Truman Capote: l’incarnazione del sogno americano
“Quello che per primo vede l’America. Su ogni nave ce n’è uno. E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no… e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre aveva già quell’istante stampato nella vita. E quando erano bambini, tu potevi guardarli negli occhi, e se guardavi bene, già la vedevi, l’America, già lì pronta a scattare, a scivolare giù per nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua, fin dentro quel grido, America, c’era già, in quegli occhi, di bambino, tutta, l’America!”

Sono queste le parole che prima Baricco, nel 1994, fa pronunciare a Max nel suo romanzo Novecento, e che poi verranno riprese e riadattate in forma cinematografica dal regista Giuseppe Tornatore nel celebre film del 1998: 900, la Leggenda del pianista sull’oceano.
L’ America, il sogno di chi agogna la Libertà, di chi vorrebbe un futuro migliore, di chi si vede già a passeggiare tra le vie di Manhattan, di chi si immagina da Tiffany magari, circondato dal profumo rassicurante di una vita scintillante come quella di un diamante, di chi sogna di diventare un divo, un attore o uno scrittore e scorge nell’America, terra dalle infinite possibilità e della meritocrazia, la possibilità di un sogno che prende forma come per magia .
Ma perché è proprio l’America ad assumere il significato simbolico della libertà e del raggiungimento del successo? Quali sono le altre forze che si celano dietro a questa grande nazione, che rappresenta il concetto fondamentale di democrazia nel mondo, e che concorrono a rendere l’America il luogo dove ogni sogno può diventare realtà?
E in che modo queste forze, come per esempio il Capitalismo, contribuiscono a plasmare le vite di coloro che inseguono ardentemente e ciecamente i propri sogni in America?
Nel saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904, Germania), il filosofo, sociologo ed economista tedesco Max Weber (1864-1920) sovverte la tesi marxista secondo la quale, all’interno di una società, è la struttura a determinare la sovrastruttura, affermando che, invece, sia proprio quest’ultima a determinare la struttura di una società. Infatti, Max Weber è fortemente convinto che il modo in cui lNon a caso il capitalismo, come osserva il filosofo, è il risultato di società in cui il tipo di fede professata su scala maggiore sia quella del protestantesimo.
Una delle caratteristiche essenziali del protestantesimo, infatti, è proprio il concetto di predestinazione: ogni individuo nasce già dannato per l’eternità o salvato, benedetto, prescelto.
Ma, allora, come definire, come contraddistinguere i prescelti dai condannati all’inferno? Come risolvere il dubbio e rispondere all’angoscia che una credenza di questo tipo genera negli animi? Le persone sono indotte a comportarsi e, quindi ad agire nel mondo sulla base di alcune loro credenze, come per esempio quelle religiose, determini il modo in cui tutta la società a livello politico ed economico tenderà a svilupparsi.
Le società in cui il protestantesimo è la fede maggiormente professata, osserva Weber, sviluppano come risposta alle domande poste dalla nozione di predestinazione un tipo di economia capitalista:il prescelto è colui che riesce economicamente a contraddistinguersi nella massa. È nella vita di tutti i giorni, nella materialità delle cose che si va cercando conferma del proprio stato di elezione, è nel successo materiale, nell’etica del lavoro che producono a loro volta un ascetismo e un individualismo e che assumono un sapore amaro e talvolta drammatico e che rappresentano un terreno fertile per la nascita del capitalismo, per la corsa sfrenata verso il successo, che nella retorica poetica, cinematografica Hollywoodiana, nella produzione di musica e di slogan si trasforma nel tanto agognato “American Dream”!
Il sogno americano è di tutti, anche di chi americano non lo è, ma magari aspira a diventarlo, oppure di coloro che americani lo sono per nascita.
Tuttavia, l’Americano chi è davvero?
Truman Capote, pseudonimo di Truman Streckfus Persons, nasce a New Orleans nel settembre del 1924, ma cresce in Alabama, nel cuore di quello che viene considerato il Sud americano, a Monroeville. Per tutta la sua vita sarà segnato per sempre dal divorzio dei genitori, avvenuto quando lui aveva solo sei anni: il padre abbandona lui e la madre, che lo affida alle cure degli zii in Alabama. Capote cresce da solo, presto abbandona gli studi e si reinventa: egli avverte che, per farsi strada nel mondo, ha bisogno di costruirsi una corazza e di realizzare il suo sogno, il sogno americano, a qualunque costo.
Ma il sogno di Truman coincide anche con il sogno della madre, ossia quello di diventare una donna raffinata e di entrare a fare parte di quella che all’epoca veniva considerata l’élite americana.
La madre, figura sempre profondamente amata e dal piccolo Truman, sarà insieme la sua fonte di ispirazione e la spinta alla corsa verso il successo, ma anche la fonte di più grande tristezza: la donna, infatti, passava di uomo in uomo e spesso portava Truman a questi incontri, rinchiudendolo in stanze adiacenti alla sua, in qualche squallido albergo, costringendolo a fare da spettatore silenzioso di uno spettacolo mortificante.
Nel Sud, dove è cresciuto insieme all’amica e successivamente scrittrice di successo Harper Lee, Truman viene discriminato e deriso costantemente, per le sue fragilità, la sua sensibilità ed eccentricità che lo rendevano diverso dagli altri, oltre al fatto che la sua omosessualità strideva con l’ideologia conservatrice del Sud.
Presto, il giovane si trasferisce a New York, pronto a inseguire il suo sogno di diventare scrittore e giornalista. Inizia così la sua carriera come fattorino per la rivista letteraria New Yorker, disposto a tutto pur cominciare a frequentare ed inserirsi nel mondo del giornalismo.
Oggi Capote è considerato quasi un profeta della prosa americana, l’artista che si è fatto da sé, capace di inventarsi e reinventarsi continuamente, un camaleonte nell’arte della scrittura come nella vita, abile nel cambiare colore e adattarsi a qualsiasi situazione inserendosi perfettamente e diventandone la regina, proprio come la protagonista della celebre novella Colazione da Tiffany (1958), Holly Golightly.
Holly non è il vero nome della protagonista, bensì Lula Mae Barnes: rappresenta il desiderio di giovane ragazza appena diciannovenne di costruire intorno a sé un’aurea scintillante che la renda diversa da quella che è realmente – una piccola orfana del Sud, abbandonata insieme al fratello e trovata a rubare del latte in casa di un certo Doc Golightly, con il quale si sposerà all’età di 14 anni, elemento drammatico che ci permette di intuire una storia di abusi, povertà, solitudine e matrimonio minorile.
Holly èl’emblema dell’American Dream, quella smania di essere al centro dell’attenzione, di essere socialmente accettati e non da chiunque ma da “la crème de la crème” dell’élite newyorkese . Holly non solo è capace di reinventarsi cucendosi addosso l’abito di un personaggio totalmente nuovo, ma si configura come artista di un movimento sociale, artista nella costruzione della propria nuova identità, scintillante e desiderabile, proprio come il nostro Truman è stato capace di fare con sé stesso. Tuttavia, nonostante la ricerca instancabile di una sorta di riconoscimento, di fama e di attenzione, Holly e Capote sono incapaci di creare legami autentici con le persone intorno a loro, che diventano mezzi essenziali alla realizzazione del sogno. Dietro le maschere e gli abiti glamour di una vita fatta di sfarzo, feste, tanta ironia e superficialità, si celano cuori solitari, abbandonati e profondamente fragili, tormentati da ansie, ricordi e il desiderio di un amore che sono incapaci di coltivare. Intorno ai due, troppi amici che, nelle loro menti psicotiche, si trasformano in nemici, mostri da domare e plasmare intorno a sé e alle proprie necessità.
Solitudine, profonda.
Solitudine.
Holly e Capote, abbagliano tutti: tutti li vogliono, tutti li cercano… ma loro sfuggono come gatti randagi, nutrendosi delle storie degli altri, di amori che, per quanto plastici e insoddisfacenti, conferiscono pur sempre un po’ di calore a queste vite solitarie. Mentre gli adoratori cercano invano gli amanti randagi con gli occhi rivolti al cielo, i gatti sono lì, sospesi tra la vacuità e l’oblio dei cieli, in terre dove solo il frastuono di tuoni spaventosi risuona e dove le cose scompaiono nel nulla, nel nulla.
Quasi come i personaggi di un dipinto Hopperiano, i sognatori d’America rincorrono qualcosa a cui non sanno dare un nome e, cercando nella frenesia e nel frastuono di città grandiose, perdono sé stessi.
Tuttavia, c’è anche chi resta pietrificato di fronte alla vastità di un paese che sembra pretendere troppo, dove chi è predestinato al paradiso è nettamente separato da chi, invece, sembra essere condannato alle fiamme dell’inferno sin dalla nascita. In Paris, Texas (1984), il regista tedesco Wim Wenders ci racconta l’America come un paese sconfinato, dove la distanza tra le persone è come quella geografica, cioè incolmabile. Il protagonista Travis Henderson vaga per quattro anni nel deserto in totale solitudine alla ricerca di “Paris in Texas”, che diventa il luogo dell’utopia, della pace, della comunicabilità, della speranza di un’identità ritrovata e , come il personaggio fantastico di Wenders, così anche i protagonisti di In cold blood (1965), il romanzo di Truman Capote, drammaticamente e irrimediabilmente reali, si perdono nell’immensità di terre sconfinate.
Dalla fuga nel luogo dell’utopia, in questo caso rappresentato dal Messico, all’incomunicabilità, Perry e Dick, i protagonisti dell’ultimo grande romanzo di Capote, appartenente al genere True Crime sono vittime di un sistema, di un sogno che fa fatica a materializzarsi in modo concreto di fronte ai loro occhi e di desideri indotti da una società in cui è salvo solo chi riesce a stare al passo della metropoli, anzi corre più veloce.
È tutto sbagliato nelle vite di questi ragazzi, a partire dalle famiglie, le violenze, i fallimenti, le incomprensioni, l’incomunicabilità, tutti aspetti in forte contrasto con il loro desiderio di avere successo e di diventare qualcuno.
Un successo la loro corsa attraverso la via della delinquenza o, peggio, della violenza, dell’omicidio a sangue freddo di una famiglia innocente. E, mentre da una parte, vite innocenti vengono spezzate con spietata brutalità e violenza, dall’altra due giovani sognatori, forse davvero dei predestinati, dei falliti e reietti, incompresi dalla società, vengono condannati a morte da un sistema che non si rende conto di essere esso stesso un assassino.
Capote, come un gatto randagio e solitario, con un corpo troppo piccolo, un cuore un po’ spezzato, la paura che scorre nelle vene e che lo fa tremare tutto, gli abiti luccicanti, il sorriso sempre stampato in volto, proprio come l’America lo vorrebbe, con le zampette smilze, disseziona avidamente e meticolosamente le vittime intorno a sé – i Clutter, Perry, Dick, e, con essi, le famiglie, gli amici e i conoscenti. Egli esplora le viscere stracciate e le usa per scrivere il suo grande romanzo per realizzare il sogno americano, per salire un po’ più in alto, ancora e ancora.
di Jennifer Moisiu