Dal 19 al 27 settembre a Milano si è svolto Le vie del cinema, la rassegna cinematografica annuale organizzata da AGIS Lombardia, che ha portato nelle sale una selezione di film provenienti dai grandi festival internazionali. Ringraziamo AGIS Lombardia per l'accesso stampa alla proiezione di seguito recensita.
Film georgiano che affronta di petto le numerose difficoltà affrontate dalle donne del Paese, April illustra una settimana nella vita di Nina (Ia Sukhitashvili) una ginecologa e ostetrica non sposata e senza figli che, segretamente, aiuta ad abortire le donne dei villaggi, prive della possibilità di raggiungere Tblisi per un intervento ospedalizzato.
Nina è circondata da uomini, sia sul posto di lavoro, sia nel suo vagabondare per le campagne, e nessuno di essi approva il suo stile di vita. Le reazioni vanno dall’incomprensione (“Perché devi farlo proprio tu?”, le chiede un collega, quando Nina gli dice che le donne che assiste hanno bisogno di qualcuno che le aiuti) all’astio senza filtri, come quello del marito di una paziente dell’ospedale, che in una delle prime scene dichiara di sapere dell’attività clandestina di Nina e le sputa in faccia. Anche il fatto che la protagonista, donna adulta, non abbia marito né figli e non li desideri la rende un’emarginata dalla comunità maschile e maschilista in cui vive.
Il film di Dea Kulumbegashvili, opera seconda nella carriera della regista e vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia, ha un incedere estremamente lento e contemplativo, tanto da mettere a dura prova anche uno spettatore navigato e amante dello slow cinema (cinema lento, che negli ultimi anni sta ritrovando una nicchia di appassionati anche nelle nuove generazioni). Le scene sono quasi sempre costituite da un’inquadratura fissa, costruita con cura maniacale, quasi a suggerire una successione di quadri, animati solo dal leggero tremolio della macchina a mano. L’impressione di staticità quasi museale è rafforzata dalla ripetuta esclusione del soggetto parlante dall’inquadratura, o quantomeno dall’impossibilità di vederne la bocca (spesso viene inquadrata la nuca dei personaggi). Tuttavia, quest’intuizione stilistica perde rapidamente interesse, anche perché la composizione dei quadri troppo spesso sembra essere pensata più per risultare piacevole allo sguardo rispettando regole di simmetria – l’uso di un formato quadrato rafforza il collegamento con un certo gusto estetico da Instagram – che per comunicare qualcosa dei personaggi e delle situazioni allo spettatore.
In effetti, alla fine delle notevoli due ore e un quarto, non sappiamo molto di Nina. Diversi momenti mostrano una figura umanoide, dalla pelle flaccida e raggrinzita, aggirarsi per i luoghi del film: una manifestazione allegorica delle sue ansie che, tuttavia, non risulta né particolarmente originale, né tantomeno esaustiva per quanto riguarda il ritratto psicologico della protagonista. Moderatamente interessante il personaggio del collega, nonché ex fiamma mai totalmente sopita, ma anche il loro rapporto viene risolto in un paio di scarni dialoghi che non riescono a scavare molto oltre la superficie.
Quando Kulumbegashvili si accorge (troppo tardi) del rischio assopimento dello spettatore, inserisce qualche scena dal fattore shock elevato, meglio se di ambito medico: un parto ripreso con un’inquadratura a piombo, senza veli, oppure un intervento chirurgico per l’interruzione di gravidanza neanche troppo suggerito, oltre che filmato, ça va sans dire, senza stacchi. April non è un film per deboli di stomaco, né per chi, come la sottoscritta, ha escluso parecchio tempo fa gli studi in medicina. L’interminabile scena dell’aborto clandestino è anche esemplificativa di un problema che incredibilmente piaga il film. Come si è detto, esso si concentra sulle discriminazioni di genere nelle loro varie manifestazioni, eppure non riesce a scampare a una sessualizzazione disarmante del corpo delle donne. I corpi, specialmente quello della protagonista, sono offerti allo sguardo in modo lascivo, spesso escludendo viso e testa dalle inquadrature e stringendo l’obiettivo su singole parti, di fatto operando un dismembramento frutto del più basilare sguardo cinematografico patriarcale. Forse sono proprio questi i momenti più disturbanti del film, in quanto così platealmente in disarmonia con i discorsi che propone.
La nudità, per quanto estremamente presente, non riesce mai a spogliarsi di un valore voyeuristico e a risultare naturale, non giudicante, anche perché l’ostinazione della regista a tenere a distanza lo spettatore, a ricordargli costantemente che quello che sta vedendo è un film, quindi un artificio, una costruzione, contribuisce a una spersonalizzazione dei corpi, meri oggetti in una scatola ottica. Anche la sfera sessuale di Nina, che più volte nel film propone incontri sessuali a uomini incontrati per caso sulla strada, è esplorata con un occhio che risulta giudicante. L’unico esplicitato degli incontri sessuali di Nina, tra l’altro, è costituito solo da una fellatio e poi bruscamente interrotto: il film mostra, quindi, solo la protagonista nell’atto di soddisfare il piacere maschile, mentre il suo non viene neanche preso in considerazione.
April è, in definitiva, un film che si perde nella stilizzazione superficiale e nella ricerca della bella immagine, nella dilatazione provocatoria dei tempi e nella sofisticatezza di una sceneggiatura che da anti-didascalica e onirica diventa senza meta ed esasperante, si impantana nella sua ansia di aderire ai canoni del cinema intellettuale, “da festival”, e, purtroppo, trascina nel fango anche il suo importantissimo tema sociale, lasciando lo spettatore frustrato, confuso e, francamente, annoiato.
Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo – ha madre ligure e padre francese – e per L’Eclisse fa l’uccello del malaugurio. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha due gatti e molti dubbi.