Non esiste, forse, nella storia dell’umanità figura più universale di quella della madre. Nel vasto e turbolento panorama della letteratura russa del XX secolo, il tema della maternità affiora con forza, spesso avvolto dal dolore, dalla resilienza e dal sacrificio.
Nel caso di Vasilij Grossman, tra le voci più brillanti del grande secolo sovietico, quello della maternità è un tema centrale e in costante evoluzione. Dalle mani tremanti delle donne a Treblinka a quelle scheletriche delle madri ucraine che, nelle stazioni durante l’Holodomor1, implorano i viaggiatori di passaggio di dar loro un pezzo di pane, fino allo sguardo fermo e sereno della Madonna Sistina di Raffaello, Grossman reimmagina la maternità come una forza tranquilla e indistruttibile che sopravvive alla violenza, all’ideologia corrotta e persino alla morte.

È nel saggio La Madonna Sistina (Сикстинская Мадонна) che Grossman cristallizza la sua riflessione su questo tema per la prima volta. Il saggio-racconto venne scritto dopo il 30 maggio 1955, data in cui lo scrittore ebbe modo di vedere il dipinto di Raffaello a Mosca durante l’esposizione del trofeo di guerra dei musei tedeschi, organizzata in seguito alla decisione da parte dell’Unione Sovietica di restituire le opere alla DDR. L’esperienza rappresentò, per l’allora cinquantenne Grossman, un vero e proprio punto di svolta. Egli vide nella Madonna non un’icona religiosa, bensì una donna, profondamente umana:
«La bellezza della Madonna è legata saldamente alla vita terrena. È democratica, umana; è la bellezza di tante, tantissime persone – gialli con gli occhi a mandorla, gobbi con il naso lungo e pallido, neri con i capelli crespi e le labbra tumide. È universale. La Madonna è anima e specchio dell’uomo, e chiunque la guardi coglie in lei l’umano: è l’immagine del cuore materno, per questo la sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela – profonda e indistruttibile – ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie. Penso che questa Madonna sia l’espressione più atea della vita, di quell’umano a cui il divino non partecipa. E penso anche che esprima non solo l’umano, ma quanto di altro esiste sulla terra, fra gli animali, ovunque gli occhi scuri di una giumenta, di una mucca, di una cagna che allattano ci lascino intuire e cogliere l’ombra mirabile della Madonna.»
Per Grossman, profondamente ateo, la Madonna Sistina è molto più di un’immagine sacra: è una donna viva. Nel suo volto, egli riconosce lo stesso sguardo visto negli occhi delle madri incontrate a Treblinka:
«Il subbuglio dei miei sentimenti non era paragonabile ai giorni di lacrime e gioia che, ragazzino quindicenne, vissi leggendo Guerra e Pace, né con quanto avevo provato ascoltando Beethoven nei momenti più cupi e difficili della mia vita. Poi capii. La vista della giovane madre con il bambino in grembo non evocava in me un libro o una musica…Treblinka…»
Nell’opera di Grossman, la maternità trascende religione e ideologia. Lo scrittore vede nella madre una forza invincibile, in grado di resistere e vincere su qualunque manifestazione di violenza:
«La loro forza umanissima ha avuto la meglio sulla di lui violenza. La Madonna è entrata a piedi nudi, a passo lieve, nella camera a gas, stringendo il figlio fra le braccia sulla terra tremula di Treblinka.» In questo gesto silenzioso, Grossman intravede un archetipo eterno: la madre, emblema supremo di amore, che avanza nell’abisso stringendo tra le braccia il proprio bambino.
L’universalità di questo tema prende forma concreta nei romanzi dello scrittore. In Vita e Destino (1959), suo capolavoro, la maternità invincibile si incarna nel personaggio di Sof’ja Osipovna Levinton, medico ebreo deportato in un campo di concentramento. Sof’ja non è una madre per sangue, ma per scelta: decide volontariamente di rinunciare alla propria salvezza per restare accanto a David, un bambino orfano incontrato durante il trasporto verso il campo. Mentre i due camminano, mano nella mano, verso la camera a gas, mentre stringe a sé il piccolo corpo esanime di David, mentre respira per l’ultima volta, Sof’ja pensa: «Sono diventata madre». È in questo esatto istante che la maternità si spoglia della biologia, diventando un puro atto d’amore e di coraggio morale.
Sempre in Vita e Destino, Grossman mostra un’altra faccia della resistenza materna. Si tratta della figura di Anna Semënova, ispirata alla madre di Grossman, Ekaterina Savel’evna: in un mondo lacerato dalla violenza e dal sospetto, Anna resta una presenza salda, un rifugio d’amore e resilienza anche quando il regime totalitario smembra le famiglie e impone il silenzio come legge morale. Grossman dedica Vita e Destino alla propria madre, assassinata dai nazisti a Berdyčiv nel 1941. In una struggente lettera postuma (che trovate in fondo all’articolo) scrive:
«Io non temo nulla, perché il tuo amore è con me e perché il mio amore è eternamente con te».
È in questo legame, nella fedeltà alla madre perduta ma ancora viva nella memoria, che si fonda l’asse morale attorno al quale ruota l’umanesimo di Grossman.

In Tutto scorre (1963), ultima opera dello scrittore, Grossman estende la sua meditazione sulla maternità alle vittime dello stalinismo. Nello straziante quattordicesimo capitolo, descrive la carestia ucraina attraverso gli occhi di Anna Sergeevna, testimone oculare del lento sterminio di milioni di persone. Qui Grossman racconta, con dolorosa lucidità, di madri che vagano scheletriche tra le stazioni dell’Ucraina chiedendo un tozzo di pane, di madri che lottano fino all’ultimo respiro per salvare i figli dalla fame e dalla morte. Scrive: «Le madri guardano i figli e cominciano a gridare dalla paura. Gridano come fosse penetrato in casa un serpente. E quel serpente è la morte, la fame». Anche in questo scenario estremo, la figura materna non cede al disumano: è corpo che resiste, voce che implora, gesto che protegge. Una maternità radicalmente terrena, che si aggrappa alla vita con rabbia, testarda nella sua volontà di non cedere al nulla.
Il ritratto che Grossman fa di queste donne non è romanzato: la loro sofferenza è cruda e reale, la loro dignità duramente conquistata. Al contrario, eleva la loro presenza a simbolo dello spirito umano. Mentre gli Stati costruiscono gulag e forni crematori, mentre le ideologie annientano il singolo, le madri resistono. Non esercitano il potere, ma incarnano una forza che esso non può cancellare. Come scrive Alexandra Popoff, tra le più illustri studiose di Grossman, in Vasily Grossman and the Soviet Century: «La promessa insita nella maternità, la sua presenza gli fa dire che nel cuore dell’esistente c’è qualcosa di inestirpabile, irriducibile, incancellabile quale che sia il corso della storia del mondo».
Ciò che si evolve nell’opera di Grossman, quindi, non è solo una rappresentazione della madre come figura tragica, ma come silenziosa custode dell’umanità e di quello che Grossman definisce L’umano nell’uomo (человеческом в человеке). Dal reportage L’inferno di Treblinka ai capolavori Vita e destino e Tutto scorre, passando per le testimonianze personali, costruisce un cosmo morale in cui la maternità rappresenta l’ultima ridotta di chiarezza etica, l’ultimo luogo in cui sopravvive l’umano nell’uomo.

In occasione della Festa della Mamma, mentre celebriamo l’amore nella sua forma più primordiale e duratura, Grossman ci ricorda quanto la maternità sia stata, nel Novecento, anche esperienza di perdita e resistenza. Le sue madri non chiedono di essere canonizzate: camminano a piedi nudi nell’oscurità, con le braccia strette intorno ai loro figli, e, così facendo, in un gesto senza proclami, illuminano la via per il resto di noi.
Di seguito, in russo, e con una mia traduzione italiana, una delle lettere postume di Grossman alla madre, a mio giudizio, fra le cose più belle e devastanti che io abbia mai letto.
Дорогая моя, вот прошло 20 лет после твоей смерти. Я люблю тебя, я помню каждый день своей жизни, и горе мое все эти 20 лет вместе со мной неотступно.
Я писал тебе 10 лет тому назад, и в моем сердце ты такая же, как была двадцать лет назад. И десять лет назад, когда я писал тебе свое первое после твоей смерти письмо, ты была такой же, как при жизни своей, — моей матерью во плоти и в сердце моем.
Я — это ты, моя родная. И пока живу я — жива ты. А когда я умру, ты будешь жить в той книге, которую я посвятил тебе и судьба которой схожа с твоей судьбой.
За эти двадцать лет много людей, которые любили тебя, уже умерли, тебя уже нет в сердце папы, в сердце Нади, тети Лизы — их нет на земле. И мне кажется, что моя любовь к тебе все больше, ответственней, потому что так мало живых сердец, в которых живешь ты.
Я почти все время думал о тебе, работая последние десять лет, — эта моя работа посвящена моей любви, преданности людям, потому она и отдана тебе. Ты для меня человеческое, и твоя страшная судьба — это судьба человека в нечеловеческое время. Я всю жизнь храню веру, что все мое хорошее, честное, доброе, моя любовь — это все от тебя. Все плохое, что есть во мне, не прощай мне, это не ты. Но ты любишь меня, мама моя, и со всем плохим, что есть во мне, любишь.
Сегодня, как уже долгие годы я перечитывал несколько твоих писем ко мне, сохранившихся из тех сотен и сотен, полученных от тебя, перечитываю твои письма папе. И сегодня я снова плакал, читая твои письма. Я плакал, когда ты пишешь «И еще, Зема, я считаю себя не долговечной, так и жду, что из-за угла подкрадется, а вдруг буду болеть тяжко и долго, что мой бедный мальчик будет делать со мною, сколько горя наберется». Я плачу, когда ты, одинокая и считавшая единственным светом своим жизнь под одной крышей со мной, пишешь папе: «…мне кажется, здраво рассуждая, что если б у Васи оказалась лишняя площадь, то ты должен поселиться с ним. Я тебе повторяю, так как теперь то мне не плохо. А о моей духовной жизни не беспокойся: я умею охранять свой внутренний мир от окружающего».
Я плачу над письмами — потому что в них ты — твоя доброта, чистота, твоя горькая, горькая жизнь, твоя справедливость, благородство, твоя любовь ко мне, твоя забота о людях, твой чудный ум.
Я ничего не боюсь, потому что твоя любовь со мной и потому что моя любовь вечно с тобой.
1961 год
Cara mia, sono trascorsi vent’anni dalla tua morte. Ti amo. Ricordo ogni giorno della mia vita, e il mio dolore in tutti questi vent’anni è rimasto con me, senza tregua.
Dieci anni fa ti scrivevo, e nel mio cuore sei rimasta la stessa di vent’anni fa. E anche dieci anni fa, quando ti scrissi la mia prima lettera dopo la tua morte, eri per me la stessa di quando eri viva: mia madre nel mio corpo e nel mio cuore.
Io sono te, mia cara. E finché io vivo, tu vivi. E quando morirò, tu vivrai nel libro che ti ho dedicato, il cui destino somiglia al tuo.
In questi vent’anni molte delle persone che ti amavano sono morte: non sei più nel cuore di papà, nel cuore di Nadia, né in quello di zia Lisa — loro non sono più su questa terra. E mi sembra però che il mio amore per te sia sempre più profondo, più consapevole, perché sono ormai così pochi i cuori vivi, in cui sei viva anche tu.
Ti ho quasi sempre pensata lavorando negli ultimi dieci anni; questo mio lavoro è dedicato al mio amore, alla mia devozione agli altri, ed è anche per questo che è dedicato a te. Tu per me sei l’umano, la tua tragica sorte quella di un essere umano in un tempo disumano. Ho sempre creduto che tutto ciò che c’è di buono, di onesto, di gentile in me, il mio amore — tutto venga da te. Tutto ciò che di cattivo c’è in me, non perdonarmelo: non saresti tu. Ma tu mi ami, mamma, e mi ami anche con tutto ciò che di imperfetto c’è in me.
Oggi, come ormai ogni anno, ho riletto alcune tue lettere, conservate tra le centinaia e centinaia che ho ricevuto da te. Ho riletto anche le tue lettere a papà. E oggi ho pianto di nuovo, leggendo le tue lettere. Ho pianto quando scrivi «E ancora, Zema, mi considero fragile, così mi aspetto che da un angolo arrivi qualcosa, che improvvisamente mi ammalerò gravemente, che cosa farà con me il mio ragazzo, quanto dolore si accumulerà». Piango quando tu, sola, che consideravi la tua unica luce vivere sotto il mio stesso tetto, scrivi a papà: «…mi sembra, riflettendoci razionalmente, che se Vasja avesse più spazio, dovresti trasferirti da lui. Te lo ripeto, perché ora non mi dispiace. E non preoccuparti della mia vita spirituale: so come proteggere il mio mondo interiore da ciò che mi circonda.»
Piango su queste lettere, perché in esse ci sei tu: ci sono la tua bontà, la tua purezza, la tua amara, amarissima vita, la tua giustizia, la tua nobiltà, il tuo amore per me, la tua cura per gli altri, la tua mente meravigliosa.
Non temo nulla, perché il tuo amore è con me e perché il mio amore sarà per sempre con te.
1961
Note
- L’Holodomor (1932–1933) fu una carestia provocata dal regime staliniano in Ucraina, che causò milioni di morti; Treblinka fu uno dei principali campi di sterminio nazisti, attivo tra il 1942 e il 1943. Vasilij Grossman, scrittore e corrispondente sovietico, fu tra i primi a denunciare pubblicamente entrambi gli orrori: fu testimone dell’Holodomor in quanto si trovava in Ucraina in quegli anni, e descrisse Treblinka nel toccante reportage L’inferno di Treblinka (1944).
