Recensione de “I dilemmi delle donne che lavorano” di Fumio Yamamoto
«Se rinasco, voglio rinascere planaria»: si apre così I dilemmi delle donne che lavorano di Fumio Yamamoto, con le parole di una delle cinque protagoniste che rimandano a un’immagine in un primo momento incomprensibile ma che racchiude, a mio avviso, il cuore dell’intero testo.
La planaria è un organismo semplice, simile a un verme, che vive nel fondo sabbioso degli stagni e che ha la peculiare capacità di rigenerarsi da sé. Essa diventa qui il simbolo di un desiderio minuscolo e radicale insieme: quello di poter esistere, senza riserve. Le protagoniste di queste storie, infatti, non hanno una vita eccezionale né aspirano ad averla, vogliono solo essere lasciate in pace e vivere nella propria normalità tra contraddizioni, pigrizie e piccole gioie che possono trovare tra un konbini e un manga store.
Un ringraziamento va a Neri Pozza per averci gentilmente fornito una copia e per aver reso possibile la sua pubblicazione in Italia, permettendo a un’opera tanto delicata quanto potente di raggiungere nuovi lettori, anche a distanza di tempo rispetto alla sua prima pubblicazione in Giappone nel 2000.
Yamamoto è bravissima a farci entrare nella cultura giapponese con la sua scrittura, disseminando in ogni pagina dettagli legati alle loro tradizioni, al cibo tipico, alle abitudini, agli arredi nelle case, alla geometria delle città. Il testo, inoltre, è corredato da un glossario all’interno del quale possiamo trovare tutte le spiegazioni dei termini giapponesi presenti nei racconti.
Attraverso le voci delle protagoniste siamo spettatori non solo delle loro vite ma anche dello sfondo che le accompagna, una società con le sue regole implicite, le sue gerarchie e le sue gabbie invisibili. Eppure, per quanto lontano possa sembrare, questo mondo ci è fin troppo familiare. Possiamo riconoscere la subalternità della condizione femminile, schiacciata sotto il peso delle aspettative; il lavoro come dimensione totalizzante a cui viene attribuito un valore assoluto; il successo e il denaro come unici parametri di felicità riconosciuti e la performatività come atteggiamento quotidiano. Il prezzo più alto è pagato dalle donne, a cui la società chiede non di esistere, poiché la loro esistenza è d’intralcio al sistema, ma di funzionare. Tutto questo non appartiene solo al Giappone, ma parla direttamente anche di noi.

Il primo personaggio che incontriamo è Haruka, una ragazza sopravvissuta a un tumore in età precoce che cerca di costruirsi un nuovo equilibrio. Yamamoto sceglie di raccontare un momento liminare e molto delicato: quello del post cancro, in cui il soggetto resta ancorato alla malattia anche se il corpo è guarito e deve ricostruire la propria vita convivendo con un enorme trauma, spesso incomprensibile agli altri. Ci si aspetta da Haruka che sia grata, sorridente e riconciliata con il mondo, ma lei non riesce a incarnare il ruolo della sopravvissuta esemplare: è inquieta, distante, attraversata da un senso costante di estraneità nei confronti della propria esistenza. In questo scarto doloroso tra ciò che la società pretende e ciò che lei è in grado di offrire, Yamamoto scava con lucidità, mostrando tutta la complessità dell’esperienza umana.Izumi, trentenne divorziata, scopre la propria vulnerabilità quando perde il lavoro e contemporaneamente fallisce anche il suo matrimonio. Costretta a reinventarsi, lo fa come può, nonostante il giudizio di chi le sta vicino, e si interroga su che cosa significhi davvero essere libere in una società che detta ruoli precisi e soffocanti. Katō è schiacciata dalla sua condizione oblativa di madre e moglie; si occupa della madre rimasta sola, del suocero in ospedale, del marito, dei figli e lavora nei turni notturni di un supermercato per tenere in piedi una famiglia che sembra già sfaldarsi. Attraverso di lei l’autrice ci racconta il difficile rapporto con i figli, le conseguenze dell’incomunicabilità e il peso che trainano le donne da cui ci si aspetta tutto, e anche di più.
Mito, venticinquenne con un impiego stabile, vive sospesa tra l’idea del matrimonio con tutto ciò che vi è implicato e un impulso irrefrenabile alla fuga, divisa tra il bisogno di sicurezza e il desiderio di non appartenere a niente e a nessuno.Infine, Sumie: indomabile e sfacciata ragazza che sceglie di non lavorare e per questo non si giustifica né si aspetta comprensione. Vivendo alla giornata e prendendo ciò che la vita le offre, rivendica il proprio diritto a godere senza vincoli, promesse o legami, e la propria forma di libertà. Ognuna di loro si confronta con dilemmi differenti, ma quello che fa da comune denominatore a tutte le storie è: come si può rimanere a galla senza per forza doversi adeguare agli standard fissati dalla società?
Ciò che emerge è una latente volontà di sottrarsi alle aspettative altrui e rivendicare il diritto a essere semplicemente se stesse; laddove “se stesse” non indica per forza una personalità geniale o fuori dal comune, ma coincide con un sé autentico, anche nella sua apparente banalità. Si tratta di una vera e propria contronarrazione: siamo abituati a (e nutriti da) storie edificanti, di ambizione sfrenata e di conquiste, di vite innalzate a modello universale, come se fosse uno status a conferire senso all’identità. Qui, invece, tutto si rovescia. Le donne di Yamamoto sembrano camminare in direzione contraria o forse rifiutano del tutto l’idea di un percorso prestabilito. Le loro vite sono marginali, talvolta ferme, incoerenti, faticose e in un primo momento possono disorientare e perfino infastidire. Le loro scelte appaiono opache e a tratti incomprensibili, ma Yamamoto non cerca di giustificarle né di farci empatizzare con loro. Vuole solo restituire un po’ di verità, che non deve essere per forza comoda, ma semplicemente dev’essere la loro!
Leggendo, non sempre le protagoniste risultano necessariamente simpatiche, e spesso prendono decisioni che potrebbero contrastare l’opinione del lettore, ma nel mio caso, ho riconosciuto in me quella stessa voce giudicante che ho introiettato e con cui spesso parlo. Il romanzo di Yamamoto è in questo senso anticapitalista, poichè sfida la narrazione dominante della persona di successo e sceglie di far luce su vite ordinarie e tuttavia degne; vite comunque mai anonime, in quanto ognuna esiste con la propria irriducibile particolarità che si dà nel suo modo unico di stare al mondo e ciò è reso molto bene dalla narrazione in prima persona.
Ma perché “le donne che lavorano”? Probabilmente, il lavoro di cui parla Yamamoto è la fatica invisibile che richiede esistere, soprattutto come donna, in una società non molto tollerante nei confronti di chi non aderisce ai suoi dettami. Il lavoro svolto da queste donne è il continuo negoziare le proprie scelte, imporre la propria indipendenza, sopravvivere a una condizione precaria, sopportare relazioni logoranti, adattarsi senza scomparire del tutto. È il lavoro emotivo, mentale, corporeo di chi cerca semplicemente di restare a galla giorno dopo giorno.
La scelta della prima persona amplifica la potenza di questi racconti perché ci permette di entrare direttamente nei dialoghi, nelle scene quotidiane, nei ricordi e nei flussi di coscienza delle protagoniste. Solo nell’ultimo racconto lo sguardo cambia e diventa maschile: uno slittamento che rende ancora più evidente il peso dello sguardo esterno sull’identità femminile. Uno sguardo contro cui le protagoniste lottano in maniera discreta, quasi impercettibile e forse anche inconsapevole.Lo stile di scrittura è coerente con ciò che racconta: è semplice e asciutto, la lettura è scorrevole e procede senza inciampi, la narrazione è appassionante ma non superficiale: ogni protagonista è descritta con cura e complessità. Le storie non hanno una conclusione vera e propria ma rimangono sospese, un po’ perché anche le vite delle protagoniste lo sono, un po’ perché ciò che conta non è il lieto fine o una drammatica conclusione, ma ciò che sta nel mezzo. È più importante ciò che rimane dopo aver sbirciato dentro queste vite, che continuano la loro traiettoria anche dopo che abbiamo chiuso il libro, proprio perché esistono per sé e non per noi. Ho apprezzato molto questa scelta poiché rimanda all’idea che la vita non si risolve, non coincide con una morale e non offre sempre risposte ma semplicemente continua.
E mentre la planaria svolge il suo lavoro di rigenerazione, ai lettori (ma soprattutto alle lettrici) rimane una domanda: e se, invece di desiderare una vita moltiplicata all’infinito, il vero gesto rivoluzionario fosse imparare a vivere una vita soltanto, ma propria?
Ringraziamo Neri Pozza per la copia stampa.

