Ringraziamo Ubagu Press per la copia stampa
«La vergogna deve cambiare lato», dichiarava alla stampa l’anno scorso Gisèle Pelicot, la donna francese drogata e violentata dal marito e da oltre cinquanta sconosciuti, spiegando perché aveva voluto rinunciare all’anonimato che lo Stato le permetteva di mantenere al processo.
Quando si raccontano casi di true crime, che sia tramite documentari, podcast, serie tv o film romanzati, o ancora saggi o romanzi, si tende a concentrarsi sui criminali: più è efferato il crimine, più è forte quel certo “fascino del male” che ci spinge a chiederci che cosa passi nella testa di serial killer e stupratori. Da un certo punto di vista, questo comportamento è comprensibile. Il cervello umano è fatto per identificare schemi e seguire modelli sociali predefiniti e non riesce a comprendere l’esistenza di altri esseri umani che decidono di rompere questi modelli. Quante volte vi è capitato di chiedervi come sia possibile arrivare ad uccidere qualcuno, magari organizzando e pregustando il fatto per mesi, o accanendosi sulla vittima, godendo del suo dolore? Insomma, non credo che smetteremo mai di cercare di capire le menti degli assassini, anche solo per cercare di “prevenire” la comparsa di soggetti simili, se una cosa del genere è davvero possibile.
Tuttavia, presi come siamo a studiare i colpevoli, a conoscere ogni minimo particolare della loro infanzia, ad analizzare ogni mossa prima, durante e dopo gli omicidi, ci dimentichiamo quasi sempre di chi ha sofferto in prima persona per mano del criminale di turno: le vittime.
Se volete saperne qualcosa in più su Ted Bundy, l’efferato assassino e stupratore seriale attivo almeno dal 1974 al 1978 (e forse già a partire dagli anni Sessanta), avete a disposizione una quantità innumerevole di documentari, ricostruzioni, blog, libri, articoli, video-podcast, film e speciali Netflix. Invece, se cercate su Google il nome di una delle sue trentasei vittime accertate, dovete accontentarvi di una foto e un breve articolo della “Victims of Serial Killers Wiki”, che, tra l’altro, racconta la loro storia a partire dal giorno in cui hanno incontrato il loro carnefice.
L’attenzione mediatica su Bundy e soggetti simili è sempre stata altissima (una goduria per chi, come lui, aveva spiccati tratti narcisistici), mentre delle vittime si sanno solo poche informazioni, spesso rimaneggiate dall’opinione pubblica: ma davvero, un promettente e attraente studente di Legge, senza precedenti penali, avrebbe deciso all’improvviso di attaccare brutalmente delle ragazze universitarie? Non è che loro, alla fin fine, l’hanno provocato? Le vite delle vittime e le loro azioni vengono analizzate al microscopio, non solo da agguerriti avvocati della difesa pronti a tutto pur di scagionare il proprio cliente, ma anche da una cultura misogina che, a metà degli anni Settanta, era già pronta a vedere “rimesse al loro posto” alcune delle giovani e brillanti ragazze figlie del femminismo di seconda ondata, piene di aspirazioni e talento e colme di un rinnovato senso di indipendenza.
Invece, questa indipendenza viene usata come una macchina del fango fatta e finita. Se hai già avuto rapporti sessuali con il tuo fidanzato, allora sei decisamente disinibita, siamo sicuri che l’Imputato ti abbia stuprata? Non è che l’hai adescato tu? Se sei una studentessa di Legge in gamba, non è che l’hai fatto arrabbiare facendolo sentire inferiore? E se sei così sveglia come dicono tutti, perché hai accettato di seguirlo in macchina, dopo che ha insistito mezz’ora? Gentilezza mal riposta o civetteria finita male?

Jessica Knoll, nel suo nuovo romanzo Bright Young Women, edito in Italia da Ubagu press e presto base per una serie TV, ha deciso che la vergogna deve cambiare lato. Knoll ha deciso che di Ted Bundy si parla pure troppo, che la sua reputazione da genio del male talmente affascinante da essere in grado di irretire persino il giudice è, a dir poco, enfatizzata, e che le sue vittime meritano di più delle note a piè di pagina. Bright Young Women è allora un tentativo coraggioso di ripensare a come raccontiamo il true crime.
Le narratrici, in prima persona, sono due: Pamela Schumacher e Ruth Wachowsky. La prima, la cui narrazione si districa tra il biennio 1978-1979 e il periodo tra il 2019 e il 2021, è la presidentessa di una confraternita femminile della Florida State University. Metodica e fin troppo ligia alle regole, è fidanzata per inerzia con Brian ed è venuta all’università con l’amica d’infanzia Denise Patrick Andora, vivace e promettente studentessa d’arte, che a soli vent’anni ha già ottenuto uno stage con Salvador Dalì. È Pamela a svegliarsi, nel cuore della notte del 14 gennaio 1978, e a notare strani dettagli nel dormitorio della confraternita. La luce automatica accesa, un forte tonfo: Pamela corre al piano di sopra e riesce a vedere uno sconosciuto uscire dalla camera di una delle sue consorelle. Allarmata, comincia a bussare ad ogni porta, per accertarsi che tutte stiano bene. Sarà lei a trovare i volti mutilati di Jill e Eileen e i corpi inermi di Robbie e della sua migliore amica, Denise, che spirerà fra le sue braccia.
Pamela è una testimone, non solo nel senso limitato che la giustizia processuale impone al termine, ma nel senso più ampio di persona che incarna la verità e la lotta per mostrarla al mondo. Per due anni, cercherà di far chiarezza su quello che è successo alle sue consorelle – alle sue amiche – e, soprattutto, in ogni occasione getterà luce su quelle vite spezzate, su come fossero amate da tutti, sul loro potenziale ancora non totalmente esplorato. Knoll decide di non nominare mai l’assassino, chiamandolo semplicemente “lui” o “l’Imputato”, smontando con i fatti il profilo romanzesco che i media ne hanno fatto. Non un criminale dal QI sopra la media, ma uno studente scadente, fallito e frustrato. Non un uomo dal fascino irresistibile, ma uno che sapeva sfruttare il servilismo inculcato alle donne fin dall’infanzia, mostrandosi in difficoltà o ferito e insistendo ben oltre il primo «no».
La seconda voce narrante, quella di Ruth, arriva dal 1974 e da Issaquah, nello stato di Washington. Ruth ha un passato difficile alle spalle, che verrà svelato mano a mano, ma trova la felicità grazie a un gruppo di sostegno per il lutto complicato, guidato da due donne caparbie e intraprendenti, Frances e Tina. È soprattutto Tina ad affascinare Ruth e le due stringeranno un legame indissolubile. Tina compare anche nel 1978, a Tallahassee, e capiamo subito che qualcosa, in lei, si è rotto quattro anni prima e, in qualche modo, Ruth c’entra. Al lettore, naturalmente, tocca svelare il mistero.
Bright Young Women non è un saggio. I dettagli degli omicidi e delle indagini sono in gran parte veri, ma i nomi delle vittime e delle protagoniste sono di finzione, così come molti dettagli sulle loro vite (fa eccezione Kimberly Leach, l’ultima e più giovane vittima di Bundy, uccisa a soli dodici anni nel 1978). Così, Jessica Knoll riesce a darci un ricordo di queste giovani e brillanti ragazze senza invadere la loro privacy. L’operazione non risulta mai forzata. Il romanzo si legge come un thriller, ma a tenere incollati gli occhi alle pagine non è tanto la curiosità di sapere che cosa stia per succedere, bensì la forza delle protagoniste e la loro ostinata ricerca di giustizia. In particolare, Pamela è capace di far arrabbiare e commuovere il lettore, e Knoll ci regala dei bellissimi passaggi in cui la giovane ricorda l’amica Denise, riuscendo perfettamente nel creare ritratti di persone realistiche e a tutto tondo (tanto che, finito il libro, la sottoscritta è dovuta andare a controllare quanto fosse inventato e quanto fosse reale, stupendosi del risultato di questo computo).
Non sfugge neanche la critica che l’autrice rivolge ai media, alla polizia e più in generale a una società che, se forse non crea mostri, di sicuro li alimenta e li accarezza con malcelata ammirazione. È troppo facile addossare la colpa a qualche sparuto soggetto con chiari problemi psichiatrici: Knoll mette in chiaro da subito che se la stragrande maggioranza delle vittime di crimini violenti sono donne, è perché la società le inquadra facilmente come “vittime designate”, perché l’educazione a loro riservata le incoraggia a mettere i propri interessi e i propri istinti sempre in secondo piano, e perché i “mostri” sono un semplice capro espiatorio per sentirsi meglio con se stessi e per giustificare le proprie mancanze. Più volte Knoll sottolinea come i poliziotti sotto il cui naso l’Imputato è evaso non una, ma ben due volte, abbiano calcato molto la mano sulla furbizia criminale dello stesso. Guarda caso, non citavano quasi mai i parametri di sicurezza molto laschi delle strutture detentive scelte per lui.
«“Datemi venti minuti da solo in una stanza con lui”. rincarò la dose Brian, con un tono famelico e lascivo che mi fece rivoltare lo stomaco. Negli anni, quella frase divenne una specie di test di Rorschach. Conobbi uomini che si facevano scrocchiare le nocche erudendomi su cosa avrebbero fatto all’Imputato alla prima buona occasione, convinti che quello potesse in qualche misura rassicurarmi. Tutt’al più, mi facevano solo capire che non c’era poi una gran differenza tra l’uomo che aveva massacrato Denise e metà di quelli che incontravo ogni giorno per strada».1
Non ci sono dettagli scabrosi o minuziose analisi psicologiche dell’Imputato, nel romanzo di Knoll. Non c’è la ricerca smaniosa della frattura tra l’immagine di «bright young man», «giovane brillante», come lo definì il giudice Edward Cowart, e la sua anima feroce e violenta. C’è, però, una richiesta ai lettori: ripensate al modo in cui raccontiamo le storie di violenza contro le donne. Ricordiamoci che, statisticamente, la polizia tende a non credere alla loro voce e i mass media sanno che le storie sordide, che siano vere o manipolate, vendono molto di più dei resoconti di vite ordinarie di giovani universitarie. Non dimentichiamo chi sono le vittime, chi la loro famiglia, chi i loro amici. Rammentiamo i cerchi concentrici di dolore che i gesti violenti generano nella vita di chi resta, e che delle ragazze tra i dodici e i ventun’anni resteranno per a quell’età, congelate nei sorrisi delle foto nell’annuario scolastico.
Alla fine, quello che più resta sotto alla pelle di Bright Young Women è la resilienza di Pamela e di Tina, il sorriso di Denise, la mite rivalsa di Ruth e un pensiero caloroso a tutte le vittime che ancora oggi aspettano giustizia. E la vergogna, finalmente dal lato giusto.

di Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo – ha madre ligure e padre francese – e per L’Eclisse fa l’uccello del malaugurio. La sua ossessione principale è il cinema, ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha due gatti e molti dubbi.
Note
- Knoll, J., Bright Young Women, trad. it. Marina Calvaresi, 2025, Roma: Ubagu Press, p. 77.