Sogni putrefatti e tordi meccanici.
Una lettura psico-politica di Velluto Blu, di David Lynch

To die, to sleep; To sleep, perchance to dream—ay, there's the rub: For in that sleep of death what dreams may come, When we have shuffled off this mortal coil, Must give us pause—there's the respect That makes calamity of so long life. William Shakespeare, Amleto, scena I atto III (1600-1602)
La cultura statunitense è ossessionata dai sogni: il sogno americano, la macchina dei sogni hollywoodiana, «I have a dream», «se puoi sognarlo, puoi farlo». Sembra che l’americanə mediə passi la sua vita a inseguire i propri sogni, a cercare di concretizzarli, con un’ansia che sembra tradire una paura della mortalità esasperata da una cultura di stampo protestante e capitalista estremamente focalizzata sull’ottenimento di risultati terreni e materiali, specialmente per quanto riguarda la cosiddetta “scalata sociale”. Quindi, è forse proprio nella dimensione del sogno che si possono scandagliare le paure e le ossessioni di una nazione che ha fatto della propria immagine “splendente” un marchio di fabbrica.
Lo sa bene David Lynch, regista statunitense classe 1946, che è conosciuto proprio per l’onirismo dei suoi film, spesso tradotto in un’inquietudine impalpabile, latente, in trame che si perdono nello spazio e nel tempo dell’incubo. Il sogno, d’altronde, è un atto ambiguo: chi sogna generalmente non sa di star sognando, e la sua “realtà” esiste fintantoché il suo sonno rimane indisturbato. Fin dall’antichità, e poi, soprattutto, nell’era del Romanticismo, il sogno è stato esplorato dall’arte e dalla filosofia come uno spazio liminale tra realtà e finzione, luce e buio, coscienza e subconscio: un “regno delle ombre” non troppo dissimile dal cinema stesso, come già nel 1896 lo scrittore russo Maksim Gor’kij definiva la neonata arte1.
Il cinema europeo, principalmente grazie alle eredità dei surrealisti come Luis Buñuel e di registi visionari come il nostro Federico Fellini, non è estraneo a spinte oniriche. Nel cinema americano non d’avanguardia, invece, è difficile trovare autori che si siano confrontati così programmaticamente con l’inconscio e la contrapposizione sogno/realtà, come invece ha fatto Lynch sin dall’esordio al lungometraggio con Eraserhead – La mente che cancella (Eraserhead, 1977). Questo ha spesso portato il pubblico a identificare il cinema di Lynch come un’arte profondamente introspettiva, poco accessibile, e, per alcuni versi, autoriferita, allontanando la possibilità di una lettura socio-politica dei suoi film.
Tale tipo di interpretazione è limitante, soprattutto perché il regista è – ed è sempre stato – profondamente legato al suo Paese d’origine e al suo immaginario. Studente d’arte, quando parte per il Vecchio Mondo per studiare le opere del pittore espressionista austriaco Oskar Kokoschka, meditando di rimanere a Salisburgo per tre anni, torna in patria dopo solo quindici giorni, come raccontato da lui stesso in numerose interviste.2 Il cinema lynchiano è costellato di riferimenti alla cultura pop degli Stati Uniti d’America, per cui il regista prova evidentemente un affetto e un interesse profondi: dai diner, onnipresenti ma importanti soprattutto in Twin Peaks (id., 1990-1991) e Mulholland Drive (id., 2001), al mondo del cinema, esplorato sia in Mulholland Drive che in Inland Empire – L’impero della mente (Inland Empire, 2006). I suoi film e la sua leggendaria serie televisiva sono popolati da personaggi che ricoprono ruoli stereotipici dell’immaginario americano: dai liceali di Twin Peaks e Velluto Blu (Blue Velvet, 1986), ai cowboy di Mulholland Drive e del corto The Cowboy and the Frenchman (1988), dai gangster di Velluto Blu e Cuore selvaggio (Wild at Heart, 1990), alle cantanti di bar (ancora Mulholland Drive, Twin Peaks e Velluto Blu), passando infine per la figura della femme fatale (Cuore selvaggio, Velluto Blu, Eraserhead e Strade perdute, titolo originale Lost Highway, 1997). Anche i luoghi – la metropoli losangelina di Inland Empire, Mulholland Drive e Strade perdute), la natura selvaggia di Una storia vera (The Straight Story, 1999) e Cuore selvaggio, e le cittadine sonnolente e borghesi di Velluto blu e Twin Peaks – si nutrono di un immaginario ben radicato nella cultura statunitense, così come i generi a cui il cinema di Lynch strizza l’occhio: il noir, il road movie, il mélo sirkiano.

A queste suggestioni “da cartolina” dell’America, Lynch aggiunge la sua estetica inquietante, interessata all’eterna lotta tra bene e male e alla ridefinizione dei confini – se di confini si può parlare – tra i due poli. In questo, Velluto blu è sicuramente l’esempio perfetto di come l’onirico, oltre a esplicitare le pulsioni e le perversioni dei personaggi, sia anche, un mezzo per dipingere una critica all’America del 1986, mettendo profondamente in crisi il concetto di “sogno americano”.
L’incipit del film è celeberrimo. Dopo i titoli di testa, che scorrono su una tenda di velluto blu, vediamo piccoli dettagli dalla tranquilla città di Lumberton, USA, mentre Bobby Vinton canta Blue Velvet. Uniti da lunghe dissolvenze, vediamo il cielo blu, sotto al quale si stagliano rose rosse e una staccionata bianca (in un’inquadratura che in sé è già il perfetto simbolo dell’America e del film), un pompiere che saluta dal suo camion, dei bambini che ordinatamente attraversano la strada, una classica villetta da suburb, un uomo che innaffia il suo giardino. Poco per volta, Lynch inserisce degli elementi sempre più disturbanti. Prima, la pistola in primo piano nello sceneggiato che la signora nella villetta sta guardando, poi il tubo dell’innaffiatoio che si incastra e si contorce, poi ancora l’arresto cardiaco dell’uomo, il cane che abbaia minaccioso e sembra volerlo attaccare e, infine, sotto l’erba verde, sotto la terra nera, una colonia di scarafaggi brulicanti che ci segnalano che c’è il marcio sotto la perfezione. Nella stessa direzione lavora il catalizzatore del mistero al centro del film, l’orecchio putrefatto trovato da Jeffrey (Kyle Maclachlan) in un campo poco fuori dalla cittadina. Non è un caso che questi due elementi putridi ed estremamente angoscianti – gli scarafaggi e l’orecchio – siano collegati a luoghi rigogliosi di natura: infatti, Lynch ha esplorato temi legati alla ciclicità della vita e al ciclo naturale nascita-morte lungo tutta la sua carriera, ma particolarmente significativo è uno dei suoi primi cortometraggi, The Grandmother (1970), in cui il collegamento tra organicità (la terra, le piante) e vita umana è ulteriormente sottolineato.
Quindi, sebbene sia ovvio il parallelismo che Lynch fa tra la storia raccontata nel film, ovvero quella di una città perfetta dietro cui si nascondono poliziotti corrotti, giri di droga e gli inquietanti e violenti fuorilegge capitanati da Frank Booth (Dennis Hopper), e la scena di apertura, non è anodino l’allargamento di campo dalla piccola Lumberton a tutti gli USA. Inoltre, la metafora non è una semplice critica dell’ipocrisia dell’America reaganiana, ma costruisce un rapporto ben più complesso in cui il putrido, seppur nascosto, è essenziale al funzionamento della città: è la decomposizione dell’orecchio a nutrire il suolo e a permettere all’erba di crescere.

L’intero film ripropone in varie forme lo squarcio nel velo dell’ipocrisia esemplificato dalla macchina da presa che, nella scena iniziale, va in fondo alle cose, fino a trovare il sostrato corrotto e inquietante. La scena del bar, in cui l’all-American boy Jeffrey e l’all-American girl Sandy (Laura Dern) vanno a vedere l’esibizione di Dorothy (Isabella Rossellini), che canta – indovinate un po’? – Blue Velvet a ripetizione, è un altro esempio. Dorothy si esibisce davanti a un’orchestra e delle tende rosse (spesso usate da Lynch per segnalare la presenza di un’altra dimensione di coscienza, vedi Twin Peaks) e, dopo qualche strofa della canzone, il regista monta una dissolvenza su Dorothy, dopo la quale il suo abito è cambiato e alle sue spalle è restato solo il pianista. Sebbene questo possa sembrare un espediente abbastanza classico per indicare il passare del tempo, in realtà Jeffrey e Sandy, quando il loro controcampo viene inquadrato, sono vestiti esattamente come prima e pare non abbiano toccato i propri bicchieri di birra. Che cosa indica, allora, questa lunga dissolvenza? Forse un cambiamento dello stato di coscienza e conoscenza dei protagonisti, un avvertimento che dopo quel momento sarà impossibile, per loro, tornare alla loro ignorante e felice vita quotidiana?
Questa scena forma anche un parallelo interessante con l’altrettanto conosciuta sequenza a casa del mellifluo Ben (Dean Stockwell), in cui questo inizia a cantare la canzone In Dreams di Roy Orbison, per poi rivelare bruscamente di essere in playback (anticipando la scena del club Silencio in Mulholland Drive). La canzone cita il “candy-colored clown they call the Sandman”, ovvero l’Uomo-Sabbia, che nel testo ha una valenza totalmente positiva e permette al narratore di raggiungere la persona amata (un po’ come nella precedente Mr. Sandman delle Cordettes). Tuttavia, sebbene sia vero che, nel folklore germanico, l’Uomo-Sabbia doni sogni alle persone cospargendo di sabbia i loro occhi nel sonno3, esso è anche una figura estremamente inquietante, esplorata per la prima volta nel racconto L’uomo della sabbia (1815) di E.T.A. Hoffmann4. In una rielaborazione di qualche anno successiva al film, ovvero la serie a fumetti della DC (1989-1996) dedicata proprio a Sandman e ideata da Neil Gaiman, egli è fratello della Morte. Il legame sonno-morte, che Lynch esplorerà di nuovo, ad esempio, in Mulholland Drive e Strade perdute, assume qui connotazioni particolarmente violente, soprattutto quando Frank, cantando ancora la canzone di Orbison, picchia Jeffrey lasciandolo quasi morto. Che sia un commento di Lynch riguardo all’abitudine della cultura americana di indorare ogni pillola un po’ inquietante e nascondere il male sotto al metaforico tappeto? Penso, ad esempio, alla conversione delle disturbanti fiabe dei fratelli Grimm nelle totalmente innocue fantasie musicali di Walt Disney.
L’Uomo-Sabbia e i suoi poteri, ovviamente, sono anche una chiara metafora per la cocaina, che proprio negli anni Ottanta, sotto la presidenza di Ronald Reagan, raggiungeva l’apice di diffusione nella popolazione statunitense. Tutto il film rispecchia l’estetica preferita dall’epoca reaganiana, in particolare nel ritorno all’immaginario degli anni Cinquanta, che si può notare sia nel vestiario che nella saturazione dei colori, che ricorda quella del Technicolor spesso usato dalla società di produzione cinematografica Metro-Goldwyn-Mayer nei suoi musical, uno fra tutti Il mago di Oz (The Wizard of Oz, Victor Fleming, 1939), vera e propria ossessione lynchiana. Nell’immaginario statunitense, gli anni Cinquanta sono un’epoca marcata da pressioni sociali fortemente conservatrici, un ritorno all’ordine dopo il caos del periodo bellico. Ciò rispecchia la rigida disciplina della presidenza Reagan, sotto la quale venne adottato un modello economico fortemente liberista, che provocò un picco di crescita, ma anche un calo negli aiuti federali all’indigenza. Ex-stelle di Hollywood, Ronald e Nancy Reagan puntarono molto sulla propria immagine pubblica e su quella del proprio Paese, inasprendo anche in un primo momento i rapporti con il blocco sovietico (definito da Reagan “l’impero del male”), mentre sul piano sociale la nuova presidenza tentò invano di ribaltare alcune importanti conquiste delle lotte civili degli anni Settanta, quali ad esempio il diritto all’aborto (sancito a livello federale sino al 2022 dalla sentenza della Corte suprema Roe v. Wade).
Lynch, che pure non è mai stato un regista apertamente politico, sembra incarnare le angosce dell’America del 1986 nei suoi perversi e complessati personaggi, trasformando il sogno americano in un incubo. Grattando la superficie si troverà il marcio, e non basta affidarsi ai sogni, questa volta meno inquietanti, di Sandy, che vorrebbe che i tordi (o pettirossi, nella traduzione italiana) invadessero il cielo di Lumberton, portando amore e serenità. Infatti, quando alla fine un tordo si presenta davvero alla finestra dei due ragazzi, che ormai non hanno più l’innocenza adolescenziale che avevano all’inizio del film, questo è chiaramente un pupazzo meccanizzato, una copia posticcia e irreale del simbolo dell’happy ending.


Sandy e Jeffrey, che nella loro ultima apparizione sembrano recitare perfettamente il ruolo della famiglia americana felice, preferiscono forse l’illusione del bene e dell’ordine, per non dover affrontare ancora e ancora il “regno delle ombre” di Frank, Ben e Dorothy. Sebbene quest’ultima sequenza inizi con Jeffrey che si sveglia da un pisolino, possiamo davvero dire che viva nella realtà? Al contrario, Dorothy sceglie una posizione liminale: anche lei sembra aver avuto il suo happy ending, ma le note di Blue Velvet in sottofondo ci ricordano che la sua vita non sarà mai più come prima. La conclusione del film è ciclica, ripropone le immagini di Lumberton viste all’inizio e la tenda di velluto blu, ma questo “ritorno all’ordine”, o all’origine, è quasi hegeliano. Sembra suggerire che in realtà glə americanissimə protagonistə, scegliendo un ritorno alle strutture sociali tradizionali e scevre da qualsiasi perversione (incarnate invece dai rapporti tra Jeffrey, Dorothy e Frank), non siano riusciti a sconfiggere il male, ma solo a ignorarlo ancora per un po’. Allo stesso modo, la crescita economica e l’apparente vittoria della guerra fredda dell’America di Reagan era solo uno specchietto delle allodole, che non poteva risolvere le tensioni sociali, economiche e politiche interne al Paese.
Note
- cfr. Antonio Costa, Il richiamo dell’ombra. Il cinema e l’altro volto del visibile, Einaudi, 2021, p. 4
- cfr., ad esempio, Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro Cinema, 2004, o David Lynch, Chris Rodley (edited by), Lynch on Lynch, Faber&Faber, 2005
- Per leggere la versione di Hans Christian Andersen della fiaba dell’omino dei sogni (o Uomo-Sabbia, o Ole Lukøje), potete consultare il seguente link (in inglese): https://www.gutenberg.org/files/27200/27200-h/27200-h.htm#ole_luk
- Da notare anche come, nel racconto di Hoffmann, l’Uomo-Sabbia uccida le persone cavando loro gli occhi, un tema che ricorre molto spesso nell’opera di Lynch.