L’Acqua Sacra: un Bene da venerare, non solo consumare
L’acqua è una delle forze naturali più potenti e misteriose. Non si tratta solo di una risorsa da consumare, ma per molti è (ed è stata) un legame sacro che unisce alla Terra, alla vita e alle tradizioni più antiche dell’umanità. Immaginiamo di osservare un fiume, un lago o una goccia di pioggia non solo con gli occhi della ragione, ma con quelli della reverenza, come hanno fatto per millenni i popoli che venerano l’acqua come una divinità. Questa visione, che va oltre la spiritualità, ci invita a riscoprire un valore che trascende l’utilità pratica.
Nelle ultime settimane, l’atmosfera che ha accompagnato la morte del Papa e l’elezione del suo successore ha rappresentato uno dei tanti modi in cui il sacro si manifesta: in questo caso, in forma solenne e istituzionale. Tuttavia, la sacralità può assumere anche forme più intime e ancestrali. È proprio questa pluralità che ci spinge a riflettere sulla relazione che intratteniamo con l’acqua, considerata da molte culture una presenza viva, spirituale e potente.
Fin dall’antichità, l’acqua ha avuto per l’umanità una doppia valenza: indispensabile alla sopravvivenza e simbolo spirituale. Le cosmologie degli Egizi e degli Aztechi ne testimoniano la centralità, con divinità come Nun, che rappresentava l’oceano primordiale da cui tutto ebbe origine, e Tlaloc, dio della pioggia e della fertilità, la cui collera era temuta e placata con rituali solenni, talvolta cruenti. Questo rapporto sacro si rifletteva anche nella costruzione di opere idrauliche a fini cerimoniali, religiosi e sociali.
Oggi, questa relazione sopravvive in molte comunità indigene. Per esempio, il popolo Wayuu, in La Guajira, Colombia, dove la scarsità d’acqua può durare mesi, considera l’acqua un essere vivente e sacro. Le loro cerimonie si svolgono attorno ai pozzi, trattati come luoghi spirituali dove si invocano gli spiriti per ottenere pioggia o benedire i raccolti. L’acqua è al centro della loro cosmovisione: ponte tra mondo materiale e spirituale, memoria viva che connette le generazioni.

Voliamo ora in India, fino alle rive del fiume Gange, circondato da migliaia di persone che vi offrono fiori e preghiere. Per milioni di indù, Ganga Ma non è solo un fiume: è la Madre, dea incarnata che purifica corpo e spirito. Le sue acque vengono raccolte, custodite, offerte ai morenti. Qui, la spiritualità si fonde col quotidiano, e ogni gesto legato all’acqua è carico di significato.
Anche i Maori della Nuova Zelanda riconoscono nell’acqua (wai) un’entità dotata di mauri, energia vitale. Il fiume Whanganui, per esempio, nel 2017 è stato riconosciuto come soggetto giuridico con diritti propri dal governo neozelandese. È stato definito “Te Awa Tupua” (il fiume vivente). Il riconoscimento è il risultato di lunghe negoziazioni tra il governo neozelandese e il popolo Maori Whanganui iwi1: un atto che riflette quanto profondamente queste culture sacralizzino l’acqua.

Questi esempi – antichi e contemporanei – ci mostrano che l’acqua non è solo una questione ecologica, ma anche culturale e spirituale. Tuttavia, oggi questa visione è minacciata. La gestione dell’acqua è affidata sempre più spesso a logiche economiche: estrazioni minerarie, costruzione di dighe, impianti industriali e sfruttamento agricolo intensivo interrompono i riti, contaminano le sorgenti e profanano luoghi sacri, ignorando i legami delle comunità con il territorio.
Per questo è fondamentale che le comunità indigene non vengano escluse dalle decisioni. La loro voce, la loro spiritualità e la loro visione del mondo rappresentano una risorsa di saggezza che può guidarci verso un rapporto più sano e rispettoso con l’acqua. Affidare a queste popolazioni un ruolo attivo significa non sacrificare il sacro in nome del profitto e custodire un’eredità spirituale che appartiene a tutti. È per questo che le comunità indigene devono essere coinvolte nelle decisioni. La loro voce, la loro visione del mondo e la loro spiritualità rappresentano una saggezza preziosa. Affidare loro un ruolo attivo permette di proteggere un’eredità collettiva.
In questo scenario, la lotta delle comunità indigene per proteggere i propri corpi d’acqua è diventata una battaglia globale. Urge un richiamo a salvaguardare ciò che è sacro per tutti noi, mentre l’acqua continua a essere considerata da molti solo una risorsa da sfruttare: per miniere, dighe, centrali idroelettriche, industrie petrolifere. Queste attività, spesso imposte senza il consenso delle popolazioni locali, minacciano sia l’ambiente che i legami spirituali che uniscono le persone alla terra.
Se non agiamo, il mondo rischia di perdere non solo risorse e territori, ma anche un patrimonio spirituale che ci definisce.
Gli attivisti forse non si sbagliano: c’è davvero qualcosa che non va, ma non riguarda solo il consumo di carne o lo spreco. Il vero problema è una mancanza di consapevolezza: un vuoto di sensibilizzazione che ci impedisce di vedere la radice della crisi. Alcune figure, però, provano a colmarlo.
L’attivista canadese Maude Barlow ha denunciato per anni la privatizzazione dell’acqua e in un’intervista con Big Think ha dichiarato: “Ci saranno guerre per l’acqua. Ci sono già guerre per l’acqua ora. Il Darfur è stata una guerra per l’acqua. La gente non lo sa. È stata una disputa sull’acqua tra nomadi e agricoltori che il governo ha poi sfruttato per scatenare il terrore.”2
In India, l’ambientalista Rajendra Singh, il “Waterman”, ha riportato in vita fiumi prosciugati grazie alla mobilitazione delle comunità3. In Italia, Padre Alex Zanotelli ha promosso il referendum del 20114 contro la privatizzazione dell’acqua, ricordando che essa è un diritto, non una merce. Le loro battaglie ci parlano di ambiente, sì, ma anche di una crisi più profonda: quella culturale di una società che ha dimenticato di ascoltare l’acqua — e con essa, la propria sete di futuro.
Tuttavia, queste voci trovano spesso opposizione. Governi, multinazionali e lobby industriali vedono l’acqua come un bene strategico da sfruttare. Aziende del settore idrico, agroindustriale ed energetico – come riportato nel documentario We Feed the World (2005), Peter Brabeck-Letmathe, allora CEO di Nestlé, ha affermato che considerare l’acqua un diritto umano universale è una “soluzione estrema” proposta da alcune ONG – si oppongono al suo riconoscimento come bene comune. Anche molti Stati come Messico5 e Indonesia6, orientati al profitto, hanno ceduto sorgenti e bacini a gestori privati, ignorando i diritti delle comunità e la tutela ambientale. In questo contesto, parlare di sacralità dell’acqua non è solo ignorato: è percepito come un ostacolo allo sviluppo.

Ci siamo mai chiesti quanto sia profondo, oggi, il nostro legame con l’acqua? Se la vedessimo come un essere vivente – come fanno da secoli molte culture – la tratteremmo allo stesso modo? Queste popolazioni ci insegnano che l’acqua non è esclusivamente una risorsa, ma una presenza sacra, parte di un equilibrio da custodire, non da dominare. È un sapere antico che ci invita a cambiare sguardo.
Considerarla sacra significa riconoscerne il valore biologico, culturale e spirituale. Proteggere l’acqua non è solo un dovere ambientale: è un atto di rispetto verso la vita, nostra e altrui. Ora tocca a noi: impariamo ad ascoltare l’acqua, a rispettarla, a difenderla. Perché ogni goccia racconta una storia e ogni gesto conta.
Note
- Eco Jurisprudence Monitor, “Legge del 2017 Te Awa Tupua della Nuova Zelanda”.
- Madue Barlow, intervista “Do you foresee wars over water?”, Big Think, 2008.
- Documentario “Reviving Rivers with Dr Rajendra Singht – The Waterman of India” (YouTube, 2020).
- “Referendum, sacerdoti e suore digiunano contro la privatizzazione dell’acqua”, Il fatto Quotidiano, 2011.
- Geopolitica.info, “La privatizzazione dell’acqua nel Chiapas”.
- LifeGate, “Water Defender Reza Sahib: ‘Difendo l’acqua dell’Indonesia’”.