Il conto, per favore
Non so voi, ma il concetto di “third place” per me passa attraverso il cibo. Che sia il bar di Friends, che sia un aperitivo con gli amici al tramonto (idealmente sulla spiaggia, più spesso purtroppo in un qualche dehor che dà su una via trafficata), che sia una birra in un pub (e quasi mai solo una), ogni volta che leggo o sento il termine “third place” la mia mente vola diretta a una qualche tavolata, a un momento di ristoro e di condivisione in cui si beve e si mangia, insomma a una consumazione.
E così, mentre la stagione degli aperitivi si può dire ufficialmente iniziata da un pezzo, anche quest’anno mi ritrovo costretto a fare i conti … con il conto. Già, perché anche se condividere certi momenti e certe risate fa solo bene, quando poi vado a controllare i movimenti della carta mi accorgo di quanto sia dannatamente costoso il mio third place ideale.

Ma è colpa mia? Riflettendo su come ammortizzare le mie spese e quindi su come trovare delle alternative economicamente accessibili ai miei luoghi preferiti, mi sono reso conto che buona parte delle opportunità di svago disponibili alla mia generazione sono (almeno nella città in cui abito) bar, pub, discoteche e altri luoghi di consumo. Tutti posti in cui non è possibile stare o anche solo entrare senza sborsare qualcosa.
Un articolo di Scomodo, progetto culturale nato a Roma e incentrato proprio sul tema degli spazi, denuncia come nel nostro Paese, nonostante la ricchissima offerta di bar, musei, cinema, discoteche e altre attività commerciali, ci siano pochissimi spazi sociali liberamente accessibili. Questa situazione è particolarmente grave nelle grandi città, in cui ogni metro quadro ha valore commerciale e, di conseguenza, ogni angolo privatizzabile è già stato acquistato e trasformato in un business.
Di fatto, i modi e gli spazi in cui si svolge la vita sociale dei giovani fanno sì che ogni momento condiviso abbia un “cartellino del prezzo”. In un momento in cui gli affitti nelle grandi città italiane sono alle stelle, i salari reali sono fermi e l’inflazione morde, il prezzo di coltivare una vita sociale può rivelarsi proibitivo per molti ragazzi. Eppure socializzare è importante: la nostra generazione è la più isolata di sempre e se è vero che siamo i primi ad essere cresciuti sempre connessi al magico mondo di internet, l’alternativa al mondo digitale in questo momento è un mondo reale molto, molto costoso.
Ma uno spazio sociale non deve essere necessariamente a pagamento. L’agorà greca (il cui nome significa letteralmente “raduno”), culla della democrazia e third place per antonomasia, era uno spazio pubblico, accessibile a tutti. In alcuni paesini di campagna c’è ancora quel barbiere il cui negozio è un costante viavai di persone che passano a salutare e si fermano a chiacchierare.
Ma quali sono gli spazi gratuiti che i ragazzi hanno a disposizione? Le panchine di un parco? I marciapiedi? In assenza di un vero spazio fisico gratuito (o comunque non eccessivamente costoso) in cui socializzare, ecco che l’alternativa virtuale diventa sempre più appetitosa.
Già dai primi anni Duemila, gli spazi virtuali offerti dai più famosi MMO (Massively Multiplayer Online games, giochi come World of Warcraft per intenderci) iniziavano a presentare molte, se non tutte, delle caratteristiche tipiche di un third place1. Specialmente in posti come gli Stati Uniti, dove i third place stanno scomparendo, i videogiochi multiplayer hanno iniziato fin dalla loro prima apparizione a proporsi, per una sempre maggiore fetta della popolazione, come spazi sociali. Giocare è un modo per interagire con altre persone senza dover uscire di casa, guidare da qualche parte, e spendere. Il successo di piattaforme come Discord, nate con l’intento di offrire una chat vocale gratuita per “giocare e divertirsi con gli amici” (come scritto sul loro sito) è indice di come buona parte della vita sociale dei più giovani sia ormai online, e questo trend non sembra essere destinato ad invertirsi.

Ora, mi rendo conto che in questo articolo sembra che io mi stia lagnando degli spritz a €8, ma io credo che ci sia veramente il rischio di perdere una parte importante della nostra vita: una sfera sociale vera, significativa, vissuta in presenza. La mia città si sta svuotando anche a causa del carovita e la perdita di potere d’acquisto, che colpisce in modo sproporzionato gli studenti e i giovani al primo impiego, rischia non soltanto di privarci della nostra vita sociale ma di danneggiare l’intero ecosistema cittadino.
E allora qual è il futuro dei third place e, più in generale, delle nostre vite sociali? Saremo condannati a scegliere tra un metaverso alla Zuckerberg e la prospettiva di svenarci per un aperitivo? La possibilità che questo accada è, secondo me, reale, ma può ancora essere scongiurata investendo. Sui giovani, su spazi sociali non commerciali, a disposizione di tutti, che contribuiscano a dare nuova vita alle nostre città.
Mi auguro soltanto che questa mia speranza non resti semplicemente un sogno mai realizzato. Forse un giorno avremo a disposizione dei veri spazi di ritrovo per stare insieme. Male che vada ci sentiamo su Discord.
Note
- Constance A. Steinkuehler, Dmitri Williams, Where Everybody Knows Your (Screen) Name: Online Games as “Third Places”, Journal of Computer-Mediated Communication, Volume 11, Issue 4, 1 July 2006, Pages 885–909, https://doi.org/10.1111/j.1083-6101.2006.00300.x
Stesso posto, stessa ora
Editoriale · L’Eclisse
Anno 5 ·N° 3 · Giugno 2025 Copertina di Maria Traversa.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo editoriale: Greta Beluffi, Bianca Beretta, Alice Borghi, Chiara Castano, Giulia Coppola, Elena Floris, Veronica Gabrielli, Eugenia Gandini, Chiara Gianfreda, Cecilia Giraldi, Jonathan Lotto, Alessandro Mazza, Mathilde Modica Ragusa, Marcello Monti, Valentina Oger, Erika Pagliarini, Carlotta Pedà, Rachele Pesce, Virginia Piazzese, Lorenzo Ramella, Gioele Sotgiu, Vittoria Tosatto, Vittoriana Tricase, Maria Traversa, Carlotta Viscione.
[…] Scopri di più […]
[…] Scopri di più […]