Quante volte vi è capitato di assaggiare un piatto e sentirvi improvvisamente trasportati indietro
nel tempo, magari all’infanzia? Il cibo, si sa, non è solo nutrimento: è anche memoria, identità,
emozione. Il sociologo Claude Fischler definisce il cibo come una “memoria incarnata”1, capace
di raccontare chi siamo e da dove veniamo. Attraverso un semplice gusto possiamo evocare
luoghi, relazioni, stati d’animo. Ed è proprio da qui che nasce il concetto di comfort food: quel
piatto che ci consola, che ci fa sentire “a casa” anche se siamo lontani.
Quando penso al comfort food, mi torna subito alla mente la scena del film d’animazione
Ratatouille (Brad Bird e Jan Pinkava, Stati Uniti d’America, 2007) in cui Anton Ego, critico
gastronomico, assaggia la ratatouille. Non è solo un assaggio: è un viaggio nel tempo. Un
semplice boccone risveglia in lui ricordi d’infanzia, emozioni dimenticate e il senso di sicurezza
e calore che provava da bambino. Quella scena mostra come il cibo non nutra solo il corpo, ma
anche la memoria e l’anima, trasformandosi in un ponte tra passato e presente, tra identità
personale e sentimenti profondi.

Ognuno ha il proprio comfort food. A volte è una pietanza legata ai ricordi, altre volte è un piatto
assaggiato in un momento speciale della vita. Quello che li accomuna è la capacità di attivare
ricordi emotivi potenti e spesso positivi. Nel mio caso, il comfort food ha il sapore salato e un
po’ acido delle patatine fritte mangiate con gli amici sul lungomare di Marina di Modica. Avevo
14 anni. D’estate, ogni sabato sera, ci ritrovavamo davanti a quei camioncini, scegliendo quello
con meno fila perché odiavamo aspettare. Quelle patatine, comprate con 1,50 euro e consumate
in riva al mare, erano il nostro piccolo rito: tra sabbia, caldo e risate, diventavano un frammento
di libertà, un momento nostro. Non importava se le salse erano troppo calde o se la fronte era
sudata: le mangiavo come fossero la cosa più buona del mondo. E oggi, a distanza di anni,
pagherei oro per rivivere quella scena.
Questa esperienza personale si inserisce in un fenomeno più ampio e condiviso. Come sottolinea
lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari in un’intervista con Wise Society nel 2010,
«il senso del mangiare è riempirsi la pancia, ma anche il piacere di stare insieme e comunicare»:
ogni alimento porta con sé significati simbolici, sociali e identitari. Il comfort food non è solo
“cibo buono”, è un linguaggio emotivo che ci aiuta a elaborare la nostalgia, a sentirci sicuri, a
recuperare una parte di noi. Studi di psicologia alimentare, come quelli di Charles Spence,
psicologo sperimentale dell’Università di Oxford e scrittore sulla psicologia del comfort food,
dimostrano che questo tipo di cibo è una risposta emotiva appresa. Alcuni piatti diventano fonte
di conforto perché associati a momenti di accudimento, di sicurezza, di gioia.
La forza evocativa del cibo non è solo un fatto culturale, ma anche psicologico: i sapori legati
all’infanzia o a momenti affettivi significativi riattivano aree profonde della memoria emotiva.
Non è un caso che Marcel Proust, nella sua opera “Alla ricerca del tempo perduto”, scrivesse: “Ma
quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la
distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli,
l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare.”2 In effetti, il gesto
di assaporare qualcosa che conosciamo da tempo non ci riconnette solo a un sapore, ma a una
parte di noi stessi: chi eravamo, dove eravamo, con chi eravamo.
Il comfort food è un concetto universale, anche se cambia da cultura a cultura. Ad esempio, in
Giappone molti lo identificano con il kare raisu (riso al curry), piatto semplice e casalingo; negli Stati Uniti è
spesso il mac and cheese, legato all’infanzia; in Italia invece può essere rappresentato da un
semplice piatto di pastina in brodo nelle giornate più fredde, dalle pappardelle preparate dalla
nonna al pranzo domenicale o da una fetta di crostata preparata dalla mamma. Cambiano gli
ingredienti, cambiano i Paesi, ma l’essenza rimane la stessa: il comfort food è un linguaggio
emotivo universale che attraversa la cultura, la storia e la geografia.
In un mondo che sembra uniformare ogni sapore, ritrovare i piatti tradizionali della propria terra diventa un gesto di resistenza culturale, un modo per affermare chi siamo e da dove veniamo. Questo concetto non
va ridotto all’idea di un singolo piatto simbolo di una cultura: l’obiettivo non è identificare un
“protagonista” gastronomico per ogni paese, ma piuttosto preservare e valorizzare gli
ingredienti autoctoni, le ricette tradizionali e le abitudini culinarie profondamente radicate nella
nostra storia. Si tratta di mantenere vivi quei gesti quotidiani che, tramandati di generazione in
generazione, costituiscono una parte fondamentale della nostra identità culturale e ci permettono
di restare connessi alle nostre origini, anche in un mondo sempre più globalizzato e omologato.
Tutelare la memoria gastronomica non è solo un esercizio sentimentale, ma anche un modo per
proteggere la biodiversità alimentare e sostenere le economie locali. In questo senso, i piatti
della memoria non sono solo consolazione: sono anche scelta. In un mondo che tende
all’omologazione dei gusti, riscoprire i sapori che ci appartengono diventa un gesto di
consapevolezza.

Spesso si idealizza la cucina come qualcosa di esteticamente perfetto, gli chef sono sempre alla
ricerca di innovazione e nuovi abbinamenti, puntando costantemente al fine dining. In questo
modo non ci si rende conto che si va perdendo il vero senso dell’alimentazione: il cibo non è solo
un esercizio estetico o una sfida creativa. Preservare sapori autentici e piatti tradizionali significa
riscoprire il valore della convivialità, della memoria e dell’identità, ricordandoci che ogni pasto
racconta una storia più grande di quella che appare nel piatto. Il cibo affettivo non è gourmet,
non è “instagrammabile”. È fatto di imperfezioni, di sbavature, di ingredienti semplici. Ma è anche
ciò che ci fa sentire vivi, amati, connessi.
Tenete stretti quei ricordi, riviveteli ogni tanto. Non per malinconia, ma per riconnettervi con ciò
che vi fa stare bene. Perché quel senso di nostalgia, se ben ascoltato, può regalarvi un sorriso.
Forse dovremmo chiederci non solo cosa mangiamo, ma anche perché lo mangiamo. «Non si può
pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si è mangiato bene»: con queste parole, Virginia
Woolf sottolinea quanto il cibo non sia solo nutrimento, ma parte integrante del nostro benessere,
mentale ed emotivo. Ed è forse proprio questo il senso più profondo del comfort food: non solo
saziare la fame, ma anche curare la nostalgia, riconnetterci con ciò che ci fa sentire al sicuro e amati.
Note
- Concetto presente in L’Homnivore : le goût, la cuisine et le corps, Paris, Odile Jacob, 1990.
- M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, trad. di G. Raboni, Mondadori, Milano, 1983

Mathilde Modica Ragusa
Nata nel 2003 a Modica, cresce lontana dagli stereotipi (mare incluso). A Parma studia Scienze Gastronomiche e riscopre sé stessa: non tra i fornelli, ma tra parole e sapori. Scrivere di cibo – storie, cultura, curiosità – è il suo modo per farlo vivere a 360°. La chiamano Math, legge più di quanto cucini (anche se ama farlo) e combatte i luoghi comuni a colpi di penna. La felicità per lei? Cose buone, da mangiare o da raccontare.
