A dirlo oggi non ci si crede, ma quando nel 1975 The Rocky Horror Picture Show uscì in qualche sparuto cinema americano fu un flop clamoroso. Proposto ad un pubblico generalista insieme a tutte le altre uscite della settimana (dopo che, tra l’altro, la tournée americana del musical teatrale era stata martoriata dai critici), questo strano mix pulp di film di fantascienza di serie B, commedia rock e sensibilità post-sessantottina non fece breccia nel cuore dell’everyman statunitense, tanto da essere ritirato dalle sale dopo meno di un mese.
Il Rocky, creato con autentico entusiasmo e un budget risicatissimo, sembrava aver finito i suoi anni di gloria. All’inizio degli anni Settanta era stato la creazione e l’ancora di salvezza di un attore teatrale di poco successo, Richard O’Brien, che, in un inverno in cui non era riuscito a trovare neanche un ingaggio, aveva deciso di rifugiarsi nella sua passione fin dall’infanzia: i film horror e di fantascienza low budget, in particolare quelli della Hammer Films britannica e della statunitense Universal. O’Brien mischiò il loro humour involontario e i loro iconici set e personaggi all’estetica glam rock, popolare in quel periodo, e alle sonorità del rock-and-roll anni Cinquanta. Dopo aver ottenuto una piccola parte in Hair, diretto al Palace Theatre di Londra da Jim Sharman, O’Brien propone al regista il suo progetto, ancora chiamato They Came from Denton High. Sharman accetta la sfida, suggerisce un titolo diverso e si imbarca in questa pazza avventura, fatta di attori giovani ma talentuosi, trucchi e costumi assemblati con pochi soldi e tanta buona volontà, e spettacoli in teatri minuscoli, in cui i set semplici e versatili (principalmente una struttura di metallo che creava dei “piani” su cui gli attori potevano arrampicarsi) si rivelarono una mossa vincente.

Il recente documentario Strange Journey: The Story of Rocky Horror, diretto da Linus O’Brien, figlio di Richard, ritorna sull’avventura del Rocky andando ad intervistare i suoi protagonisti. Dal film emerge chiaramente uno dei punti di forza del musical (e, in seguito, del suo adattamento per il grande schermo): l’alchimia del cast, che comprendeva Patricia Quinn nel ruolo di Magenta, Little Nell in quello di Columbia, Richard O’Brien come Riff-Raff e, naturalmente, Tim Curry nei panni – e tacchi a spillo – del dottor Frank-’n-Furter. Tutti approderanno alla versione in pellicola negli stessi ruoli, un’intuizione particolarmente brillante, soprattutto per quanto riguarda il ruolo di Frank, che i produttori hollywoodiani volevano invece proporre a Mick Jagger. La performance di Curry è uno degli elementi più famosi e amati del film: è difficile immaginare qualcun altro nella parte, cosa che O’Brien e Sharman capirono perfettamente. Gli unici ruoli a cambiare volto furono Brad e Janet, affidati a due attori emergenti (Barry Bostwick e Susan Sarandon), e Eddie, interpretato dalla rockstar Meatloaf.
Come dicevamo, il film, uscito nelle sale cinquant’anni fa, non fu un successo. Almeno finché Tim Deegan, della Fox, non riuscì a convincere la distribuzione a inviare Rocky e compagnia ai cosiddetti midnight screenings, proiezioni di mezzanotte che si tengono in cinema selezionati delle grandi città americane. Il primo cinema ad accogliere il Rocky, il primo aprile 1976, fu il Waverly Theatre a New York. Il pubblico dei midnight screenings è giovane, alternativo, spesso proveniente da quartieri dinamici in cui le sottoculture prolificano. Il Rocky Horror trova finalmente il suo pubblico: tutti quelli che si trovano ai margini della cultura ufficiale, affascinati dal kitsch, ma soprattutto chi non sente di appartenere a una comunità: «No matter what or who you are/There’s a light/Over at the Frankenstein place».


Le sale cominciano a riempirsi e presto le proiezioni escono da New York, conquistando prima le altre grandi città, poi la provincia, e infine persino il Midwest e il grande Sud (la cosiddetta “Bible Belt”). Ma ancora non basta e alle proiezioni di mezzanotte si aggiungono quelle delle due e talvolta delle quattro del mattino. Ben presto gli esercenti dei cinema si accorgono di un fenomeno curioso: a vedere il Rocky Horror, spesso, ci sono sempre le stesse facce. Il film riesce a creare un vero e proprio piccolo culto, i cui fedeli si ritrovano ciclicamente davanti al loro rito preferito. E, come ogni culto che si rispetti, ben presto iniziano a formarsi delle tradizioni.
Una sera, mentre sullo schermo scoppia una tormenta improvvisa e Janet (Sarandon) usa un giornale per ripararsi la testa dalla pioggia, il mite insegnante Louis Farese Jr. urla: «Buy an umbrella, you cheap bitch!». È la nascita di un mito. Gli spettatori abituali del Rocky, che nel frattempo si stanno aggregando in fan club più o meno ufficiali, cominciano a trovare ogni settimana qualche trovata per intrattenersi e far ridere i compagni. Dal “rispondere” ai personaggi sullo schermo al gettare loro della carta igienica, nasce la pratica dell’audience participation, che ben presto si diffonde in tutta l’America e poi nel mondo, fino a cristallizzarsi in una forma ben definita e ritualizzata. Online, potete trovare facilmente lo “script” con le istruzioni per il pubblico.
L’audience participation non è l’unica tradizione legata al Rocky Horror. Ben presto, i cinema iniziano a offrire sconti o biglietti gratis a chi si presenta in costume. Di nuovo, sono i fedelissimi a inventarsi una nuova pratica: alcuni spettatori, travestiti come i personaggi del film, iniziano a piazzarsi dietro o sotto lo schermo e a mimare le mosse dei personaggi, cantando e recitando in lip-sync. I pionieri di questa pratica, ancora una volta a New York, sono Sal Piro e Dori Hartley, che combinano un piccolo gruppo in cui ognuno si carica di un ruolo, ripetuto con queste modalità ogni settimana: nasce il primo shadow cast. Dal 1976, il film è in programmazione in alcuni cinema tutti i venerdì e sabato sera (un caso più unico che raro), e tutto grazie all’affetto del pubblico, che nel corso di mezzo secolo non è mai diminuito. The Rocky Horror Picture Show è il film con la più durevole longevità in cartellone della storia del cinema e quando, nel 2019, Disney ha acquistato la Fox, ritirando dalla distribuzione le copie d’archivio di tutti i film della storica casa di produzione, ha fatto un’eccezione solo per Rocky, permettendo a un piccolo pezzo di cultura pop di continuare indisturbato ad accogliere, coi suoi glitter, le sue piume di struzzo e la sua libertà sessuale e di genere, generazioni di pubblico sempre nuove.
In Italia il film arriva nel 1980, racimolando inizialmente ben poco successo. L’anno dopo però, approda al cinema Mexico, a Milano, per non andarsene più: ancora oggi lo troverete in cartellone, anche se le proiezioni (che un tempo si tenevano tutti i lunedì sera) sono ormai molto diminuite. Per chi è nei dintorni segnalo che stasera, 31 ottobre, è prevista una proiezione! Potete prenotarvi con una mail a prenotazioni.rocky@gmail.com (indicando il numero di posti e un recapito telefonico) – non è necessario, ma è consigliato. L’ingresso costa €10. Il Mexico è anche la casa del primo shadow cast italiano, che vedeva, tra l’altro, un giovanissimo Claudio Bisio nel ruolo di Brad. Bisio ha anche interpretato il ruolo del Criminologo nella tappa italiana del musical del West End, qualche anno fa.
In questi cinquant’anni, il Rocky Horror è diventato la definizione da dizionario di “film cult”, diventando qualcosa di più grande di se stesso. È riuscito a portare nel mainstream, con toni spensierati ma anche toccanti, un’aria di libertà che ancora oggi è rivoluzionaria. Grazie a embrionali fenomeni di cosplay, non solo ha ridefinito i confini del fandom, ma ha permesso al suo pubblico di esplorare la propria espressione di genere, popolarizzando e normalizzando discorsi sulla sessualità che erano appena affiorati nel dibattito pubblico. Non a caso, è uno dei film più amati dalla comunità LGBTQ+. Ha segnato indelebilmente la cultura pop, e lo ritroviamo ovunque, da Glee a Sabrina Carpenter, da Olivia Rodrigo a School of Rock.
Per i suoi primi cinquant’anni, il Rocky Horror è tornato al cinema, in una versione restaurata dal laboratorio L’Immagine Ritrovata e distribuita dalla Cineteca di Bologna. Chi non è riuscito a vederlo e non ha altre proiezioni vicino a sé, può ripiegare sullo streaming via Disney+. In qualsiasi modo decidiate di farlo, il mio consiglio è di vedere questo splendido film… in modo da non trovarvi impreparati quando gli alieni vi chiederanno di ballare il Time Warp, again.

di Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo – ha madre ligure e padre francese – e per L’Eclisse fa l’uccello del malaugurio. La sua ossessione principale è il cinema, ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha tre gatti e molti dubbi.
