Non abbandoniamo lo smart
Lavoro e studio a distanza, opportunità da non dimenticare
La pandemia di Covid-19, oltre alle indimenticate conseguenze sulla vita di ognuno di noi e dei nostri cari, ci ha lasciato anche ricordi di un modo diverso di vivere la scuola e l’università: la fruizione dell’educazione a distanza. Tra lezioni dietro lo schermo e la possibilità di fare verifiche ed esami con la stessa modalità, la cosiddetta DAD (didattica a distanza) è stata un capitolo sicuramente inedito che ha però avuto una durata sorprendentemente breve, spaziando sostanzialmente tra il 2020 e il 2021 e finendo subito in soffitta con la ripresa della socialità.
Perché questi strumenti, così obbligati nel periodo pandemico ma anche così utili per una società tornata “alla normalità”, sono rimasti sostanzialmente nel dimenticatoio delle istituzioni scolastiche italiane?
Partiamo dal principio. La pandemia che ha tristemente inaugurato il 2020 ha forzatamente portato, già da marzo, insegnanti e professori ad interfacciarsi quotidianamente con strumenti per la didattica a distanza: Google Meet, Classroom, Teams e tanti altri mezzi che, prima del lockdown, erano stati utilizzati relativamente poco da un sistema scolastico che prediligeva la presenza. Un grande investimento è stato portato avanti in particolare dalle università, che si sono dotate di infrastrutture tecnologiche capaci di poter permettere la fruizione ibrida o interamente a distanza: l’evoluzione infrastrutturale ha coinvolto anche la parte burocratica e gestionale delle strutture, come la gestione delle biblioteche e dei servizi offerti, andando a scatenare un processo di ammodernamento che in parte è stato portato a compimento, giovando agli istituti1.

L’impatto forzato con il “sistema DAD”, che ha stravolto l’apparato burocratico e organizzativo di una scuola e di un’università ancorate a procedure non comprensive dell’ambiente online, non ha però portato a cambiamenti permanenti: la gran parte dei dirigenti scolastici e dei rettori hanno eventualmente eliminato quasi completamente le possibilità date in pandemia agli studenti, come lezioni a distanza, registrazioni dei corsi che per periodi vari rimanevano consultabili agli alunni e tanti altri ausili. Un punto però non è stato pienamente considerato in questo ritorno rapido alla “normalità”: il fondamentale aiuto che questi strumenti avevano dato ai giovani che, per motivi economici, personali o di lavoro, erano impossibilitati o particolarmente in difficoltà a raggiungere ogni giorno il luogo di studio e partecipare alla “normale” vita da studenti.
Il nuovo modello educativo, che si era rivelato sostenibile nonostante gli iniziali scetticismi e che aveva permesso il superamento di barriere fisiche e geografiche per una maggiore flessibilità, è stato praticamente cancellato e tutt’ora la gran parte delle università italiane è dotata di strumenti che permetterebbero di portare avanti un sistema ibrido, che vengono purtroppo considerati solo in casi emergenziali come gli scioperi generali dei mezzi.
Ad avvertire di questo problema e a proporre come soluzione l’ibridazione presenza/distanza è stato un articolo del Sole 24 Ore datato 16 gennaio 20212, che riassume le problematiche principali di un sistema che non ha più fatto questo passo avanti: “La didattica online, se integrativa della didattica in presenza, consente di superare barriere e di ridurre discriminazioni. Un “di più” a cui non si dovrebbe rinunciare”.

Un passaggio simile, anche se su un piano differente, è avvenuto nel mondo del lavoro: in pandemia, lo smart working era stato giustamente considerato come una misura emergenziale, dotata di caratteristiche e processi non sempre replicabili in una situazione standard e impraticabili per determinate professioni.
A tracciare un primo quadro di quello che è stato definito un modello ibrido tra “lavoro agile” e telelavoro, nel giugno 2020, era stato il Dipartimento innovazioni tecnologiche, sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici dell’Inail3: in un fact sheet l’ente aveva infatti analizzato “la modalità di esecuzione della prestazione lavorativa «da remoto» nella crisi sanitaria” e messo in luce “criticità e opportunità utili a definire un modello di lavoro a distanza a regime che coniughi innovazione e tutela della persona”.

Alla voce dei rischi, Inail ha sottolineato una serie di difficoltà che in particolare l’immediatezza della situazione avrebbe potuto apportare ai lavoratori: “Sovrapposizione tra ambiente lavorativo e domestico; mancanza di una preparazione adeguata dei lavoratori alla visione complessiva dei rischi; difficoltà e, talora, impossibilità nel separare spazi personali e familiari con cicli e tempi di lavoro; interazione con fonti di pericolo più connaturate alla dimensione abitativa che a quella professionale”.
Inail ha però evidenziato anche che il lavoro a distanza “ha rappresentato, per molti lavoratori, la possibilità per sperimentare forme di condivisione degli strumenti di lavoro assimilabili al «coworking tra individui responsabili della propria attività, autonomi, di diversa età, trasformando l’ambiente domestico-lavorativo in un maker space», un vero e proprio spazio del «fare», oltre a quella delle competenze e conoscenze, resa possibile nella costante relazione tra individui che operano nello stesso contesto ma con diverse attività”.
A chiudere il documento, una speranza: “Il lavoro agile che si è declinato in questo scenario emergenziale, rappresenta un’occasione di riflessione e futura sperimentazione, al fine di perfezionare ulteriormente il lavoro a distanza, con una particolare attenzione a uno sviluppo delle tecnologie integrate a quelle operative, per accompagnare la tutela del lavoratore”.
L’appello è stato fortunatamente in parte raccolto da un alleato inaspettato: il settore pubblico. Ad entrare in contatto e poi utilizzare in maniera efficace e realmente funzionale gli strumenti tecnologici resisi necessari in pandemia e utili successivamente è stata infatti soprattutto la pubblica amministrazione, che nella fase più critica dell’emergenza sanitaria è arrivata ad avere il 58% dei dipendenti in smart working4.

Il settore pubblico ha poi guidato un processo complesso che ha portato vari datori di lavoro all’accettazione e al successivo utilizzo di queste opportunità, con vantaggi per i lavoratori e per le stesse aziende; la chiave per rendere lo smart working un’opportunità non più solamente estemporanea ed emergenziale è ben esplicitata nella riflessione della testata Agenda Digitale5: “Sia le aziende che le pubbliche amministrazioni non devono considerare lo smart working un’opzione tecnologica, ma un vero e proprio modello organizzativo, caratterizzato da estrema flessibilità” che “permette alle persone di essere libere di organizzare il proprio tempo di lavoro, in modo che possano trovare il momento più opportuno per svolgere le attività che richiedono maggior impegno e riflessione”.
Questo processo, però, deve prevedere un cambio di paradigma, che in senso lato è valido anche per il mondo scolastico: “Dal punto di vista organizzativo si tratta di cambiare completamente il modo di lavorare; non cambiano gli obiettivi aziendali, solo che l’unità di misura non è più il tempo passato in ufficio, ma il loro raggiungimento”.
Note
- https://www.ilsole24ore.com/art/cosi-l-effetto-covid-ha-accelerato-digitalizzazione-universita-AEmlJo4
- https://www.ilsole24ore.com/art/lezioni-non-dimenticare-l-universita-dopo-covid-ADhsDmDB
- https://www.inail.it/portale/it/inail-comunica/news/notizia.2020.06.lavoro-agile-in-emergenza-tra-smart-working-e-telelavoro.htm
- https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/lo-smart-working-prima-e-dopo-la-pandemia-nuovi-modelli-di-lavoro-per-non-tornare-indietro/
- https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/lo-smart-working-prima-e-dopo-la-pandemia-nuovi-modelli-di-lavoro-per-non-tornare-indietro/
