernismo è una filosofia intrinsecamente capitalistica1. Con la sua nascita, ha rivitalizzato un mercato culturale saturo di strutturalismo marxisteggiante, innestandovisi con efficacia proprio perché, nella costante creazione di nuove interpretazioni e di nuove categorie conoscitive, risponde perfettamente alle esigenze di mercato. La rapidità dello sviluppo di nuove narrazioni (potenzialmente una per ogni testa pensante) crea una sorta di speculazione culturale fatta di progressive bolle finanziarie, che si calibrano secondo gerarchie mobili dettate dalle tendenze (ad esempio, gli algoritmi social), pronte a scoppiare non appena si affacci sul mercato un apparato concettuale più accattivante.
Un esempio, con tutti gli ovvi distinguo del caso, mi pare si possa ritrovare nella proliferazione di categorie legate alla comunità LGBTQ+, dove la necessità di etichette sempre più ristrette e sempre meno estese (verrebbe da dire meno comprensibili, se si volesse provocare) non è che la risposta ad esigenze di ricerca identitaria. Oppure, nell’ambito del femminismo e della Critical Race Theory, si può prendere in considerazione la nomenclatura di fenomeni quali il mansplaining, il whitesplaining e il manspreading. L’incentivo a una lettura critica del reale induce a individuare dei fenomeni ricorrenti, a darvi un nome così che essi siano indicabili nel concreto, e anche una definizione che, però, spesso si rivela poco efficace, se non altro perché volendo specializzarsi con ambizioni scientifiche, diventa incomprensibile ai più o, al contrario, talmente generalizzata da non indicare assolutamente nulla. Volendo fare un esperimento mentale alla Einstein, supponiamo che ci si trovi a un convegno dove intervengono un’attivista femminista e un professore di sociologia da quarant’anni in cattedra sul tema del patriarcato: nel caso in cui lui criticasse le posizioni della sua interlocutrice, si tratterebbe di mansplaining o di semplice contraddittorio intellettuale? Ai posteri l’ardua sentenza, probabilmente sintetizzabile nel perfido “ok boomer”.
Come è già stato osservato, nella sua prima formulazione il postmodernismo era una filosofia liberale, che promuoveva lo spirito critico oltre i limiti di scientificità e di presunta obiettività allora vigenti negli ambiti umanistici a cui si applicava. Anche su questo si potrebbe aprire una lunga parentesi, ma mi limito a sollevare il dubbio sulla possibile scientificità di materie quali antropologia, sociologia e scienze politiche, nel caso si intenda per scientificità quella delle materie definite “scienze dure”. Infatti, specie per quanto riguarda eventi o fenomeni storici, i documenti e le analisi su cui tali discipline si basano nella maggioranza dei casi non sono né quantitativamente né qualitativamente paragonabili ai dati disponibili per un esperimento biologico, medico o fisico, per il semplice fatto che hanno incontrato processi di deterioramento e di selezione storica arbitrari quando non puramente casuali. A tal proposito, basti pensare alla filologia, l’ambito letterario che si arroga il più elevato gradiente di scientificità nel suo dominio culturale (quello della facoltà di Lettere, per intenderci). Pur ricorrendo a metodi rigorosi – come rigorosi sono certamente anche quelli delle discipline sopra indicate -, essa si basa su tradizioni manoscritte o a stampa ampiamente lacunose, e nella pratica si appella molto più alla discrezione e alla responsabilità di chi vi si appresta che a criteri di pura obiettività.
È chiaro, dunque, che l’efficacia del primo postmodernismo, quello sviluppato in ambito anglosassone fra gli anni Ottanta e Novanta e legato in qualche modo al neoliberismo galoppante di quel periodo, risiedeva nel criticare i presupposti ideologici del concetto di obiettività, producendo sistemi argomentativi più malleabili e potenzialmente slegati da prese di posizione a priori. Al volgere del secolo, tuttavia, qualcosa cambia e questo sistema interpretativo vede l’innesto di altre tendenze, che sviluppano in modo radicale l’importanza del contesto del soggetto conoscitivo. Nello specifico, la sua condizione sociale in senso lato diventa il solo fattore in gioco, influenzando deterministicamente e senza appello tutte le sfere razionali sopra indicate. Insomma, l’individuo perde le sue specificità e diventa mera espressione del contesto in cui è cresciuto e agisce, senza alcuna possibilità di riscattarsi.
Già da questa premessa, si può notare come la declinazione impegnata contemporanea del postmodernismo, “di sinistra”, solleva non poche contraddizioni. Innanzitutto, uno dei cortocircuiti più evidenti si realizza quando questa filosofia, radicata nel decostruzionismo e nel rifiuto di qualsiasi valore prestabilito, si associa a presupposti ideologici fortemente connotati che rimandano a sistemi filosofico-politici notoriamente chiusi (marxismo e socialismo, per intenderci). In questi casi, alla mancanza di punti fissi argomentativi, che rappresenta l’estrema conseguenza del postmodernismo, si cerca di sopperire con dogmi eretti a valori conoscitivi, che diventano parte integrante della propria narrazione. E fin qui, in realtà, non ci sarebbero grandi problemi, poiché un’interpretazione socialista del postmodernismo non solo è legittima, ma costituisce un arricchimento del panorama conoscitivo e culturale, secondo la prospettiva postmoderna.
L’aporia, invece, sorge quando queste forme di postmodernismo richiedono un’adesione ideologica e dogmatica assoluta tanto ai principi indagatori del reale, quindi ai valori di uguaglianza economica e sociale, quanto ai minimi dettagli dello stesso atto interpretativo. Quante volte un dibattito anche affascinante è stato polarizzato dall’opinione pubblica, lasciando passare il messaggio che da principi convergenti derivi una e una sola soluzione ai problemi posti, e che la messa in discussione di tale proposta risolutiva sia un attacco agli stessi principi da cui essa si muove? Per fare alcuni esempi, si valutino le querelle sull’inclusività o sulla sostenibilità, dove spesso le argomentazioni si articolano come una serie di slogan più o meno giustificati dall’appartenenza a un gruppo sociale o all’altro, ma senza un’effettiva competenza in materia. In altri termini, il problema non è tanto che la variante ideologica del postmodernismo sia l’origine della polarizzazione del dibattito – troppe volte nella storia umana si sono avuti fenomeni simili. Piuttosto, la questione è che, a differenza della tradizione filosofica scientifica e illuministica, tali forme dogmatiche legittimano razionalmente interpretazioni quasi esclusivamente soggettive, e rimandano al mittente i contraddittori che dovrebbero bilanciarle.
A tal riguardo, vorrei fare riferimento ad un paio di contesti in cui la sovrapposizione di postmodernismo e ideologia si mostra particolarmente problematica. Il primo riguarda l’ambientalismo, incarnato nello specifico da movimenti quali Extinction Rebellion e Fridays For Future, a cui, tra l’altro, ho preso parte per circa un anno. In questi ambienti, il legame indissolubile tra sostenibilità ecologica e sociale si risolve immediatamente nella proposta di una “decrescita felice” basata sulla redistribuzione del capitale dai paesi trainanti a quelli più poveri. Questa soluzione, di chiaro stampo socialista, non è che una fra quelle proposte da chi studia queste materie – cito, ad esempio, le teorie di Ignacy Sachs2, che criticava l’assurdità della “decrescita felice” opponendovi una “crescita sostenibile” -, ma viene spacciata come l’unica valida nonostante la ben maggiore titubanza da parte della comunità scientifica. Sinteticamente, lo slogan ormai famoso “L’ambientalismo senza anticapitalismo è giardinaggio” è un’affermazione arbitraria, ideologica e – qualcuno direbbe, maliziosamente – antiscientifica: perché solo la redistribuzione può funzionare, e non un sistema di investimenti del tutto capitalistico?
Il secondo, invece, è forse più inquietante. Spesso non è noto, in Italia, il contesto sempre più sclerotizzato dell’accademia statunitense. Infatti, in un ambiente in cui Critical Race Theory, femminismo della terza ondata, teoria gender e queer rappresentano uno dei principali ambiti di studio delle Humanities (ovvero Letteratura, Storia, Filosofia, Antropologia, Sociologia e Scienze Politiche), le proposte anche condivisibili di incentivare l’inclusione di categorie minoritarie si stanno traducendo, sempre più, in prassi discriminatorie. Innanzitutto, a livello di ammissione dottorale, riconoscersi come parte di una comunità “oppressa” (sia essa razziale, di genere o di orientamento sessuale), favorisce l’assegnazione della borsa di ricerca, introducendo un criterio che nulla ha a che fare col valore dei progetti e dei curricula proposti. Questo fenomeno è anche dovuto al funzionamento degli atenei statunitensi, che spesso ricevono sovvenzioni private e statali in base alle loro statistiche, che ultimamente hanno compreso con sempre maggior forza, appunto, l’inclusività limitata alle categorie sopra indicate. Inoltre, chi si oppone anche solo parzialmente a queste prospettive interpretative – si tratti di docenti o di elementi del corpo studentesco – subisce minacce e violenze fisiche e psicologiche perdendo il sostegno dell’istituzione. Consiglio di approfondire la questione a partire dal caso del professore Peter Boghossian, che è stato costretto a dare le proprie dimissioni in seguito ad alcune sue perplessità riguardo la Critical Race Theory e la Cancel Culture3.
A questo punto, si può introdurre la questione della crisi radicale del concetto di autorità, incarnato in Italia nei suoi aspetti più deleteri dal M5S dell’“uno vale uno”. Infatti, secondo l’interpretazione più autistica delle narrazioni, se la ragione agisce sempre offuscata da pregiudizi morali, allora, pur dando per scontato l’accordo sui dati intellettuali-statistici (cosa, peraltro, per nulla scontata), l’assenza di una gerarchia razionale autorevole provoca il necessario ricorso ad un’autorità morale alternativa. Mi pare che fra quelle più vigorose oggigiorno vi sia l’autorità del “vittimismo”, in parte già toccato nel paragrafo precedente: chi esprime una condizione (anche in questo caso, vera o presunta) di vittima rispetto a un evento, a un contesto o al sistema, si situa in uno scalino più elevato della gerarchia morale e conoscitiva, così che la sua narrazione diventa più valida e più vera di altre concorrenti. L’altra faccia della medaglia, quella non supportata da analisi scientifiche o spacciate per tali, è il complottismo, che vuole esporre i fatti in maniera oppositiva rispetto all’establishment, con risultati che spaziano dall’ilare simpatia del terrapiattismo, all’inquietante rifiuto della scienza e della medicina.
A parte l’ovvia contraddizione – se tutto è narrazione, allora anche la morale è una costruzione sociale, dunque arbitraria -, emerge la vocazione profondamente borghese del “postmodernismo ideologico”. L’etica, l’unico appiglio in un mondo dove la ragione obiettiva è stata distrutta4, non potendosi appoggiare a valori razionalmente condivisi, giacché la ragione è arbitrio, si traduce nella mera opinione pubblica, già intrisa dei pregiudizi borghesi che si vorrebbero eliminare. Da qui deriva, ad esempio, il fenomeno dell’“indignazione social” che pretende di controllare le espressioni artistiche passate e contemporanee, di riscrivere la storia o di cancellarla. Ma su questo ritornerò in un prossimo intervento.
Si potrebbe proseguire con altri problemi, forse anche più rilevanti. Tuttavia, preferisco concludere sottolineando che il postmoderno, a mio avviso, ha un enorme potenziale democratico, poiché estende la sua critica a tutti gli ambiti conoscitivi del reale, e quindi a tutto lo scibile. Questo potenziale viene però meno se tale filosofia si mescola con i dogmatismi del determinismo sociale, che tentano di ridurre la sfera razionale e morale ad una meccanica trasfigurazione del contesto sociopolitico in cui operano gli attori conoscitivi. Per quanto gli influssi sociali siano importanti e da tenere sempre in considerazione, il postmodernismo non può che riscattare l’individuo in sede razionale, a scapito di quella morale. Pur riducendo al minimo la sua libertà, l’individuo resta comunque un “focolaio normativo”5, un’intersezione limitatamente originale e autonoma delle sfere di influenza sperimentate nell’arco della propria vita.
Note
- Cfr. Fredric Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism, London-New York, Verso 1991.
- Cfr. Ignacy Sachs, L’écodéveloppement: stratégies de transition vers le XXI siècle, Paris, Syros 1993.
- Cfr. https://www.linkiesta.it/2021/09/america-boghossian-cancel-ideologia/; https://www.dailymail.co.uk/news/article-9976403/Portland-State-professor-Peter-Boghossian-resigned-wokeism-speaks-out.html.
- Cfr. Gyorgy Lukacs, La distruzione della ragione, a cura di Elio Matassi, Milano-Udine, Mimesis 2011.
- Cfr Philippe Hamon, Texte et idéologie, Paris, Quadrige/Puf 1997 [1984].

di Francesco Vecchi
Studio Letteratura Inglese e Francese all’Università di Pisa e frequento la classe di Letteratura e Filologia Moderna, Linguistica presso la Scuola Normale Superiore. Nato nel 1998, mi ritengo liberale, volutamente anti-ideologico e soprattutto puntiglioso. Antipatico? Probabile, ma preferisco dire le cose come stanno. Amo la musica, il teatro, ovviamente la letteratura, e ho sempre nutrito un interesse sghembo per la politica.
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