Negli anni novanta, l’Iran stava soffrendo le conseguenze della guerra contro l’Iraq (1980-1988), un conflitto incredibilmente deleterio sotto molti aspetti. In primo luogo, l’economia era paralizzata: l’inflazione aveva raggiunto picchi del 40-50% annuo e il governo aveva speso gran parte del PIL in armamenti durante il conflitto, generando alti livelli di debito pubblico1. Inoltre, l’Iran doveva affrontare pesanti sanzioni che limitavano gli investimenti esteri nel settore petrolifero, da cui l’Iran dipendeva maggiormente. Le importazioni erano crollate drasticamente, causando la carenza di beni primari ormai diventati eccessivamente costosi2.
In secondo luogo, le aspettative derivanti dalla Rivoluzione Islamica del 1979 si stavano allontanando progressivamente dalla realtà. Dopo la Rivoluzione, il nuovo regime guidato dall’Ayatollah Khomeini aveva promesso giustizia sociale, prosperità economica e maggiore indipendenza dall’Occidente. La società iraniana però si era trovata di fronte a una grande disillusione: il regime manteneva un controllo autoritario, reprimendo il dissenso e l’opposizione. Alla morte dell’Ayatollah Khomeini, nel 1989, la guida del paese era passata ad Ali Khamenei, fortemente criticato a causa della sua limitata autorità religiosa e della sua scarsa esperienza3.
La società iraniana era frammentata. L’élite conservatrice dei bazar, da lungo tempo sostenitrice finanziaria del clero sciita, era fedele alle rigide politiche islamiche, pilastro della Rivoluzione4. I Guardiani della Rivoluzione Islamica, organo militare istituito dopo la Rivoluzione, avevano iniziato a guadagnare maggiore influenza su settori fondamentali, quali l’economia e l’industria energetica5. Questo consolidamento di potere aveva portato alla nascita di una nuova classe privilegiata, strettamente legata alle bonyad, fondazioni religiose che nel tempo si sono convertite in monopoli privati esenti dal controllo governativo6.
La classe media urbana emergente, l’altra faccia di questa frammentazione, chiedeva riforme, maggiore secolarizzazione e liberalizzazione economica7. Queste richieste diventavano progressivamente più difficili da soddisfare, a causa del monopolio detenuto dal clero e dai Guardiani della Rivoluzione. La nascita di questa nuova élite aveva schiacciato così le speranze della classe media e impoverito ulteriormente chi già non disponeva quasi di nulla.
È in questo contesto sociopolitico che Abbas Kiarostami realizza Close-Up (1990). La pellicola in questione rientra nella categoria del Cinema Minore, di cui incarna una delle più accurate rappresentazioni. Il concetto di Cinema Minore è stato elaborato dal filosofo francese Gilles Deleuze (1925-1995) in collaborazione con lo psicoterapeuta Félix Guattari (1930-1992). La prima formulazione di tale concetto si trova in L’immagine-tempo (1985), una delle opere più rilevanti di Deleuze. Il Cinema Minore è un tipo di cinema rivoluzionario che punta a reinterpretare il modo in cui un linguaggio “maggiore” viene inconsciamente utilizzato, rinnovando il suo potenziale di innovazione e cambiamento8. Il linguaggio “maggiore” è quello utilizzato dai principali filoni cinematografici, come quello Hollywoodiano, che si basa fortemente sull’infrastruttura della produzione e la distribuzione ed esposizione cinematografica che essa stessa crea9. Inoltre, produce e riproduce ideologie, ruoli di genere e significati che riaffermano costantemente la rigida struttura all’interno della quale si sviluppa. Il Cinema Minore, in contrasto, non rispecchia questo processo, creando così un proprio sistema ideologico. Poiché non esiste una forma assolutamente universale di linguaggio maggiore, anche il Cinema Minore non è limitato ad un genere10. Alcuni film mirano a sovvertire un certo sistema esprimendo apertamente la loro critica e alimentando una rivoluzione politica, attraverso un sentimento di unione che caratterizza un determinato gruppo di persone che condividono un’identità particolare, celata dietro i gruppi sociali prevalenti. Nel Cinema Minore, l’obiettivo è quello di far spiccare identità collettive diverse, forse ancora inesistenti o almeno non esplicitate.

Secondo Deleuze, nel cinema politico classico le persone esistono già, sebbene possano essere “oppresse, ingannate, soggette, cieche o inconsapevoli” (Deleuze Gilles, 1985). Il cinema classico può essere utilizzato come strumento per dominare il pensiero degli spettatori, imponendo implicitamente determinate idee o valori attraverso la rappresentazione di comunità maggiori (esistenti). Il Cinema Minore, al contrario, è libero da tali schemi poiché la politica non esiste attraverso la presenza di una determinata comunità sociale, ma sulla base della sua non-esistenza.
Un’altra differenza tra cinema classico e Cinema Minore riguarda le sfere del politico e del privato. Mentre, secondo Deleuze, il cinema classico mantiene sempre un confine tra il politico e il privato, nel Cinema Minore questi due concetti sono inestricabilmente intrecciati11 .Le azioni degli individui rappresentano le azioni della comunità e viceversa. È importante sottolineare che il Cinema Minore non si rivolge (solo) agli emarginati e alle minoranze di una certa società, come il termine “minore” potrebbe suggerire. Al contrario, può essere applicato, come nel cinema di Kiarostami, a categorie molto più ampie e diversificate, come quella dei vinti, succubi del dominio una forza maggiore (che spesso proviene da un sistema oppressivo).
Infine, una caratteristica fondamentale del Cinema Minore è l’assenza di un confine netto tra finzione e realtà12. Esattamente come avviene in Close-Up di Kiarostami, vengono utilizzate persone reali così come personaggi inventati, e le persone reali hanno la possibilità, attraverso il film, di parlare per la propria comunità. Questo rende il processo di realizzazione cinematografica un’esperienza collettiva: ciò che il pubblico coglie da Close-Up non è solo il pensiero del regista, ma anche quello dei singoli personaggi.
La nascita di Nama-ye Nazdik (Close-Up, 1990) è estremamente peculiare. Il regista Abbas Kiarostami era venuto a conoscenza di una notizia secondo cui un uomo, Hossein Sabzian, era accusato di furto d’identità fraudolento. Sabzian aveva impersonato il celebre regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, per entrare nelle grazie di una famiglia borghese. Incuriosito da questa insolita storia, Kiarostami decide di documentare il processo di Sabzian e successivamente ricostruire gli eventi che avevano portato ad esso, utilizzando come interpreti le stesse persone coinvolte nell’evento reale. Attraverso dettagli microscopici all’interno della pellicola, Kiarostami riesce a compiere un vero e proprio atto di protesta.

Centrale in tale protesta è il tema della disoccupazione, a cui è quasi impossibile sfuggire. Emerge già nella prima scena, attraverso un dialogo apparentemente superficiale, ma in realtà meticolosamente studiato, tra un tassista e un giornalista. Il lavoro del tassista è chiaramente considerato di basso rango sociale, e per questo motivo risulta sorprendente scoprire che l’uomo era un ex-pilota di caccia. Questo dovrebbe essere il primo segnale che qualcosa non funziona nella società iraniana. Più avanti nel film, il problema della disoccupazione viene affrontato in maniera più esplicita. Quando Sabzian finge di essere il regista Makhmalbaf, guadagna i favori di una famiglia benestante, gli Ahankhah, riuscendo a entrare nella loro casa con il pretesto di girare il suo nuovo film lì, assumendo il figlio minore come protagonista. Il giovane, infatti, non era riuscito a realizzare il suo sogno di diventare attore, trovandosi disoccupato nonostante una laurea in ingegneria civile. Inoltre, il figlio maggiore, con una laurea in ingegneria meccanica, era costretto a lavorare in una panetteria a causa dell’impossibilità di trovare un lavoro nel suo settore. L’occupazione dei due fratelli viene sottolineata in modo che il pubblico venga invitato a cogliere il contrasto tra lo stato sociale reale della famiglia e quello esibito attraverso le apparenze; anche la casa (uno dei simboli più grandi di status sociale) degli Ahankhah è maestosa, raffinata ed elegante, proprio come ci si aspetterebbe da una famiglia benestante. È dunque un paradosso che i figli di una famiglia di alto rango si trovino in una situazione così miserabile. Lo stesso Sabzian, portavoce dei poveri, lavora come tipografo, anche se il suo stipendio non è sufficiente neppure per la sopravvivenza. In questo risiede l’incoerenza della situazione sociopolitica iraniana all’inizio degli anni Novanta, quando l’instabilità economica e la disoccupazione erano realtà quotidiane per i cittadini.
Il protagonista, vittima di questa realtà insoddisfacente, in ogni parola che pronuncia ci comunica il suo tentativo disperato di sfuggirne. La sua scelta di impersonare Makhmalbaf non è casuale, anzi, è estremamente sensata per diverse ragioni. Una è facilmente comprensibile dalle parole di Sabzian durante il processo: il protagonista spiega al giudice che fingere di essere un acclamato regista gli avrebbe permesso di guadagnarsi il rispetto della famiglia Ahankhah. Ed è esattamente ciò che era accaduto: cambiando la sua identità, passando dal povero Sabzian al celebre Makhmalbaf, il protagonista aveva finalmente provato cosa significasse essere stimato e ascoltato. Questa scelta ha anche un’altra sfaccettatura, più intima e astratta, che riguarda la costruzione di una realtà fittizia, possibile grazie all’amore di Sabzian verso l’arte, in particolare il cinema. Dunque, per quanto illusoria, una via d’uscita si apre al protagonista, diventando allo stesso tempo uno strumento di sopravvivenza da una realtà che non offre nulla.

Close-Up è la perfetta incarnazione del concetto di comunità del Cinema Minore. Ogni personaggio del film condivide qualcosa con gli altri: tutti affrontano una lotta, che sia il povero tipografo, i figli disoccupati, il tassista, persino il regista stesso, che nel girare questo film stava cercando ostinatamente un modo per manifestare dissenso senza essere smascherato dalle autorità.
Lo strumento principale del potere è la giustizia. Il fulcro del film è, infatti, il processo in tribunale, dove Sabzian è sottoposto ad un processo. L’obiettivo di Kiarostami è esaminare meticolosamente il sistema giudiziario iraniano, evitando critiche esplicite, attraverso un’osservazione umanistica. Le riprese all’interno dell’aula di tribunale sono girate in tempo reale poiché il regista aveva ottenuto dal giudice il permesso di porre le sue domande all’imputato. Questo dettaglio è profondamente significativo poiché Sabzian, che dovrebbe essere un criminale, diventa progressivamente più compreso e simpatizzato dallo spettatore proprio grazie all’intervento del regista, che, attraverso le sue domande, guida il processo in una direzione particolare. Attraverso le risposte del protagonista, percepiamo che egli non è un criminale, bensì un uomo di grande passione, un uomo che ama il cinema in un modo che forse non tutti possono concepire. Anziché giudicarlo, ci chiediamo come possa essere giusto che un uomo venga punito per la sua devozione verso l’arte. L’uso di filmati reali è cruciale, poiché l’incoerenza delle istituzioni legali si rivela senza il bisogno di ricorrere alla finzione. Il giudizio finale viene dettato dalla rigidità della legge, immodificabile anche di fronte ai sentimenti più elevati. Nell’ultima scena, il protagonista viaggia in sella al motorino di Makhmalbaf, con dei fiori tra le mani. È in questa inquadratura, apice artistico della pellicola, che assistiamo alla sua vera e propria redenzione.

Close-Up, pur non essendo apertamente politico, attraverso il potere del cinema, è stato un atto di protesta, oltre che un atto d’arte. Alcuni film di Kiarostami sono stati soggetti a censura o restrizioni, mentre Close-Up, perlomeno inizialmente, per la sua apparente apoliticità, è stato distribuito. A causa della crescente influenza del regista, le sue opere furono progressivamente sottoposte a restrizioni progressivamente maggiori13. La protesta silenziosa di Kiarostami, particolarmente efficace grazie alla commistione di realismo documentaristico e narrazione romanzata, divenne popolare tra molti registi iraniani. Panahi (The Mirror, 1997) e Mohsen Makhmalbaf (A Moment of Innocence, 1996) utilizzarono tecniche metanarrative per mascherare messaggi di opposizione nei loro film, riuscendo al contempo a evitare la censura. Inizialmente, le autorità iraniane non colsero il potenziale sovversivo di questi film. La vera presa di coscienza da parte del governo avvenne quando tali tecniche furono utilizzate da alcuni registi in maniera più apertamente politica. Alla fine degli anni Novanta, lo Stato iniziò a identificare questo tipo di meta-cinema come una minaccia, e registi come Panahi e Makhmalbaf dovettero affrontare censura, arresti e persino l’esilio14.
Il cinema di Abbas Kiarostami marca un punto di svolta nella storia del cinema iraniano, ma anche nella disciplina cinematografica nel suo complesso. Il suo modo, nuovo, di fare cinema incarna una forma espressiva capace di scardinare le narrazioni dominanti e dare voce a coloro che non sanno di averne, perché annichiliti da una forza maggiore.
In un contesto segnato da crisi economica, repressione ideologica e fratture sociali, Close-Up è un gesto di resistenza artistica e un atto rivoluzionario che, attraverso il potere comunicativo del cinema, svela una verità altrimenti soffocata da un sistema coercitivo.
Note
- G. Acconcia, ‘The Islamic Republic and the Reformist Movement’. In G. Acconcia, The Great Iran. From Qajar Iran to Rouhani, Padova, Padova University Press, 2018.
- Ibidem
- G. Acconcia, ‘The Iranian Civil Society’. In G. Acconcia, The Great Iran. From Qajar Iran to Rouhani, Padova, Padova University Press, 2018.
- R. Owen, State, Power and Politics in the Making of the Modern Middle East, Routledge, 2002
- G. Acconcia, ‘The Iranian Civil Society’. In G. Acconcia, The Great Iran. From Qajar Iran to Rouhani, Padova, Padova University Press, 2018.
- Ibidem
- Ibidem
- W. Brown, ‘Minor Cinema’. In E. Branigan, W. Buckland, The Routledge Encyclopedia of Film Theory, Routledge, 2014.
- C. Metz, ‘The Cinema: Language or Language System?’, in Film Language: A Semiotics of the Cinema, New York, Oxford University Press, 1974.
- W. Brown, ‘Minor Cinema’. In E. Branigan, W. Buckland, The Routledge Encyclopedia of Film Theory, Routledge, 2014.
- Ibidem
- Ibidem
- S. Javid, ‘Towards A New Political Image. Kiarostami’s Nama-ye Nazdik (Close-Up)’, Third Text, Vol. 33, No.1, 2019, p.105-119
- Ibidem

Carlotta Pedà
Carlotta, classe 2003, nata e cresciuta nel grigiore del capoluogo lombardo, seppur con radici meridionali. Per scappare dalla pioggia milanese mi rifugio al cinema, in palestra di arrampicata o all’università. Studio International Politics and Law all’Università degli Studi di Milano con la vana aspirazione di comprendere meglio il funzionamento di questo strano mondo. Se nella foto sembro antipatica è perché vengo male quando sorrido.