Dopo la critica al postmodernismo ideologico e l’analisi del conformismo postmoderno, nel terzo articolo di questa serie analizzerò il rapporto reciproco e ambiguo tra l’opinione pubblica e la produzione artistica. Il taglio dell’articolo è eminentemente letterario, con incursioni sull’intrattenimento e ha l’obiettivo di mostrare le persistenze del Romanticismo nell’opinione pubblica contemporanea e la sua incompatibilità con posizioni di stampo socialista. Comincio quindi recuperando le tesi di René Girard, il cui obiettivo polemico sono le “illusioni romantiche”, e in particolare l’autonomia individuale basata su un desiderio che si suppone spontaneo e che costituirebbe l’espressione di una libera scelta da parte del soggetto desiderante1. Come già chiarito nell’articolo precedente, secondo il filosofo questa libertà non esiste e il desiderio si articola come imitazione di un mediatore – di un terzo che ‘media’ tra soggetto e oggetto desiderato: il soggetto desidera ciò che desidera il mediatore poiché, in ultima analisi, desidera essere il mediatore stesso
Ne emerge una feroce critica all’individualismo romantico, l’unica forma artistica storicamente che abbia supportato la classe liberale, borghese e capitalistica. In questo stesso solco si inserisce, a mio parere, la critica all’eurocentrismo della “sinistra postmoderna”, che pone sotto accusa proprio la libertà individuale e lo storicismo. Da un lato, l’individuo non è mai libero, anzi l’individuo non esiste, se non come somma dei contesti in cui si muove e che subisce passivamente. Dall’altro, l’egemonia occidentale è frutto soltanto di un processo storico arbitrario, fatto di soprusi, violenza e sfruttamento economico sociale politico culturale, giustificato tendenziosamente come progresso.
Per quanto si possano sposare tali posizioni, specialmente la seconda – la storia, del resto, è almeno parzialmente un processo arbitrario -, bisogna sottolineare che anche in ambito liberale, la libertà assoluta dell’individuo è un’utopia. Anzi, uno dei fondamenti delle democrazie liberali è che la libertà finisca dove comincia quella altrui. Nemmeno il più agguerrito liberista sostiene che una scelta, benché libera, non abbia luogo in un contesto preciso, spesso vincolante. Eppure, è difficile che un contesto non presenti delle scelte alternative, all’interno delle quali interviene un principio di discrezionalità che, se svincolato dal libero arbitrio e dalla responsabilità civile che ne consegue, rischia di minare la parità giuridica garante dei regimi democratici. In sostanza, il contesto in cui si agisce può determinare al massimo delle attenuanti o dare ragione di una scelta, specie se contro la legge, ma non può eliminare la responsabilità di chi la compie.
Tornando invece allo storicismo, cioè la presunzione che nella storia si affermi chi dimostra una certa superiorità rispetto a chi viene sottomesso, la stessa sinistra contemporanea spesso mostra un’impostazione di questo tipo. Innanzitutto, criticando la costruzione del progresso adoperata dalla cultura occidentale, si inserisce in quello stesso percorso di sviluppo, arrogandosi una posizione privilegiata nel panorama culturale. Pertanto, le nuove ideologie non scardinano il principio gerarchico, ma si pongono sulla sua sommità, catalogando come parziali o limitate tutte le altre. Per farlo, ricorrono al topos romantico dell’“originalità”, facendosi forza soprattutto sulla novità delle loro proposte interpretative, tradendo, però, una latente impostazione teleologica.
Vi è poi un altro inquietante controsenso. La recente invasione dell’Ucraina dimostra che, nell’epoca in cui viviamo, la questione della sicurezza è sempre più all’ordine del giorno, toccando quasi tutti gli ambiti della vita sociale contemporanea: la protezione informatica, quella militare e civile, la garanzia dell’identità burocratica e virtuale. Questa esigenza di sicurezza viene spesso ricondotta alla crisi delle istituzioni tradizionali fra cui il principio razionale unitario, e viene espressa della Age of Anxiety di Auden2 e dalla Modernità liquida di Bauman3. Nel primo articolo della serie ho mostrato come, in ambito culturale e politico, questa incertezza venga compensata da un approccio dogmatico ad alcune istanze. Ma parlando di arte, specie quella di consumo, come si esplicita?
Mi pare che un dato notevole riguardi la proliferazione di opere positiviste: con questa categoria mi riferisco, soprattutto, a quelle espressioni artistiche strutturate intorno ad un paradigma indiziario4 che viene oggettivamente interpretato dall’eroe, trovando la soluzione al caso con dei riscontri positivi per la società. È il caso della sterminata produzione di gialli e di racconti medici, talvolta con contaminazioni, come nella serie statunitense di successo: Un detective in corsia (1993-2001). A ben vedere, la sicurezza indotta è di tutto rilievo: in questi prodotti la verità è univoca, giacché i colpevoli sono chiaramente identificabili e una sola patologia colpisce il caso clinico di turno; inoltre, la verità è interpretabile scientificamente o razionalmente, mettendo a sistema i tasselli che via via emergono; e, una volta trovata la soluzione, l’ordine preesistente viene ristabilito, garantendo l’armonia sociale.

Se ne deducono due elementi fondamentali. Innanzitutto, il ricorso a formule modulari o prevedibili: l’analisi della scena del delitto o dei sintomi; la prosecuzione dell’indagine sulla pista più scontata che si rivela quella sbagliata; il cambio di rotta verso la soluzione corretta; il trionfo finale dell’eroe o dell’eroina che sancisce il ritorno alla normalità. Il tutto, ovviamente, seguendo lo sviluppo drammatico più canonico possibile, spesso intrecciato e valorizzato dall’inserimento dello specifico caso in analisi nel quadro di una storia più ampia, di cui l’evento investigativo rappresenta un nucleo di organizzazione narrativa. Si pensi a Dexter e Grey’s anatomy, o in ambito italiano a Non uccidere e Doc. In secondo luogo, i protagonisti hanno una precisa responsabilità etica e civile, poiché dal loro successo o dal loro fallimento dipende la vita dei pazienti o la ricomposizione giuridica dopo un reato: in entrambi i casi, appunto, è necessaria la riaffermazione della sicurezza.
Ne consegue che l’eroe non può essere l’antieroe della tradizione novecentesca, come L’uomo senza qualità di Musil. Al contrario, dev’essere un supereroe difettoso, bilanciando con limiti caratteriali l’assoluto dominio razionale della realtà di cui dispone. In questo modo, chi guarda o legge può immedesimarsi nel personaggio mentre si garantisce la risoluzione rassicurante della trama. Inoltre, la dimensione superomistica provoca una divisione manichea tra bene e male, poiché il bene sta sempre dalla parte dell’eroe, mentre il male (il morbo, il crimine) ne è l’irriducibile nemico. Senza contare che l’eroe incarna un principio di ordine fisiologico e sociale, contrapposto ad elementi di disturbo di tale sistema – siano essi degli scompensi patologici o delle infrazioni del codice giudiziario.
Non è un caso, quindi, che fra i generi artistici più apprezzati ci siano fantasy e fantascienza. In effetti, oltre alla loro natura di evasione rispetto alla realtà, essi ripropongono la medesima polarizzazione dei personaggi, con l’immancabile vittoria del bene sul male. Per onestà intellettuale, si deve ricordare che nella distribuzione di massa vengono privilegiati i prodotti più banali, almeno da questo punto di vista, come per esempio Tolkien, Star Wars o una serie quale The Witcher. A questi casi, dove l’identificazione con l’eroe buono è data per scontata e costituisce uno dei perni fondamentali della trama, si potrebbero contrapporre molti esempi meno tranchant, quali Aldous Huxley di A Brave New World (1933), o Ray Bradbury in Cronache marziane (1950), fino a culminare nell’indiscusso capolavoro del Ciclo delle fondazioni (1951-1988) di Isaac Asimov. Rimanendo però in ambito più commerciale, si può fare riferimento a serie televisive (casualmente tratte da romanzi) come The Man in the High Castle o Game of Thrones, che invece mostrano una distinzione molto più sfumata e complicata tra i due schieramenti canonici.
Mi permetto un’ultima digressione prima di recuperare le fila del discorso. Un’altra questione all’ordine del giorno nei prodotti culturali (di alta e di bassa levatura) è la ricerca dell’identità, con ricadute non solo caratteriali ma anche culturali, politiche e sociali. Infatti, la cultura contemporanea ha cessato di analizzare dei soggetti potenzialmente universali che seguano percorsi assolutamente validi, ma si sta dedicando sempre di più a ricerche identitarie legate proprio alle categorie lasciate ai margini della società, siano esse etniche, religiose, culturali, sessuali o di genere. Si pensi, ad esempio, all’inaudita quantità di sottotrame non canoniche presenti in una serie come Sex Education o all’idea di fondo di Dear White People, o, ancora, alla versione italiana di Skam, che spazia dall’erotismo omosessuale, alle minoranze religiose, al trauma della molestia sessuale e via dicendo.
Eppure, facendo una rapida conta di queste direttrici, ne emergono non pochi tratti di somiglianza con un’impostazione romantica della cultura. In primis, eroi ed eroine devono avere un certo dominio della realtà grazie alla loro forza razionale (spirituale, con una traslazione lessicale) e con una eminente vocazione sociale. In secondo luogo, l’opposizione interna al sistema dei personaggi si struttura come una nettissima polarizzazione delle istanze, con chiari confini tra i due campi in lotta. Infine, le categorie identitarie assumono una funzione centrale nella determinazione dell’individuo, diventando vere e proprie definizioni. Oltre a ricalcare alcuni dettami romantici, mi pare che queste caratteristiche riflettano anche il quadro dell’opinione pubblica contemporanea, in cui, quindi, si possono riconoscere origini e modi di funzionamento molto più antichi di quanto l’esigenza di rinnovamento percepita lascerebbe supporre.
A quanto detto si aggiunga un altro elemento, ovvero il tentativo da parte dell’opinione pubblica di controllare la libertà artistica. Ho già affrontato nel primo articolo come il venir meno dello statuto conoscitivo universale della ragione faccia assumere alla morale una posizione gerarchica di primo rilievo, benché questa stessa morale – non razionalmente argomentabile perché la ragione è limitata dal contesto – sia solitamente una mera espressione dell’opinione pubblica. Pertanto, l’etica che struttura il dibattito pubblico non è che un presunto “buon senso” che vorrebbe ridurre l’impatto dell’arte contenendone le possibili offese – specialmente quando si parla di arte inserita nel mercato capitalistico, che quindi non è creata solo per fini estetici o espressivi, ma anche per il sostentamento economico dell’artista. Ad esempio, a seconda delle diverse fasce d’età, vi sono i tentativi di imbrigliare l’arte in rappresentazioni edulcorate, che non offendano la sensibilità di chi guarda, legge e ascolta, che non sfidino le convenzioni nella rappresentazione concreta della violenza e, in generale, di quanto è considerato inaccettabile dalla morale condivisa. A tal proposito, si pensi alle pesanti critiche rivolte al romanzo Plateforme (2001) di Michel Houellebecq, motivate dal fatto che l’autore, in chiave palesemente grottesca, proponeva il turismo sessuale come soluzione tanto alla depressione morale occidentale quanto a quella economica dei paesi in via di sviluppo. O ancora, benché con palesi divergenze all’interno della critica, si potrebbe menzionare il caso dei pamphlets antisemiti di Céline (soprattutto L’École des cadavres, 1938), la cui riedizione con commento e apparato filologici è stata cassata in Francia, col risultato che, ad oggi, l’accesso a questi testi può avvenire tranquillamente online senza alcuna mediazione e contestualizzazione scientifica. Infine, rimando rapidamente al dibattito sorto intorno la cosiddetta “pornografia del dolore”5 e la liceità o meno di rappresentare scene di stupro o violenza, specie sulle donne, che rischierebbero di incentivare tali comportamenti.
Ecco, dunque, riemergere nuovamente alcune prerogative romantiche, non solo e non tanto per la convinzione che l’arte debba veicolare degli insegnamenti morali o delle regole di buon comportamento, cose già ampiamente scialacquate da autori quali Sade, Flaubert o Zola, quanto, invece, nell’apparente esigenza di impegno, di un impegno fortemente connotato e ancora oggi richiesto in ambito letterario6. Peraltro, questa esigenza di engagement ha, in realtà, due esiti contrapposti e contraddittori. Da un lato, si ha la domanda di un’arte oltranzista che incontra il favore dell’opinione pubblica giovanile col rischio di essere presto inghiottita e dimenticata all’avvento della successiva ondata ideologica. Si tratta della parabola di J.K. Rowling, rapidamente passata da astro del femminismo a reietta per le sue posizioni sulla comunità LGBTQ+. Dall’altro, invece, ci si rifugia in un’arte che interpreta l’individualismo più spicciolo in chiave intimista, all’insegna di una leggerezza svuotata di senso, col rischio di subire l’accusa di mera commercializzazione della propria arte. Ancora una volta, in entrambi i casi, a farla da padrone è il conformismo, che si esplicita, quindi, o nell’adesione ai dettami ideologici dell’epoca oppure nel silenzio a loro riguardo, per evitare un contraddittorio potenzialmente deleterio per l’immagine pubblica di chi scrive.
Queste osservazioni ci permettono di approfondire il genere dell’autofiction, ormai consolidato nel panorama letterario tanto da essere ritenuto l’unica forma possibile di scrittura narrativa. Col termine autofiction si intende un tipo di narrazione che ricalca a grandi linee l’autobiografia, modificandone e amplificandone alcuni episodi o rimodulandone la sequenza con precisi fini letterari. Rinvio a un romanzo come La straniera (2019) di Claudia Durastanti, in cui l’autrice recupera e mette in discussione le proprie mitologie individuali e famigliari, e al film Adaptation: Il ladro di orchidee (2002), che ha come protagonista un alter ego dello stesso sceneggiatore Charlie Kaufman alle prese con il blocco dello scrittore dopo la conclusione di Essere John Malkovich (1999), scritto proprio da lui. Per inquadrare il genere bisogna tenere conto che la crisi postmoderna dell’obiettività confluisce in una netta presa di distacco non solo del narratore onnisciente, tecnica già abbandonata dal modernismo, bensì anche dal concetto di realtà, ancora riconosciuto da autori come Joyce, Proust e Faulkner. In breve, nel modernismo era ancora l’io a estendersi verso una realtà che cercava di comprendere, mentre nel postmodernismo si postula che l’unica cosa esistente e conoscibile sia l’impatto che il mondo ha sul soggetto. Si può rappresentare solo come l’io percepisce e ricostruisce il mondo, sfociando in una trasfigurazione più o meno letteraria e finzionale della propria biografia. Si veda la produzione in prosa di Valerio Magrelli, la ricorrenza del narratore nei romanzi di Philip Roth, e la straordinaria macchina narrativa messa in piedi da Graham Swift in Waterland (1983).
Quello che si verifica è una radicale involuzione solipsista, giacché non si vuole rappresentare oggettivamente un processo mentale che deforma la realtà, come, invece, avveniva nel modernismo. Al contrario, si riconosce la validità di quel medesimo atto deformante a livello conoscitivo, e quindi come principio legittimo di interpretazione morale, sociale e politica. L’effetto, evidentemente, è la chiusura autistica di chi scrive e di chi legge in un universo a misura del proprio ego, dove non esiste alcun confronto concreto con la realtà, ma solo la sua mediazione individuale. Un risultato sull’opinione pubblica è che, per conservare questo precario equilibrio solipsistico, si deve ridurre al minimo il confronto con le altre persone, che sono inevitabilmente diverse rispetto all’io di partenza. Ne consegue che il soggetto postmoderno è sostanzialmente incapace di comunicare col diverso da sé, e quindi sostenibile solo in una dimensione conformistica che abolisce il confronto. Da qui derivano, ad esempio, alcune forme di politicamente corretto, quelle che non si limitano a rispettare le persone con cui ci si relaziona, ma che mirano a non offendere nessuno, o meglio, a non mettere in discussione nessuno criticandone le contraddizioni argomentative e intellettuali.
In conclusione, bisogna però anche riconoscere che quando questi strumenti vengono utilizzati accortamente, evitando dogmatismi, ideologie e conformismo, essi si rivelano artisticamente molto validi. Per fare un esempio su tutti, cito la letteratura postcoloniale, che usa il concetto di narrazioni per dare una diversa prospettiva sui processi storici, configurandosi sempre come profondamente individuale, sia dal punto di vista geografico (ciascuna nazione colonizzata ha una storia diversa), sia da quello del personaggio. Non è un caso, infatti, che gran parte di questa letteratura si interroghi sulla questione dell’identità, che si esplicita anche e soprattutto attraverso il linguaggio. Rimando a tal proposito ad alcune figure letterarie italiane come Pap Khouma, Salah Methnani, Nassera Chohra e Nadeesha Uyangoda. Ancora una volta, quindi, il postmodernismo risulta maggiormente efficace quando riconosce le sue origini individualistiche, liberali e romantiche, poiché, criticandole, molto spesso le ripropone nella loro versione politica più scadente.
Note
- Cfr. René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris, Grasset 1961.
- Cfr. Wystan Hugh Auden, The Age of Anxiety, 1947 [a cura di Alan Jacobs, Princeton University Press, 2011].
- Cfr. Zygmunt Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity Press 2000.
- Cfr. Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi 2000.
- Cfr. https://kmagazine.it/it/cultura/pornografia-del-dolore-giornalismo-etica/; https://www.liberopensiero.eu/11/12/2017/attualita/pornografia-del-dolore-social-network/; https://www.ilbecco.it/comunicare-la-tragedia-tra-pornografia-del-dolore-e-impegno-politico-2/.
- Si legga, a tal proposito, il pamphlet di Walter Siti, Contro l’impegno, Milano, Rizzoli 2021.