
Premessa
Avete presente il Maclaren’s Pub dove, in ogni puntata di How I Met Your Mother, Ted Mosby e lə suə amicə si aggiornano sulle loro vita davanti a un boccale di birra? O il Central Perk di Friends, cuore pulsante delle giornate dei protagonisti? Oppure, senza arrivare fino a New York, l’oratorio dove si andava a giocare dopo la scuola o il bar-tabacchi nella piazza del paese, dove i nonni giocano a carte e commentano gli ultimi fatti della cronaca locale?
Alla fine degli anni Ottanta, il sociologo Ray Oldenburg definì questi luoghi third places, per indicare tutti quegli spazi che non sono né casa (first place), né lavoro (second place), in cui trascorriamo il tempo libero in un’atmosfera informale e accogliente, tra persone con cui ci relazioniamo su un piano di parità. Certo, dai tempi di Oldenburg molto è cambiato nei modi (e nei mezzi) della socializzazione, ma le dinamiche che ci spingono a mescolarci e confrontarci sono rimaste le stesse: sono radicate nel nostro DNA di animali sociali.
L’agorà dell’antica Grecia, il primo third place della storia, ospitava, come nelle analisi di Oldenburg, una varietà di individui (politici, poeti, filosofi e cittadini comuni) che interagivano liberamente, scambiando idee, beni, monete. Un luogo aperto, accessibile, senza alcun biglietto da dover pagare all’entrata.
Oggi, i nostri “terzi luoghi” sono raramente gratuiti e liberamente accessibili. Il bar, con tutte le sue complessità, analizzato da Mathilde Modica Ragusa nell’articolo di apertura, ne è un esempio. Lo stesso vale per gli altri spazi di ritrovo: bistrot, centri sportivi, librerie con caffetteria… Quasi sempre, all’entrata, essi presuppongono un consumo. Il fenomeno è ancora più marcato nelle grandi città, come osserva Lorenzo Ramella nel suo contributo: se ogni metro quadro ha un costo elevato, anche stare seduti ha un prezzo.
Ma non ci siamo fermatə alla riflessione sui luoghi fisici: nell’epoca del digitale, l’alternativa virtuale diventa sempre più desiderabile. Valentina Oger, nel secondo articolo, ci racconta l’universo delle Arcade Rooms, il loro ruolo e la loro evoluzione.
Riconoscendo il bisogno umano di avere un “rifugio fuori casa”, una home away from home, ci interroghiamo sul futuro della nostra vita collettiva. Quali saranno i nostri third places? Chi li gestirà? E saranno davvero accessibili a tutti?
Con questo interrogativo, non ci resta che augurarvi,
Buona lettura
Indice
- Premessa della Redazione, p. 1
- Silenzi e parole in un bar qualunque di M. Modica Ragusa, p. 2
- Race Games: razzismo e classismo negli arcade americani di V. Oger, p. 3
- Il conto, per favore di L. Ramella, p. 4