
Ka, Khef e Ka-Tet: un po’ di tutto sul re del terr(orr)ore
Anche detto “Diciannove pistoleri andavano alla Torre nera in cerca di rose”
Ormai, dopo quasi cinquant’anni di inarrestabile attività, il termine paura, in letteratura, non può che essere riferito a un solo uomo: “il Re dell’orrore”, come viene chiamato dalla stampa italiana giocando col suo cognome, Stephen King.
In molti si chiedono cosa si possa celare dietro una scrittura così inquietante, argomenti cruenti, crudi, sanguinosi, terrorizzanti, presupponendo che la mente che li partorisce non possa che essere disturbata o corrotta. Questi “molti”, spesso, non hanno letto un libro di SK, o quantomeno non quello giusto. Non fraintendiamo, King non è un santo: ha avuto seri problemi di dipendenza, argomento che infatti, spesso, affronta nella sua letteratura personale. Ma non è nemmeno da mistificare o rinchiudere in un solo genere di scrittura. Dalla penna del Re sono nati grandi libri che, di orrore, quantomeno nel senso classico, hanno ben poco: si veda Il Miglio Verde, Le Ali della Libertà, Stand by Me (in realtà titolo del film, il racconto è Il Corpo), 22.11.63 e molti altri che coprono una quantità non indifferente di generi.
È di solito questo il momento nel quale, chi non conosce bene King, comincia a rimanere interdetto e a farsi catturare un po’ di più dalla conversazione: “ma quindi davvero non scrive solo romanzi di paura?”. Ma invito anche chi lo conosce a proseguire con la lettura, perché vi assicuro che potreste rimanere stupiti da ciò che troverete. Ora che ho la vostra attenzione, facciamo un viaggio assieme alla scoperta del fascino che quest’uomo ha creato all’interno dell’enorme numero di produzioni scritte nell’arco di cinquant’anni (per i più curiosi, ottantadue scritti, includendo romanzi, saggi e raccolte di racconti, ed escludendo sceneggiature e altre produzioni minori).
Questa storia comincia il 21 settembre 1947 a Portland, nel suo amato e ormai globalmente rinomato Maine. È infatti qui che un buon 80% dei suoi romanzi è ambientato: fra Bangor (dove abita al tempo presente), Portland e le città fittizie di Derry (per intenderci, quella di It) e Castle Rock si svolge la maggior parte della sua narrazione. Il Re trasporta il New England in maniera abbastanza importante nella sua scrittura, spesso rifacendosi a tanti termini dello slang della sua nazione che i traduttori hanno l’arduo lavoro di dover trasporre. King è, infatti, l’esempio lampante di quando si dice “scrivi di ciò che sai”: i suoi protagonisti sono spesso scrittori o insegnanti di letteratura inglese e, fra le scene più memorabili per le quali lo conosciamo, parlando principalmente dei film tratti dei suoi libri in quanto veicolo forse ancora più popolare della sua penna, ci sono sue esperienze personali.
Qualche esempio? In Shining, Jack Torrance (il protagonista, scrittore e alcolizzato) dialoga spesso al bar dell’hotel con un cameriere fantasma, Lloyd, il quale gli dà qualche idea un po’ poco “convenzionale” che contribuirà a portarlo alla follia. Ebbene, anche King, quando ancora vittima dell’alcolismo, si ritrovò in un hotel vuoto, una strana sera, a dialogare con un barista di cose fuori dal normale. Oppure, ancora, in Pet Sematary, un romanzo fra i più conosciuti e ritenuto in assoluto fra i più spaventosi della produzione kingiana, il figlio più piccolo di una famiglia viene investito da un camion perché i genitori si distraggono per un istante ed egli corre verso una superstrada che passa proprio di fianco alla loro casa. Il Re non ha fortunatamente mai perso un figlio, ma riuscì a salvarlo proprio subito prima del disastro, accendendo in lui la fatidica domanda “e se…” che diede poi origine al libro.
King cresce senza padre: ai due anni di suo figlio, Donald King abbandona la famiglia, lasciandola così in una situazione economicamente instabile. Eppure, dalla scrittura di SK, emerge un’infanzia che non può che essere entusiasmante e serena: se c’è una cosa che la critica ha sempre riconosciuto al Re è la capacità di scrivere di quel periodo della vita di tutti in maniera estremamente realistica. Buona parte dei suoi romanzi coinvolge gruppi di preadolescenti e forti legami di amicizia, come nei famosissimi It o Stand by Me, raccontati con una profondità e un’accuratezza tale da non poter che essere parzialmente autobiografici. I suoi personaggi sono profondi, travagliati e, spesso, hanno a che fare con parenti abusivi.
Che sia l’alcolismo, la violenza fisica, sindrome di Munchhausen per procura o invasamento religioso, i genitori adulti raramente hanno un’accezione positiva nei suoi romanzi. L’esempio più lampante è forse l’ultimo accennato: la madre di Carrie (nome del suo primo romanzo), con l’avvento della prima mestruazione di sua figlia, la punisce rinchiudendola in un armadio per giorni, senza cibo, acqua o possibilità di andare al bagno, in quanto “deve aver peccato perché Satana l’abbia dovuta punire con quel sangue”. Le punizioni religiose peggiorano con l’avanzare del romanzo.
La religione è sicuramente un argomento complesso nella sua produzione. King nasce e cresce metodista, ma perde presto fiducia nelle religioni “organizzate”. Dichiara di credere in Dio, e in realtà questo è abbastanza riscontrabile nel tema sempre ricorrente dell’eterno scontro fra il Bene e il Male, due fazioni ben chiare in ciò che scrive. I personaggi religiosi sono quasi sempre negativi, pesantemente influenzati dalle loro credenze cattoliche, che vengono imposte sugli altri con la forza e la prepotenza. Ci sono delle piacevoli eccezioni: da menzionare sicuramente Madre Abagail, una donna nera ultracentenaria rappresentante del Bene nelle due schiere de L’Ombra dello Scorpione, la quale si ritiene tramite della parola di Dio e pensa che i suoi poteri siano l’azione del Sommo attraverso lei (e in realtà il finale del libro sembra darle ragione), e Padre Callahan, fra i personaggi principali di Le Notti di Salem, che, con la sua fede, troverà il coraggio di affrontare il male che affligge la sua città, Jerusalem’s Lot.
Il Re comprende la sua vocazione quando, rovistando in soffitta con suo fratello maggiore, trova una versione di The Lurker at the Threshold di H. P. Lovecraft e improvvisamente scatta la scintilla: “ecco cosa voglio fare da grande”. Crescendo, matura ancor di più l’idea di concretizzare questo pensiero, al punto di provare a farsi pubblicare qualche racconto, fallendo, diventando insegnante di italiano, fino alla sua prima importante pubblicazione a ventisette anni: Carrie. È da questo momento che, la sua popolarità, comincia fin da subito a crescere esponenzialmente: nel giro di due anni, il romanzo è già un film diretto da niente di meno che Brian de Palma. Nessuno può più fermare la penna di Stephen. Finalmente ha qualcuno che lo ascolti e da quel momento scrive e scrive, arrivando a pubblicare diversi romanzi all’anno.
La sua casa editrice non riesce però a seguirlo adeguatamente e, temendo che il mercato si saturi di suoi scritti, gli chiede di rallentare. Il Re, però, come spesso espone nei suoi saggi sulla scrittura e nei suoi romanzi, non è in grado di smettere di attingere dalla “pozza delle idee”: i personaggi, le storie, gli arrivano, “passano attraverso di lui per imprimersi sulla pagina”, non lo può controllare in quanto lui è solo un tramite, spesso arrivando addirittura a dichiarare che “non conosce la storia o il finale, sono i personaggi a costruirla parola per parola”1. Bisogna quindi trovare un escamotage, un modo per continuare a pubblicare senza riempire le librerie di libri sotto la lettera K, ed è così che nasce Richard Bachman: uno pseudonimo che funziona per qualche anno e con il quale King torna ad avere la libertà di scrivere ciò che vuole. Non solo, ma egli stesso accoglie l’idea di buon grado, volendo sapere se il suo pubblico apprezza ciò che scrive per il suo nome o per il contenuto. Prevedibilmente, l’inizio è un po’ sottotono. Pubblica Rage per primo, ma i primi romanzi vengono letti poco.
Con l’uscita di Thinner, dalle tinte più horror, il suo stile si fa sentire in maniera più preponderante e la copertura comincia a crollare, fino all’iconica intervista nella quale conferma la sua identità, che si apre così: “Il romanziere Richard Bachman è morto di assideramento qualche mese fa. Io ho aiutato a ucciderlo”2. La rivelazione incrementa pericolosamente la popolarità dei suoi libri, avverbio non scelto a caso. È infatti così che si origina l’unica grande controversia che ha afflitto la carriera di King: il primo libro pubblicato sotto pseudonimo, Rage (in italiano traducibile in Furia), racconta di un ragazzo che dopo essere stato ripreso dal preside, prende una pistola dal proprio armadietto e uccide la professoressa di algebra durante una lezione, tenendo in ostaggio la classe. Purtroppo, negli anni successivi alla nuova popolarità dei romanzi di Bachman, circa cinque sparatorie a scuola a carico di adolescenti sono state ricollegate al libro, essendo questo stato letto dai ragazzi in questione. King ha interrotto la produzione del romanzo, ritirandolo dal mercato e rendendolo introvabile, al punto che oggi è considerato un pezzo per collezionisti. Trentasei anni dopo la pubblicazione di Rage, il Re scrive Guns, un saggio che affronta il tema delle armi in America (schierandosi per il necessario controllo delle stesse), dedicando un intero capitolo alla questione:
«il mio libro non ha fatto crollare [gli adolescenti responsabili delle sparatorie] e non li ha fatti diventare assassini; loro hanno trovato qualcosa nel mio libro che gli ha parlato perché erano già crollati. Tuttavia ho capito che Rage avrebbe potuto essere un accelerante, ergo il motivo per cui l’ho ritirato dal mercato. Non lasci una tanica di benzina dove un ragazzo con tendenze piromani può aggrapparla».3

Problematiche psicosociali di questo tipo ricorrono spesso nella produzione di King. La complessità e le sfaccettature dei suoi personaggi sono parte del grande fascino che ha la sua penna agli occhi del mondo: è vero che la tematica del Bene contro il Male (che hanno un volto molto preciso per SK, di cui si tratterà fra poco) è ricorrente, ma è altresì vero che i protagonisti delle sue storie, spesso, hanno una morale discutibile. Centinaia di personaggi vivono un arco di redenzione, cominciando la storia come arroganti, diffidenti e a tratti crudeli per concluderla altruisti, buoni e umili. Un esempio è Larry Underwood, uno dei protagonisti de L’Ombra dello Scorpione, un musicista la cui popolarità tocca l’apice subito prima di una pandemia che decima la popolazione mondiale (curiosamente, questo libro del 1978, nonché il più lungo in assoluto della sua carriera con un’impressionante quota di millequattrocento pagine, ha rivisto un picco di vendite nel 2020). Tuttavia, spesso capita anche il contrario: figure che appaiono sorridenti, affabili e affidabili, piano piano crollano sotto il peso delle circostanze, cadendo nella follia. L’esempio forse più lampante è il già nominato Jack Torrance, ma figure di questo tipo ricorrono spesso: per continuare con l’esempio precedente, probabilmente Nadine Cross, compagna di viaggio di Larry, è una lampante dimostrazione di ciò. Ma da dove nasce questa psiche così complessa e tormentata dei personaggi?
Come accennato precedentemente, non può che venire dalla realtà, non può che essere autobiografica. King ha infatti avuto seri problemi di alcolismo e dipendenza nell’età post-adolescenziale, arrivando a esserne quasi del tutto assuefatto. Ai tempi, lo considerava la scintilla che poteva favorire il processo di scrittura: è facile dedurre che, se l’uso di droghe andava di pari passo con la scrittura, rendendo necessario creare uno pseudonimo per non frenare la sua penna, King non potesse trovarsi in uno stato fisico o mentale sano. Addirittura egli ammette, nel suo saggio sulla scrittura On Writing, che al funerale di sua mamma tenne il suo elogio funebre totalmente ubriaco e che ricorda ben poco del processo di scrittura di uno dei suoi libri più famosi, Cujo, un romanzo su un cane rabbioso che semina caos nella cittadina di Castle Rock, in quanto soggiogato dall’uso di cocaina. Alla fine degli anni ’80, quando sua moglie e i suoi figli non gli lasciano alternativa, riesce finalmente a tornare sobrio e abbandona completamente l’uso di alcool e stupefacenti.
Spesso i suoi personaggi si ritrovano ad affrontare proprio questa problematica, ma è forse con Eddie Dean, uno dei tre protagonisti della saga de La Torre Nera, che il Re ha finalmente la possibilità di prendersi tutto il tempo di affrontare questo tema. Un eroinomane che decide, senza molte alternative, di seguire il protagonista per eccellenza della storia, Roland, e grazie al quale riuscirà a trasformarsi in un eroe.
Ecco, se c’è una cosa che a SK non piace molto, è scrivere saghe. Nella sua produzione, i casi di numerosi sequel sono rari, ritrovandoci a nominare, forse, solo la trilogia di Mr. Mercedes (un thriller poliziesco diventato anche una famosa serie TV), la supposta trilogia, per ora composta solo da due libri, ossia Il Talismano (arriverà fra poco un adattamento su Netflix a carico dei creatori di Stranger Things) e La Casa del Buio e la sopracitata Torre Nera. Probabilmente il motivo per cui egli ha fatto questa scelta è la decisione di concentrare tutta la sua produzione seriale proprio in quest’ultima saga, composta da ben otto libri e da egli considerata il suo magnum opus, la sua opera madre di tutte le altre. Con questa, infatti, si origina, si conferma e si dirama il Multiverso Letterario di Stephen King. Ci sarebbero da scrivere pagine e pagine (e in realtà sono stati scritti interi libri) a proposito, ma cercherò di racchiuderne il fascino e la complessità nelle righe seguenti.

L’idea della Torre Nera nasce da diversi stimoli: da quando era ragazzo, King desiderava lasciare in eredità al mondo una sua opera che potesse racchiudere la stessa epicità e maestosità di ciò che ha raggiunto Tolkien con Il Signore degli Anelli e l’idea arriva dopo aver letto una poesia di Robert Browning, Childe Roland alla Torre Nera giunse. King crea un universo (anzi, più di uno) difficile da raccontare con così poco spazio, ma la cui atmosfera risulta chiara alla lettura: ci troviamo nel Medio-Mondo, una parte dell’Onni-Mondo, nel quale, millenni prima, esistette una civiltà tecnologicamente avanzata che si estinse e lasciò il posto a una società con una struttura che ricorda quella medievale classica degli high fantasy come Il Trono di Spade e Il Signore degli Anelli, ma che ruota attorno alla figura dei pistoleri e a un contesto prettamente western, come se fosse tratto da un film di Clint Eastwood.
Insomma, un’ambientazione complessa e unica che, di primo acchito, può sembrare ridicola, ma che ha perfettamente senso e origina una storia altrettanto sensata. In queste circostanze comincia il viaggio di Roland Deschain, l’ultimo pistolero rimasto nel suo mondo con l’unico obiettivo di raggiungere La Torre Nera. L’universo di Roland è scarno, desolato, spopolato, ha ormai abbandonato la sua epoca rigogliosa e “sta andando avanti”, un’espressione utilizzata per descrivere come i concetti di spazio e tempo si stiano lentamente disfacendo a causa dell’imminente crollo del perno di tutti gli universi, proprio la fantomatica Torre. Egli prende, quindi, come missione personale quella di salvare la Torre dal crollo e, con essa, il destino di ogni universo che esiste.
All’interno di questa premessa si esprime tutto il folklore del multiverso kingiano: egli sfrutta questo nodo multiversale per giustificare tutta la sua produzione letteraria. Nella saga nasce un simbolismo e una numerologia che sono ricorrenti nei libri del Re: si veda ad esempio l’importanza del numero diciannove già dal primo libro della saga, L’Ultimo Cavaliere, oppure le rose rosse, un campo delle quali circonda la Torre. Inoltre, egli crea una lingua, la Lingua Eccelsa (proprio nello stile di Tolkien e Martin), che appartiene ai pistoleri, per introdurre concetti fondamentali per la sua letteratura, tra i quali troviamo i tre che danno il titolo a questo articolo: Ka, Khef e Ka-tet.
Il Ka è un concetto complesso da spiegare: rappresenta il destino, ma King in più occasioni ha la premura di ricordare come questa sia una definizione riduttiva. «Il Ka è una ruota» dicono spesso i personaggi dei suoi libri, intendendo come sia costantemente in funzione e come quello che si dà, ritornerà. Il Ka è una guida, non un piano prestabilito od obbligato, tant’è che si può effettivamente, molto raramente, sovrastarlo. Non è una forza né del bene, né del male, in quanto manipola entrambi gli schieramenti. Un Ka-tet è un gruppo di persone che condividono lo stesso Ka: i protagonisti della saga (Eddie, Roland, Susannah e Jake) formano un Ka-tet di pistoleri che devono raggiungere e salvare la Torre. Infine il Khef è «L’Acqua della Vita»: è la rete che connette i componenti di un Ka-tet, permettendo loro di condividere sensazioni e sentimenti. L’analogia, in questo caso, sarebbe quella della telepatia ma, anche qui, ha un significato più ampio: non è necessario dover volontariamente decidere di comunicare un messaggio, semplicemente tutti comprendono senza parole, una profonda empatia. Questi tre concetti sono alla base della grande parte delle storie di King: anche se spesso non espresso a parole con questi vocaboli, il lettore sa quando si trova davanti al Ka o un Ka-tet.
King ci mette più di trent’anni per completare i sette libri della saga principale (l’ottavo è uno spin-off): L’Ultimo Cavaliere, La Chiamata dei Tre, Terre Desolate, La Sfera del Buio, La Leggenda del Vento (lo spin-off scritto anni dopo la conclusione che si inserisce cronologicamente qui), I Lupi del Calla, La Canzone di Susannah e La Torre Nera. Prima dell’inizio di ogni libro, una volta sfogliate le prime pagine, ce ne sono sempre due che contengono una parola ognuna: nella prima c’è sempre al centro “19”, mentre nella seconda una parola diversa per ogni libro: in ordine, Ripresa, Rinnovamento, Redenzione, Riguardo, Resistenza, Riproduzione e Rivelazione. La stesura è difficile, SK si interrompe spesso e dopo il quarto si ferma per lungo tempo nella scrittura. Tuttavia, il 19 giugno 1999 (ancora una volta, con una strana e inquietante coincidenza, il diciannove diventa un numero importante per lui) il Re viene investito da un furgoncino, lasciandolo in fin di vita. Il recupero è duro: lo scrittore rimarrà in ospedale per mesi e l’incidente lo segnerà per la vita, limitandogli i movimenti con le anche, ma è proprio questo incontro ravvicinato con la morte che gli aprirà gli occhi: “non posso andarmene senza aver completato la mia opera”4. E così riprese la scrittura: scrisse gli ultimi tre libri tutto d’un fiato, come fosse un unico grande libro che poi separa in tre parti5. Alla luce di questi nuovi capitoli, pubblicati a distanza di così tanti anni dai primi, sistema i primi quattro e li rilascia in una nuova edizione, rivista e corretta. Il mondo ha finalmente la chiave di lettura del suo multiverso.
Ogni libro che lui abbia mai scritto occupa un “livello” della Torre differente, spesso fondendosi con altri e dando origine così a collisioni che si esprimono nei modi più disparati: alcuni personaggi di altri libri che ritornano in nuove storie, somme di numeri o di quantità di lettere in nomi di personaggi che fanno proprio diciannove, piccoli richiami a rose che producono musiche celestiali e altre connessioni che solo chi ha letto quegli otto libri riesce inequivocabilmente a cogliere. Per King, questa faccenda del multiverso è talmente seria che (e qua avviso ai lettori interessati alla lettura che seguirà uno spoiler estremamente importante sulla saga) trasforma i libri in un esperimento metaletterario quando, alla fine del quinto e all’interno del sesto, i suoi protagonisti, per salvare la Torre, si troveranno a dover viaggiare in un universo in cui abita il loro stesso scrittore, il Re stesso, per confrontarlo.
Se c’è un concetto forse ancora più importante da trattare quando si parla della Torre Nera, questo è la natura del Male. Per SK, il Male è il Re Cremisi (da “Crimson King”, anche se in italiano è stato tradotto come “Re Rosso”, ma mi prendo la libertà di dargli questo nome a mio parere più altisonante). Egli è l’entità responsabile dell’imminente crollo della Torre e il cui solo scopo sono il caos e l’oscurità: in sostanza, la visione personale kingiana di Satana. Eppure il Re Cremisi non si sposta, non opera direttamente, ma attraverso i suoi emissari, il più rappresentativo dei quali è Randall Flagg, anche conosciuto come il grande nemico della produzione letteraria di King. Un mago malvagio che prende le forme più disparate e che spesso torna come rappresentante del Male in diversi libri. Ogni volta che il lettore incontra un personaggio dalle iniziali R.F. la cui moralità è in discussione, sa di trovarsi davanti a una nuova declinazione di Randall Flagg (ad esempio Raymond Fiegler in Cuori in Atlantide, Russel Faraday e altri…).
Dalla parte opposta di Randall si trova Maturin, ossia la Tartaruga. Nel simbolismo kingiano, la tartaruga è il Bene, la saggezza, la luce. In It, ad esempio, il contrapposto a questa entità oscura è proprio Maturin. Questo animale torna spesso nella letteratura del Re e sempre con lo stesso significato: una figura confortante, anziana, che ricorda un nonno gentile, addirittura responsabile della creazione dell’universo.
Nonostante la fondamentale importanza della saga per capire nel profondo i libri dello scrittore (sebbene perfettamente godibili anche come entità a sé stanti), La Torre Nera non ha il successo che molti altri libri dello scrittore riscontrano con il pubblico. È King per primo ad affermarlo nella prefazione all’edizione rivista del primo libro:
«a dispetto dei suoi appassionati cultori, i miei lettori conoscono molto meno la storia della Torre che quella de L’Ombra dello Scorpione. A volte. Durante le mie conferenze, chiedo ai presenti di alzare la mano se hanno letto uno o più dei miei romanzi. […] non meraviglia che quasi tutti la alzino. Poi chiedo di tenerla su se hanno letto uno o più volumi della Torre Nera. E allora invariabilmente almeno la metà delle mani ridiscende»6.
Tant’è che anche per molti lettori del Re, questo articolo potrebbe raccontare qualcosa di nuovo. Per approfondire l’immensità delle connessioni all’interno del multiverso letterario kingiano, si rimanda a questa pagina e questa in cui ci sono delle mappe che riassumono praticamente ogni intersezione dei livelli della Torre.
Dopo aver affrontato ciò che di più particolare caratterizza i romanzi di King, è forse il caso di tornare a un approccio più concreto e analizzare più genericamente la scrittura del Re.
Egli è indubbiamente conosciuto per la lunghezza dei suoi libri: raramente sarà facile scontrarsi in libreria con una mensola che contenga suoi romanzi con meno di cinquecento pagine. Questo è sicuramente dovuto allo stile estremamente descrittivo della narrazione, che per alcuni può rendere la lettura esageratamente prolissa e pesante. Spesso King si sofferma su dettagli, storie o personaggi quasi interamente inutili agli scopi finali della trama, semplicemente per aggiungere realismo e un altro strato di profondità all’intreccio. Ciò si riscontra di più, inevitabilmente, nei romanzi più ampi come It, nel quale non di rado si sofferma, per dieci o quindici pagine, a raccontare di avvenimenti che possono risultare sì interessanti approfondimenti, ma anche inutili allungamenti.
Tuttavia è questo stile descrittivo che ha permesso a King di essere uno degli scrittori più trasposti nella storia del cinema e dalla TV: senza numeri precisi, ma per esperienza personale posso garantire che un buon 80% dei suoi romanzi o racconti è stato e viene tutt’ora trasformato in film o serie TV. D’altronde, uno sceneggiatore ha ben poco da immaginare o da aggiungere alla storia, non c’è insomma molta rielaborazione necessaria perché quasi nulla viene lasciato alla mente del lettore, e questo può indubbiamente piacere o meno.
King è anche estremamente legato alla musica: per quanto mi riguarda, quasi ogni capitolo di ogni libro suo che ho letto conteneva una citazione o una allusione a qualche canzone, specialmente rock. Ecco, le citazioni sono sicuramente un’altra parte corposa della sua scrittura; egli spesso nasconde nei pensieri, deduzioni o intuizioni dei suoi personaggi dei rimandi a letture fatte da lui stesso. Altri temi ricorrenti nella sua produzione sono il baseball, suo sport preferito, e in particolare la squadra dei Red Sox di Boston nel Massachusetts – che se non sono nominati almeno una volta per libro Stephen non è contento- e, molto più bizzarramente, John F. Kennedy, dal quale King è evidentemente rimasto estremamente affascinato. Entrambe queste tematiche hanno anche avuto un libro interamente dedicato: La bambina che amava Tom Gordon per i Red Sox, un romanzo di sopravvivenza di una bambina che si è perduta in un bosco, e 22.11.63 per JFK, un romanzo, più storico che fantascientifico, nel quale uno scrittore torna indietro nel tempo per cercare di fermare l’assassinio del presidente (e, personalmente, il mio libro preferito di SK).
Infine, l’ultimo tema ricorrente è quello del Tocco. Che lo si chiami così o che lo si definisca Luccicanza (in inglese, guarda caso, shining), con questo King intende una capacità extrasensoriale di percepire qualcosa: presenze spettrali o demoniache, previsioni del futuro, telepatia, tutte caratteristiche che accomunano una gran parte di personaggi e protagonisti della sua produzione.
Questo (e molto altro) è King. Ci sarebbe ancora molto di cui parlare per quanto riguarda il simbolismo e il folklore del suo multiverso, la natura della Torre, il suo stile di scrittura, la sua vita. Tuttavia, se sono riuscito a incuriosire anche solo una delle persone che stanno leggendo queste parole nell’approcciarsi al magico, sovrannaturale, complesso multiverso del grande Re dell’Orrore, allora avrò raggiunto il mio obiettivo. Concludo con la citazione forse più famosa di Stephen King, tratta dal suo terzo romanzo, il famosissimo Shining: «I mostri sono reali. Anche i fantasmi lo sono. Vivono dentro di noi e, talvolta, vincono».
Lunghi giorni e piacevoli notti, pistoleri.
di Giacomo Melli
Note
- “Il mio metodo è sempre stato quello di buttarmi a capofitto nel racconto […] cercando di battere sul tempo il più insidioso nemico del romanziere: il dubbio” – Prefazione de “L’Ultimo Cavaliere”; o ancora “Mi rendo conto che alcuni lettori saranno delusi per il modo in cui si conclude [il libro] lasciando tanti interrogativi irrisolti. Nemmeno io sono molto soddisfatto […], e anche se non siete obbligati a credermi, voglio lo stesso affermare che la conclusione di questo [libro] ha colto di sorpresa me quanto accadrà certamente ad alcuni miei lettori, ma ai libri che si scrivono da sé (come accade per la gran parte di questo) bisogna concedere di stabilire da sé dove porre la parola fine […]” – Postfazione di Terre Desolate.
- Dal Washington Post: “Steven King Shining Through” di Stephen P. Brown, 9 aprile 1985 – https://www.washingtonpost.com/archive/lifestyle/1985/04/09/steven-king-shining-through/eaf662da-e9eb-4aba-9eb9-217826684ab6/ .
- Da Guns, il capitolo intitolato Rage.
- Per approfondimenti riguardo il processo creativo generale di King, la storia della stesura della Torre Nera e di come la sua vita condiziona ciò che scrive, si rimanda all’appendice del sesto libro della saga (La Canzone di Susannah) Pagine dal diario di uno scrittore. Per quanto interessante come lettura a sé stante, si consiglia di leggerlo solo dopo aver letto i primi cinque libri causa spoiler.
- Nonostante i trent’anni di stesura e la suddivisione in sette capitoli, King scrive che “questi sette volumi non sono mai state veramente storie separate, bensì capitoli di un unico lungo romanzo” – dalla prefazione de L’Ultimo Cavaliere.
- Dalla prefazione de L’Ultimo Cavaliere.
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