Sag es mit eigenen Wörtern: quello che l’italiano non sa dire
Se mi venisse chiesto per quale motivo il tedesco, lingua che studio ormai da quasi dieci anni, è la mia lingua preferita, risponderei con questa citazione da un libro a me molto caro, Stasiland (2003) della giornalista australiana Anna Funder:
“Ricordo di aver imparato il tedesco – così bello, così strano – a scuola, in Australia, dall’altra parte della Terra. La mia famiglia non riusciva a farsi una ragione che mi mettessi a studiare una lingua così assurda e brutta, una lingua che sotto sotto, anche se erano troppo sofisticati per dirlo, era la lingua del nemico. Ma a me piaceva la sua natura di gioco di costruzioni, quel montare lunghe malleabili parole mettendo insieme i mattoncini di quelle corte. Si poteva dar vita a cose che in inglese non avevano nome – Weltanschauung, Schadenfreude, sippenhaft, Sonderweg, Scheissfreundlichkeit, Vergangenheitsbewältigung. Mi piaceva la vertiginosa gamma di parole da “heartflet” a “heartsick”. E mi piaceva l’ordine, la schiettezza che immaginavo nelle persone. Poi, negli anni ottanta, venni a stare a Berlino Ovest per un po’ e mi chiesi a lungo e intensamente cosa succedesse dall’altra parte di quel Muro.” (tradotto in Italia da Feltrinelli come C’era una volta la DDR)
Chi studia il tedesco impara presto che questa lingua, troppo spesso (e ingiustamente) percepita come dura e impenetrabile, cela in realtà una straordinaria capacità di dare voce all’indicibile. Se l’italiano, come molte delle lingue romanze, predilige il discorso fluido e armonioso, il tedesco sceglie la via della sintesi concettuale, creando parole che plasmano il pensiero e l’emozione attraverso forme linguistiche uniche. Una delle caratteristiche più affascinanti di questa lingua è la sua naturale propensione alla composizione, processo linguistico che permette di formare parole in grado di catturare concetti complessi attraverso l’unione di sostantivi, aggettivi e verbi; ciò è reso possibile dalla struttura flessiva che caratterizza il tedesco e da una grammatica che accetta con naturalezza composti di tre, quattro, o anche più elementi. Dove l’italiano ricorre a perifrasi e metafore, il tedesco nomina l’astratto con precisione chirurgica, dotando il parlante di strumenti concettuali potenti. È proprio qui la vera magia di questa lingua: esprimere l’inesprimibile. Oggi vorrei raccontarvi nove parole, cosiddette intraducibili, con cui il tedesco riesce ad esprimere quello che all’italiano (e a molte altre lingue) semplicemente sfugge.
1. Fernweh /ˈfɛʁnˌveː/
La prima parola sulla quale vorrei soffermarmi è Fernweh, composta da fern, lontano, e Weh, dolore. Tradurre Fernweh è quasi impossibile. Non esiste in italiano un corrispettivo esatto e ogni resa tende a perderne qualche sfumatura. Generalmente tradotta come “nostalgia dell’altrove” o “desiderio struggente di viaggiare”, Fernweh è molto di più: è una tensione esistenziale verso l’ignoto. Indica un’irrequietezza profonda, un dolore quasi fisico causato dal non trovarsi altrove.
Questo desiderio profondo di esplorare luoghi lontani permea la letteratura romantica: da Goethe, che nel Wilhelm Meister esplora il desiderio di scoperta e il viaggio come percorso di crescita interiore, fino a Novalis, che con il suo ideale di lontananza come condizione esistenziale dell’anima poetica esplicita perfettamente il concetto. L’esempio forse più lampante si trova però nelle Wanderer-Gedichte (le poesie del viandante) di Joseph von Eichendorff, dove l’io lirico è spesso un viaggiatore solitario, perso nella natura e in cerca di qualcosa di indefinito. Di seguito una delle mie preferite:
Mondnacht Es war, als hätt’ der Himmel Die Erde still geküßt, Daß sie im Blütenschimmer Von ihm nun träumen müßt’. Die Luft ging durch die Felder, Die Ähren wogten sacht, Es rauschten leis’ die Wälder, So sternklar war die Nacht. Und meine Seele spannte Weit ihre Flügel aus, Flog durch die stillen Lande, Als flöge sie nach Haus.
Notte di Luna Era come se il cielo avesse baciato silenzioso la terra, e questa in uno scintillio di fiori dovesse ora sognarlo. La brezza spirava sui campi, miti ondeggiavano le spighe, i boschi stormivano lievi, tanto chiara di stelle era la notte. E la mia anima distese larghe le ali, volando per silenti terre, come se volasse verso casa.
(Traduzione di Anna Chiarloni)
2. Sehnsucht /ˈzeːnˌzʊχt/
Legata semanticamente alla parola precedente, Sehnsucht è la prima parola intraducibile che ho incontrato lungo il mio percorso di studi. Si compone di sehnen, bramare, e Sucht, la dipendenza. È espressione di un desiderio struggente, di un anelito infinito verso un qualcosa, una tensione continua verso un ideale. Sehnsucht è, oserei dire, il concetto principe della letteratura e filosofia tedesche, soprattutto del periodo romantico (ma non solo!). Quest’idea domina infatti la produzione di grandi scrittori e filosofi tedeschi. Se Goethe, Novalis, Schelling e Heidegger associano il concetto all’essere e alla nostalgia per un’origine perduta, Schopenhauer lo collega all’idea di Wille, la volontà cieca che guida l’essere umano in una ricerca continua e frustrante. Tradurre Sehnsucht come “desiderio” è alquanto banalizzante. Sehnsucht è un desiderio che porta con sé un senso di mancanza di qualcosa; una tensione verso qualcosa che potrebbe addirittura non esistere. Sehnsucht è un’emozione che si muove tra la speranza e il dolore, tra la bellezza e la malinconia. E forse, proprio per questo, è una delle parole più belle e poetiche che la lingua tedesca ci ha regalato.

3. Weltschmerz /ˈvɛltʃmɛʁts/
Il fil rouge che lega molte delle parole che ho scelto è il Romanticismo. Weltschmerz è forse la mia preferita fra le parole che mi accingo a presentarvi. Composto da Welt, mondo, e Schmerz, dolore, Weltschmerz è un concetto ben radicato nell’opera dello scrittore Jean Paul, che conia il termine nel suo romanzo del 1827, Selina, per descrivere il senso di disillusione e malinconia tipico dell’epoca romantica. Weltschmerz è un termine che resiste alla traduzione: “mal di vivere”, “dolore esistenziale” o “disillusione romantica” non sono espressioni abbastanza forti o capaci di arrivare davvero al cuore di questo concetto. Fra le incarnazioni più emblematiche in letteratura di questo concetto vi è forse il Werther di Goethe, vittima per antonomasia di questo dolore esistenziale insopportabile dovuto all’inconciliabilità tra il suo ideale d’amore e la realtà in cui vive. Weltschmerz non si limita però ad essere un’idea romantica: il concetto è infatti sconfinato anche nel Novecento, grazie ad autori come Franz Kafka, che l’ha espresso in una chiave prevalentemente esistenzialista e surreale, Thomas Mann, che esplora la tensione tra l’individuo e la società o, ancora, Rainer Maria Rilke, le cui riflessioni sulla solitudine, l’ansia esistenziale e l’inesorabilità del destino individuale sono un chiaro esempio di questa sensazione di sofferenza verso il mondo.
4. Waldeinsamkeit /ˈvalˌdaɪnˌzaːmˌkaɪt/
Il termine Waldeinsamkeit, unisce Wald, bosco, e Einsamkeit, solitudine: significa letteralmente “la solitudine nel bosco”. Si riferisce a una solitudine serena e contemplativa, un concetto che il Romanticismo celebra pienamente. Questa parola è forse fra le più significative per il movimento romantico in Germania, che vedeva nella natura un luogo privilegiato per l’anima. Legata a poeti come Joseph von Eichendorff e Goethe, Waldeinsamkeit ha anche ispirato altre tradizioni letterarie, come quella anglo-americana, dove autori come Henry David Thoreau, nel suo Walden, raccontano la vita nei boschi come un modo per riconnettersi con la natura e con sé stessi, o William Wordsworth, che esplora il profondo legame tra l’individuo e l’ambiente naturale.
5. Schadenfreude /ˈʃaːdənˌfrɔʏdə/
Più recente è invece l’origine di Schadenfreude, composta da Schaden, danno, e Freude, gioia. La si potrebbe definire come una maligna gioia per le disgrazie altrui. In italiano non esiste un traducente diretto: servono perifrasi, spiegazioni. È un sentimento reale, che descrive quel più o meno sottile senso di soddisfazione che ci pervade quando una persona da noi non esattamente amata subisce una battuta d’arresto nella vita. Quello di Schadenfreude è un concetto già presente in Aristotele, che parla dell’elemento di piacere che si ritrova nella tragedia altrui e in Nietzsche, che vedeva invece questo sentimento come una manifestazione della volontà di potenza e della competizione insita nell’essere umano. Dal punto di vista linguistico, Schadenfreude è un perfetto esempio di parola intraducibile. In italiano possiamo provare a renderla con espressioni come “piacere per il dispiacere altrui” o “godere delle disgrazie degli altri”, ma nessuna di queste riesce a catturare appieno la forza immediata del termine tedesco.
7. Zweisamkeit /ˈtsvaɪ̯zamˌkaɪ̯t/
L’intimità di essere in due, contrapposta alla solitudine, Einsamkeit, è il significato che cela questa meravigliosa parola. Composta dall’unione tra zwei, due, e Einsamkeit, solitudine, Zweisamkeit suggerisce un’idea di isolamento condiviso, una solitudine a due che è tutto tranne che solitudine. Zweisamkeit è il piacere di essere soli insieme a qualcuno. Anche qui, non esiste una traduzione perfetta in italiano: possiamo avvicinarci con “intimità di coppia” o “solitudine condivisa”, ma nessuna espressione coglie la delicatezza del termine originale. Questa idea emerge in numerosi autori e filosofi come Rilke, che descrive l’amore come un’arte dell’essere soli insieme, senza soffocare nell’identità dell’altro.

8. Lebensmüde /ˈleːbənsmʏdə/
Potente e complessa, questa penultima parola indica, unendo le parole Leben, vita, e müde, stanco, una persona stanca della vita; un’apatia, esaustione mentale ed emotiva tale da portare una persona a sentirsi stanca della propria esistenza. In termini filosofici, il lebensmüde è un concetto che si avvicina a quello di “noia esistenziale”. In letteratura, il sentimento di lebensmüde appare con una certa frequenza, spesso nelle opere di autori romantici e decadenti, dove l’individuo si confronta con la propria limitatezza e il senso di impotenza di fronte a un mondo che sembra privo di senso. Un esempio emblematico potrebbe essere Thomas Mann, che nelle sue opere esplora il conflitto esistenziale dei suoi personaggi, spesso intrappolati in un ciclo di angoscia e noia. Come per le altre parole viste finora, lebensmüde non ha una traduzione esatta in altre lingue. L’idea di un qualcuno “stanco della vita” riesce a catturare l’essenza del termine, ma non trasmette la stessa densità emotiva e psicologica che il termine tedesco implica.
9. Zugzwang /ˈtsuːkˌtsvaŋ/
Zugzwang è una parola di origine tedesca nata nel contesto degli scacchi, ma ormai impiegata anche al di fuori di questo ambito. Deriva dalla combinazione di Zug, mossa, (ma anche treno!) e Zwang, obbligo, e significa letteralmente “obbligo di mossa”. Descrive una situazione in cui un giocatore è costretto a muovere, pur sapendo che qualunque mossa peggiorerà la propria posizione. Il termine esprime dunque una condizione paradossale, in cui l’inazione sarebbe preferibile, ma non è consentita. In senso più ampio, Zugzwang viene utilizzato per indicare qualsiasi circostanza in cui bisogna necessariamente agire, pur sapendo che tutte le opzioni conducono a esiti negativi o indesiderati. In contesti sociali o psicologici, può riferirsi a un momento di stallo personale, in cui ogni scelta comporta un peggioramento della situazione, ma l’inazione non è contemplata.
Fernweh, Weltschmerz, Schadenfreude e Lebensmüde, offrono uno spunto affascinante per esplorare come la lingua possa riflettere emozioni complesse e sfumature della condizione umana. Come scriveva l’austriaco Ludwig Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus (1921), “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Se questo è vero, allora il tedesco spalanca mondi che l’italiano può solo scorgere da lontano.