La nostra tradizione è ricca di miti in cui figure femminili ricamano, cuciono, intessono: pensiamo a Penelope e alla sua tela, ad Arianna che con il suo filo salva un eroe, alle Parche impegnate a intrecciare i destini umani.
Eppure, per secoli, tali pratiche sono state relegate ai margini, liquidate come attività “minori”, puramente decorative e femminili nel senso più dispregiativo del termine. L’idea stessa che esistano “arti maggiori” e “arti minori” nasce da una gerarchia culturale di sguardo maschile, costruita nei secoli. La pittura e la scultura, prodotte nello spazio pubblico, hanno conquistato prestigio e fama, mentre altre forme artistiche sono state condannate all’invisibilità, non abbastanza nobili per entrare nei manuali di storia dell’arte, né abbastanza prestigiose per varcare la soglia dei musei o attirare uno sguardo attento.
Questa struttura ha ignorato la complessità di arti come il lavoro a maglia, a uncinetto o il ricamo, le quali richiedono mani esperte e precise abilità, ma ha soprattutto sottovalutato la loro importanza storico-culturale. Ogni manufatto, infatti, rivela moltissime informazioni circa la persona che l’ha realizzato, la comunità in cui era inserita e il momento storico in cui è stato prodotto. Queste opere sono un archivio di memoria ed eredità che si incarnano in un centrino da arredamento tramandato, in un tappeto tessuto per generazioni, in un pattern che accomuna una o più società. Nel Sud Italia, sin dal Medioevo e ancora oggi, la preparazione del corredo era importantissima e richiedeva diversi anni durante i quali mani di nonne, zie e madri si adoperavano per assicurare alla futura sposa ciò che le sarebbe servito. Ogni tovaglia pazientemente ornata, ogni orlo rifinito al lume di una lampada conteneva una promessa concreta di protezione, un gesto di cura e continuità tra generazioni. Lungi dall’essere semplici lavori, si tratta dunque di veri e propri linguaggi.
Queste tradizioni, però, non nascono in uno spazio neutro. Per secoli, ricamo, cucito, tessitura sono stati usati come strumenti di contenimento e insegnati alle donne per confinarle entro lo spazio domestico, lontane dall’istruzione e dalla vita pubblica. Si tratta di una costruzione patriarcale che presentava tali pratiche come virtù mentre, di fatto, restringeva ulteriormente l’orizzonte femminile. Ma dentro quel perimetro imposto, le donne hanno coltivato il proprio spazio, risignificando i margini e dando vita a pratiche di autodeterminazione spesso sfociati in lotta politica, trasformando questi strumenti oppressivi in potentissimi simboli. Riunite intorno a un camino o in una qualsiasi stanza della casa, non cucivano soltanto stoffe, ma riparavano la fragile tela della genealogia femminile spezzata dal patriarcato. Le donne sfruttavano quella “stanza tutta per sé”1 per scambiarsi consigli, esprimere opinioni, condividere memorie, raccontarsi. Senza proclami né rivendicazioni pubbliche, lì germogliava una forma di autocoscienza collettiva, spesso inconsapevole ma radicale.
L’ambivalenza di tali pratiche è stata ben espressa da Rozsika Parker, che scrive:
«Sebbene il ricamo sia stato un mezzo per educare le donne alla femminilità, è stato anche un’arma di resistenza contro i vincoli della femminilità stessa». 2
Infatti, in epoche e luoghi diversi, proprio queste pratiche hanno assunto un ruolo pubblico inatteso, trasformandosi in veicoli di protesta.
Un esempio emblematico è quello della Artists’ Suffrage League che tra, il 1908 e il 1913 in Inghilterra, ricamò oltre 150 banner di protesta, da sventolare per il diritto al voto, per sostenere il movimento di lotta delle suffragiste. Queste opere furono usate nelle manifestazioni, trasformando ciò che era nato per educare alla quiete in linguaggio politico e militante.
Molto lontano dall’Europa invece, nella provincia dello Hunan della Cina rurale, altre donne risposero all’esclusione inventando un sistema di scrittura incomprensibile agli uomini, che prende il nome di nüshu.

Questo particolare linguaggio prendeva forma su ventagli, fazzoletti, indumenti, ma anche nelle poesie e nei canti. Quei simboli, che per gli uomini erano solo elementi decorativi, erano un vero e proprio codice segreto, grazie al quale le donne potevano comunicare tra di loro, nonostante il silenzio imposto. I caratteri del nüshu sono quasi danzanti, molto più eleganti e filiformi dei caratteri tradizionali e, mentre questi ultimi rappresentano concetti o idee, il nüshu è un sistema interamente fonetico i cui segni corrispondono a suoni. Questo è infatti un linguaggio che sgorga dal corpo e da un gesto creativo libero dalle regole che hanno storicamente disciplinato la parola femminile. Nel nüshu non c’è rigidità geometrica, ma un’andatura che ricorda il canto, un fluire che si apre alla risonanza emotiva più che al controllo semantico. Questa scrittura rimase invisibile al mondo fino agli anni Ottanta, quando fu scoperto da alcuni studiosi. Oggi è in larga parte scomparsa, ma linguisti e storici stanno lavorando per preservarla e restituirgli visibilità.
Forme di resistenza simili emergono anche in altri luoghi del mondo, come nell’Argentina della fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Durante la dittatura militare di quegli anni, tantissimi dissidenti politici vennero arrestati e inghiottiti dal silenzio dello Stato: i desaparecidos. Le loro madri iniziarono allora a ritrovarsi ogni settimana nella piazza principale di Buenos Aires, Plaza de Mayo, indossando fazzoletti bianchi su cui avevano ricamato i nomi e le date di nascita dei figli scomparsi. Quel gesto, nato nella sfera domestica, divenne uno dei simboli più potenti di protesta del Novecento, un modo di scrivere pubblicamente ciò che il regime voleva cancellare.

Nata e cresciuta nel Sud Italia, ho avuto modo di osservare personalmente come tali dinamiche si siano radicate anche qui. Durante i pomeriggi estivi, mia nonna, mia madre, mia zia e altre donne del quartiere si riunivano fuori casa, sedute al sole, ricamando o lavorando all’uncinetto. Questi momenti erano veri e propri laboratori di idee, spazi di narrazione e condivisione di esperienze. Attraverso questi ritrovi si cementavano relazioni, si scambiavano conoscenze e le donne si riappropriavano della loro voce e dei loro vissuti. L’associazione Donne del Sud di Lecce ha trasformato questi incontri informali in veri e propri luoghi di formazione e auto-narrazione attraverso il sapere manuale, promuovendo workshop creativi per minori in difficoltà, migranti, donne vittime di violenza e per la comunità tutta. Questi laboratori, che diventano circoli di parola, funzionano come micro-comunità di cura, perché chi partecipa non apprende soltanto una tecnica, ma entra in un ambiente che offre ascolto, tutela, relazioni.
Oggi si assiste a un crescente recupero consapevole di questi saperi manuali e ciò che un tempo era un vincolo, ora è considerato fashion. Su Tiktok spopolano video di manufatti all’uncinetto creati per hobby e di giovani ragazze che, a partire da queste competenze, hanno creato addirittura propri brand. Ma anche in luoghi più istituzionalizzati crescono mostre come l’Unfinished Embroidery di Roma, nel 2024, che ha trasformato il gesto del ricamo in una performance artistica, che decostruisce stereotipi di genere e restituisce alla pratica una dimensione pubblica, liberandola dai confini della sola manualità domestica.
Questi lavori mettono in luce il potenziale trasformativo delle cosiddette “arti minori” come luoghi in cui creatività e margine si incontrano, dando vita a forme alternative di produzione culturale. L’obiettivo è restituire valore a realtà spesso trascurate e alle loro pratiche artistiche, ripensando l’arte al di là di una concezione elitaria, riservata a pochi e confinata entro gli spazi istituzionali dei musei. Le pratiche tessili, i linguaggi segreti, i laboratori periferici e le forme di artigianato collettivo mostrano come l’arte possa essere innanzitutto uno strumento di connessione. Queste espressioni sono capaci di cogliere e restituire con forza le condizioni materiali ed emotive di una società, talvolta in modo più incisivo rispetto alle opere canoniche della tradizione artistica. In questo senso, le “arti minori” non vanno intese come tradizioni passive o folkloristiche, ma come veri e propri processi di produzione di senso, memoria e conoscenza.
Spostare lo sguardo verso i margini significa allora riconoscere che le donne, da sempre, hanno prodotto arte, anche quando questa non veniva nominata o legittimata come tale.
Note
- Qui il riferimento è al celebre saggio di Virginia Woolf Una stanza tutta per sé, pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1929.
- R. Parker, The Subversive Stitch: Embroidery and the Making of the Feminine, I.B Tauris, 2010, p.43.
Bibliografia
Broussard, J. T. (2008). Nüshu: A curriculum of women’s identity. Transnational Curriculum Inquiry, 5(2), 45–68.
Falcini, G. (2020). Il nüshu. La scrittura che diede voce alle donne. Castellana Grotte: CSA editrice.
GALEOTTI, Glenda (a cura di). (2024). Artigianato artistico nel Sud Italia: sviluppo di competenze per nuove imprenditorialità, Firenze, Editpress.
Garrett, M., & Thomas, Z. (2018). Suffrage and the arts. London: Bloomsbury Publishing.
McCracken, K. (2019) Embroidery as Record and Resistance. Contingent Magazine. https://contingentmagazine.org/2019/11/19/embroidery/
Parker, R. (2010). The Subversive Stitch: Embroidery and the Making of the Feminine. I.B. Tauris.
Woolf, V. (2013). Una stanza tutta per sè. Feltrinelli.
Zapponi, E. (2011). La seconda vita di una madre: Le Madri di Plaza de Mayo e la cultura della memoria. Studi storici, 2, 423–430.



