Mentre scrivo queste parole, mi trovo sul treno di ritorno dal Festival della Letteratura di Mantova, a cui ho partecipato tra il 6 e il 7 settembre, quasi per caso, con scarse, se non nulle aspettative. Eppure, solo pochi minuti dopo la mia partenza dalla città ho provato un intimo e profondo bisogno di esprimere quello che questi giorni mi hanno lasciato. Non ho la pretesa di spiegare o insegnare qualcosa, ma sento la necessità di non lasciare che la commozione e le lacrime, che fisicamente, partecipativamente e inaspettatamente mi sono trovata a versare, non restino silenziose. Troppo spesso, infatti, dopo eventi di questo tipo, mi è capitato di ascoltare, applaudire, riflettere anche con profondità, salvo poi lasciare che tutto svanisse, confinato nella mente.
I giorni a Mantova sono stati una doccia fredda. Per la prima volta, infatti, ho percepito un’urgenza diversa: non solo parole, non solo letteratura, ma un richiamo a trasformare il pensiero in attivismo culturale, a portare la riflessione dentro la carne viva del presente. Questa sensazione ha cominciato a prendere forma ascoltando una conferenza dedicata a Susan Sontag, scrittrice, filosofa, critica, attivista, nata nel 1933 e morta nel 2004, tenuta da Maria Nadotti, Lidia Ravera e Annarosa Buttarelli. Nadotti ha concluso il suo intervento leggendo un passo dal discorso pronunciato da Sontag nell’accettare il Premio Gerusalemme nel 2003:
«Il primo compito di uno scrittore non è avere delle opinioni, ma dire la verità […] E rifiutarsi di diventare complice di menzogne e disinformazione. La letteratura è la casa della sfumatura e della contraddizione che si oppone alle voci della semplificazione. Compito dello scrittore è farci vedere il mondo così com’è, pieno di parti ed esperienze e rivendicazioni diverse. Compito dello scrittore è raffigurare le realtà: le realtà ripugnanti, le realtà estatiche. E l’essenza della saggezza offertaci dalla letteratura (dalla pluralità delle conquiste della letteratura) sta nell’aiutarci a comprendere che qualunque cosa accada, succede sempre qualcos’altro. Io sono ossessionata dal conflitto tra i diritti e i valori che mi stanno a cuore. Per esempio dal fatto che – a volte – la ricerca della giustizia può comportare la soppressione di una buona dose di verità. Molti dei più notevoli scrittori del XX secolo, nell’esercitare la loro funzione di voce pubblica, sono stati complici di una soppressione della verità intesa a promuovere quelle che ritenevano (e in molti casi erano) cause giuste. La mia opinione è che, se proprio devo scegliere tra verità e giustizia – e naturalmente non voglio scegliere – scelgo la verità.»1.
Queste parole hanno acceso in me la consapevolezza della necessità di una letteratura che non rimanga fine a se stessa. Il ruolo di chi scrive e di chi agisce in un sistema culturale non può che essere un ruolo politico: assumere una parte attiva nel mettere in discussione, nello smuovere le coscienze. Sontag obbliga a scegliere, a prendere posizione e nelle sue parole non c’è spazio per la neutralità, nemmeno quando scegliere significa rischiare di contraddirsi. Lei stessa aveva incarnato questa urgenza, convinta che la figura dell’intellettuale corrispondesse intrinsecamente a quella dell’attivista.
Nel 1993, mossa dall’idea che valesse la pena morire per la cultura, prese parte all’assedio di Sarajevo, mettendo in scena “Aspettando Godot”. In un teatro privo di luce e di mezzi, ha dato voce a chi, in quella città isolata e martoriata, viveva l’attesa senza sapere se ci sarebbe stato un domani. Portare il teatro lì significava affermare che la cultura non è un lusso da tempi di pace, ma una forma di resistenza possibile anche nel cuore della guerra. Mi sembra significativo che la piazza davanti al Teatro Nazionale di Sarajevo, il 13 gennaio 2010, sia stata ufficialmente ribattezzata “Piazza Susan Sontag”, quando un’apposita targa è stata installata per onorare il suo impegno durante l’assedio della città.
Poco dopo, ho assistito ad una conferenza intitolata “Punto di non ritorno”, tenuta da Gad Lerner e Paola Caridi, in conversazione con Omar El Akkad, autore del libro Un giorno tutti diranno di essere stati contro. Il talk si è aperto con una premessa forte di Caridi riguardo il genocidio in corso a Gaza: «A mio parere, questo genocidio è un genocidio di cui siamo complici, corresponsabili e quindi non ci possiamo chiamare fuori»; e con una domanda altrettanto forte rivolta a El Akkad: «Come ci vediamo nello specchio oggi? Quanto ci ha cambiato questo tempo e cosa vediamo dentro lo specchio?».
Sono convinta del fatto che tutti coloro che hanno partecipato alla conferenza si siano trovati, per un momento, di fronte a quello specchio. Tuttavia, nessuno avrebbe potuto restituire un’immagine così lucida e spietata come quella di El Akkad: il suo sguardo, umile e insieme implacabile, era armato della sincerità più pura, e, proprio per questo, la più tagliente. Il suo intervento è iniziato con il racconto di una storia personale, che si è fatta domanda collettiva. Nel partecipare a un festival letterario a Portland, la città in cui vive, sostenuto da uno dei grandi finanziatori di armi usate da Israele, si è trovato di fronte al dilemma: boicottare il festival, rifiutando ogni complicità, oppure restare e sfruttare quella stessa piattaforma per mettere in discussione il sistema che la sostiene? Non era una provocazione astratta, ma un dubbio reale, concreto, che El Akkad ci ha consegnato senza offrire risposte facili: «Solo una città sociopatica costringe i propri cittadini a chiedersi come resistere a un genocidio». In questo vicolo cieco, dal momento che anche boicottando il festival il genocidio sarebbe continuato lo stesso, El Akkad ha nominato i due sentimenti che più di ogni altro lo tormentano: un’impotenza assoluta e, insieme, una complicità inevitabile.
Con una sincerità e una schiettezza disarmanti, le stesse che più di ogni altra cosa hanno smosso la mia coscienza, El Akkad ha detto di non avere alcun interesse nell’andare avanti come se nulla fosse. Quando ha scelto il titolo del suo libro, aveva in mente una figura ben precisa: la tipica persona “buona”, progressista, liberale, che si dichiara sempre dalla parte giusta ma che, in fondo, non è davvero interessata a quello che accade. Il vero punto, ha insistito, è il silenzio: è questo l’elemento catalizzatore di quanto sta accadendo. Da qui nasce il bisogno di parlare, di continuare a farlo, anche quando sembra inutile. Mentre lo ascoltavo, mi sono tornate alla mente le parole di Susan Sontag lette poche ore prima: il dovere dello scrittore di non farsi complice di menzogne e omissioni, la sua fede nella letteratura come spazio di verità e contraddizione.
Anche per El Akkad, il non tacere diventa una forma di resistenza, con la speranza che, se ormai tutti sanno cosa sta succedendo, proprio nel rifiuto del silenzio possa risiedere la possibilità di cambiare qualcosa: «I muri non vengono giù togliendo un mattone alla volta, ma per la forza delle testate che le persone vi infliggono, non sappiamo quando questo avverrà, ma a un certo punto cadranno». Da qui il suo invito a fare qualcosa, ad alzarsi e ad amplificare le voci, perché tutti noi stiamo occupando, in questo preciso istante, una pagina di un futuro libro di storia. E quel minimo che lui stesso sente di dover fare come scrittore è prendere profonda considerazione di quale pagina di quel libro abitare. È a questo punto che mi sono commossa, non solo per la potenza delle sue parole.
Prima di partire per Mantova, un amico mi aveva invitata al corteo di protesta per la chiusura del Leoncavallo a Milano. Avevo rinunciato per andare al festival. Lo specchio che mi è stato sbattuto in faccia durante la conferenza mi ha fatto sentire colpevole di alimentare quel silenzio che, un domani, permetterà a molti di dire soltanto «Io ero contro». Eppure, se non fossi stata a Mantova, non avrei ascoltato quelle parole, né scritto queste righe con la speranza di sollecitare altre coscienze, così come è stata scossa la mia. «Nothing is enough and everything is what matters»: questo il mantra con cui El Akkad ha chiuso, ed è questo che mi porto via dal festival, insieme alla commozione e alla speranza che queste righe siano state il mio piccolo “niente”. Per una volta, un festival di questo tipo mi ha fatto capire quanto non ci si possa più accontentare di ascoltare, applaudire e tornare a casa. C’è, infatti, un grido che chiede di essere amplificato e rimanere in silenzio significa esserne complici. La letteratura ci offre le parole, ma il resto spetta a noi.
L’Eclisse ringrazia il Festival Letteratura per il pass stampa.

di Greta Beluffi
Laureata in Lettere classiche e studentessa di Storia e Critica d’Arte a Milano: mi chiamo Greta e ho 24 anni. Vivo di arte e di Spritz ma, si sa, “mens sana in corpore sano”, e lungo i moltissimi km di corsa giornalieri amo pensare al marxismo, alla psicanalisi lacaniana e alle letture post strutturaliste delle opere d’arte, di cui spero di poter scrivere senza far storcere il naso a chi, come me, non si intende di filosofia.
Note
- Susan Sontag, La coscienza delle parole. Discorso di accettazione del Premio Gerusalemme, in Nello stesso tempo. Saggi di letteratura e politica, Mondadori, Milano, 2008, p.117.
Immagine di copertina: Mimmo Paladino, I Dormienti, Installation view at Cardi Gallery, Milano 2021. Courtesy Cardi Gallery. Photo Carlo Vannini