Come ogni anno, sono qui a scrivere qualcosa per il 25 novembre. Come ogni anno, inizio col riportare la cifra shock: 104. Centoquattro è il numero di femminicidi dell’anno corrente, riportato dall’Osservatorio Femminicidi Lesbicidi Trans*cidi in Italia di Non Una di meno (dato aggiornato all’8 novembre). Come sempre mi soffermo sui nomi delle vittime, sulle loro età, cercando di immaginare le loro vite, la loro rete di amicizie e frequentazioni, finendo col farmi sempre la stessa domanda: come può il genere, l’essere donna, essere il movente di un omicidio? Non serve un genio per comprendere come il problema sia sempre e solo uno: il patriarcato.
Nella lista spicca, tra i nomi più recenti, quello di Aurora. Chi ha seguito la cronaca delle ultime settimane sa che stiamo parlando di una ragazzina della provincia di Piacenza, di neanche quattordici anni, inizialmente ritenuta suicida. Invece, alla luce delle indagini, è stata l’ennesima vittima di femminicidio. Il suo carnefice? Un ragazzino di due anni più grande, suo ex fidanzato, che l’ha spinta giù dal settimo piano. Non sappiamo esattamente cosa abbia dichiarato durante l’interrogatorio, se non che si sia trattato di un incidente e che non voleva spingerla. Dalle dichiarazioni della madre di Aurora, delle sue amiche e della testimone chiave, che qualche giorno prima del femminicidio aveva assistito e filmato un litigio tra i due ragazzi, emerge la natura violenta del ragazzo. Si parla di gelosia e possessività, i motivi per cui la ragazza aveva deciso di lasciarlo, una decisione che lui non è riuscito ad accettare. Un copione già scritto, purtroppo.
Ciò che mi colpisce di questa vicenda non è l’ennesimo femminicidio (è nichilismo da parte mia? Non mostrare ogni singola volta la mia indignazione non significa che io ci abbia fatto il callo, NdA), ma l’età dei ragazzi: 13 e 15 anni. Giovanissimi. Ed è qui che mi perdo. Cosa sta andando storto? Come può un ragazzino così giovane aver sviluppato così precocemente dei comportamenti tossici come il possesso, la gelosia e l’oggettificazione della sua quasi coetanea?
Proprio mentre mi ponevo questa domanda, a inizio novembre, ho iniziato a vedere sui social dei post che riportavano i dati di un’indagine condotta dalla Fondazione Libellula, associazione da sempre impegnata nella prevenzione della violenza e discriminazione di genere. L’indagine, realizzata tra marzo e giugno di quest’anno, ha coinvolto un campione di adolescenti tra i 14 e 19 anni, ai quali è stato somministrato un test con domande psico-attitudinali sul tema della violenza. Leggendo i dati di questa indagine (consultabile facilmente dal sito della Fondazione) mi sono sì sorpresa, ma, al contempo, non più di tanto, e vi spiego perché.
Dall’indagine emerge un’ignoranza di fondo su concetti come gelosia, possesso, consenso. Per un adolescente su cinque, comportamenti come il contatto fisico non consensuale (di qualunque natura, dal toccare al rubare un bacio), raccontare dettagli intimi della propria partner ai propri amici, impedire ad una ragazza di indossare determinati capi di abbigliamento, controllarle il cellulare o, costringerla a rendersi sempre reperibile, non sono considerati violenza1.
La lista di ciò che non è percepito come violento è lunga. Analizzando i dati per genere, si nota come questa ignoranza sia più marcata tra i maschi, ma non mancano ragazze che non percepiscono quei comportamenti come tossici. Per lə intervistatə, quei comportamenti sarebbero manifestazioni di interesse. La gelosia, ad esempio, sarebbe un modo di dimostrare amore, così come il controllo o il contatto fisico non consensuale. Inoltre, sempre dall’indagine, emerge una preoccupante tendenza a considerare un no come un sì, minimizzando il rifiuto femminile e riconducendolo al ruolo “naturale” della donna come subordinata all’uomo (questa credenza riguarda un adolescente su tre2). Che cosa significa ciò? Sostanzialmente c’è la difficoltà, da parte del genere maschile, già durante l’adolescenza, ad accettare che una ragazza possa essere indipendente, sia fisicamente che mentalmente. Se pensiamo al femminicidio di Giulia Cecchettin, ad esempio, è noto che uno dei moventi che hanno portato Filippo Turetta ad ucciderla è stato proprio il suo non accettare che la ragazza si stesse per laureare prima di lui. Ha prevalso in lui, quindi, un senso di inferiorità rispetto a lei.
I dati offrono uno spaccato della società contemporanea che, da giovane donna, trovo profondamente inquietante, in quanto mostrano come la cultura dello stupro sia radicata non solo nei maschi adulti, ma anche nelle giovani generazioni. Quando parliamo di “cultura dello stupro”, su cui si basa la nostra società, intendiamo tutto l’insieme di atteggiamenti e comportamenti sessisti e violenti che sono stati talmente tanto introiettati da non essere percepiti, appunto, come tali, in quanto “normalizzati”. Come ho già scritto più e più volte in altri contesti, il problema è da ricercarsi nell’educazione da un lato, negli stereotipi dall’altro.
Elena Gianini Belotti, ne Dalla parte delle bambine (1973), lo metteva bene in evidenza: il problema degli stereotipi è centrale. Si comincia con il rosa e il celeste, si prosegue etichettando una bambina come “maschiaccio” se si impone o non sta composta, e un bambino come “femminuccia” se esprime le proprie emozioni o piange. Si arriva così all’età adulta avendo fortificato un binarismo di genere incrollabile e indistruttibile, dove si hanno delle aspettative diverse su donne e uomini, dettate appunto dal costrutto sociale e da un linguaggio maschilista (negli studi femministi si è soliti usare un termine che descrive questo tipo di linguaggio, ovvero fallologocentrismo) che ci riconduce ad un passato che vede le donne “prede” e gli uomini “cacciatori”.
Per capire ciò basta semplicemente guardarsi intorno, ascoltando stralci di conversazioni del sabato sera, o di qualsiasi ambiente lavorativo e/o accademico, per renderci conto di come gli stereotipi siano così radicati nella nostra quotidianità. Pensiamo al linguaggio che usiamo: quante volte vi sarà capitato di sentire degli insulti costruiti utilizzando più o meno inconsciamente frasi che richiamano pratiche sessuali che vedono le donne in atteggiamento di passività? O ancora, quante volte avrete sentito genitori elogiare i figli maschi della propria “virilità”? Per non parlare delle bambine, che si elogiano, invece, sempre per il loro essere “brave” e “carine”. Questi sono solo un paio di esempi calzanti, ma non ho ancora finito. Se ti fischiano, tu, ragazza, te la sei cercata, e immediatamente ti senti in dovere di specchiarti in una vetrina per capire se sei vestita “in modo sbagliato”. E tu, ragazzo, sarai stato considerato un figo dai tuoi degni compari per aver raccontato loro delle tue prestazioni sessuali. E l’adulto di turno che vi sentiva parlare? Avrà fatto finta di niente, si sarà fatto una risata dicendo «vabbè, sono ragazzi», giustificando un comportamento, oltre che stupido, anche e soprattutto tossico, maschilista e patriarcale, perpetrando così, ancora una volta, la cultura dello stupro nella quale siamo immersə tuttə fino all’orlo.
A questo punto è facile capire che, agli stupri e ai femminicidi, si arrivi percorrendo questa strada. Ricordiamo il già citato femminicidio di Giulia Cecchettin: Turetta “l’amava”, per questo l’ha accoltellata. O lo stupro di Palermo, quei «cento cani sopra una gatta». O, ancora, lo stupro commesso da Ciro Grillo e i suoi amici, graziati dalla santa legge del nonnismo.
Evidenziato il problema, è necessario cercare delle soluzioni, anche se spesso, nel nostro contesto politico e culturale, sembrano più una chimera che una possibilità concreta. La chiave sta nell’educazione: un lavoro sistematico e capillare che parta dalle famiglie, passi attraverso il sistema scolastico e accademico e si estenda ai vari ambiti della società. Serve un’educazione all’affettività e alla sessualità, che non si limiti a una serie di lezioni tecniche o puramente informative, ma che insegni il rispetto, l’empatia e il consenso come valori fondamentali. Dobbiamo insegnare ai giovani che amare significa accogliere l’altro nella sua libertà, non dominarlo. Questo lavoro, però, è costantemente ostacolato. Ostacolato da una destra politica che vede nell’educazione affettiva un nemico, temendola perché mina i suoi ideali retrogradi e patriarcali. Una destra che, anziché affrontare il problema del sessismo e della violenza di genere, sposta l’attenzione su questioni strumentali. Come si può pensare di introdurre nelle scuole un’educazione seria e strutturata sull’affettività quando il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, in un videomessaggio indirizzato alla Fondazione Giulia Cecchettin, ha dichiarato che il patriarcato non esiste e che la colpa di tutto è degli immigrati?
Questa dichiarazione, come altre narrazioni affini, oltre ad essere fuorviante, è pericolosa. Negare il patriarcato significa chiudere gli occhi di fronte a secoli di oppressione sistemica, significa ignorare le statistiche che ogni anno vedono donne abusate, molestate, uccise. Significa perpetuare un sistema che non solo giustifica, ma alimenta proprio la cultura della violenza. Attribuire agli immigrati la colpa di fenomeni che appartengono strutturalmente alla nostra società significa spostare il focus, distogliere l’attenzione, deresponsabilizzarsi. Non dimentichiamo che la stragrande maggioranza dei femminicidi e delle violenze In Italia è compiuta da uomini italiani, bianchi, perbene, di buona famiglia (ce lo ha ricordato recentemente anche Elena Cecchettin), spesso all’interno delle mura domestiche, spesso all’interno della nostre cerchie di amici e dei contesti lavorativi che frequentiamo.
Eppure proprio da qui bisogna ripartire. Nonostante i blocchi politici, nonostante le narrazioni tossiche, il cambiamento può e deve partire soprattutto da noi. I genitori devono iniziare a porsi domande scomode, a riconoscere i propri errori educativi, a lavorare su sé stessi per educare i figli al rispetto dell’altro e dei suoi limiti, e le figlie alla libertà, alla consapevolezza delle proprie capacità, a non avere paura. Le scuole devono essere autonome nel pensiero, creando spazi di dialogo e incontro, soprattutto sostenendo quegli e quelle insegnanti volenterosi/e che, nel loro piccolo, già attuano percorsi di educazione all’affettività, magari parallelamente alle loro materie. La società (ricordando che sono davvero pochissime le persone socialmente attive), fatta di associazioni, gruppi, singole persone, deve continuare a fare pressione sulle istituzioni, raccontando il quotidiano, denunciando ciò che non va. In una parola: a pretendere un cambiamento. Non è un cammino facile né breve, ma è l’unico possibile. Non possiamo permettere che altre Aurora, altre Giulia, altre donne, ragazze o bambine finiscano nei titoli di cronaca nera per colpa di una cultura che potremmo o dovremmo combattere. Non possiamo più tollerare un sistema che protegge e giustifica maschi che non sono altro che il frutto di una violenza sociale autoalimentata. Educare non è mai neutrale: significa scegliere una direzione, costruire una visione del mondo. Tuttə noi possiamo fare qualcosa, nel nostro piccolo, affinché la società, pian piano, smetta di essere imperniata sulla violenza di genere e dove i e le giovani crescano liberi dagli stereotipi che ci incatenano a ruoli predefiniti.
Note
- Senza confine. Le relazioni e la violenza tra gli adolescenti, Fondazione Libellula, 2024, pp. 22-26, https://www.barbiana2040.it/wp-content/uploads/2024/11/Fondazione-Libellula-Ricerca-teenagers-2024.pdf.
- Ivi, p. 32.
Marta Urriani
Da venticinque mi chiamano Mafalda, questo perché dagli stessi anni esercito il legittimo diritto di essere polemica e logorroica. In genere lo faccio sorseggiando caffè di giorno e camomilla di notte. Studio Lettere Moderne alla Sapienza di Roma, dove ho incontrato (e mi sono innamorata) della letteratura delle donne. Se non mi vedete in circolazione, è perché probabilmente sono immersa dentro qualche libro. Sono la quota femminista de L’Eclisse, nonché faccio rispettare le sacre regole della Grammatica italiana correggendo gli articoli: con gentilezza, ma senza pietà.