Il Far East Film Festival costituisce la più grande rassegna cinematografica dedicata al cinema asiatico in Europa. Si tiene ogni anno a Udine, in Italia, verso la fine del mese di aprile. Si tratta di una manifestazione estremamente interessante, che non solo proietta film contemporanei, ma propone anche retrospettive, offrendo uno sguardo su quelle che sono state le opere più emblematiche del cinema asiatico.
Quest’anno, la ventisettesima edizione del festival ha fatto della pluralità di sguardi uno dei suoi tratti distintivi. Sette opere dirette da donne hanno illuminato il programma, affrontando con sensibilità e profondità temi cruciali come la maternità, l’identità, la libertà femminile e la pressione delle tradizioni. Oggi più che mai, il grande schermo ha il dovere di accogliere tutte le voci, senza nessuna eccezione, poiché un cinema davvero aperto e plurale non è un’utopia, ma una direzione da perseguire con convinzione. Ogni esperienza, ogni sguardo e ogni storia aggiungono profondità al racconto collettivo dell’umanità. Solo così, ascoltandoci davvero, possiamo riconoscerci come parte di uno stesso orizzonte narrativo vario, complesso e infinitamente più ricco.

Tra i film di apertura del Festival e insignito del Gelso di Cristallo, Like a Rolling Stone (della scrittrice e regista Yin Lichuan, Cina, 2024) porta sul grande schermo una storia vera, che ci insegna che non è mai troppo tardi per prendere la propria vita in mano.
Li Hong (Yong Mei) ha cinquantasei anni quando decide di partire per un viaggio che è, contemporaneamente, l’esplorazione della Cina e la riscoperta della propria libertà: un viaggio tanto fisico quanto interiore di una donna, per troppo tempo imprigionata in un contesto familiare dominato da aspettative e abusi maschili. La storia di Li Hong evidenzia come, nonostante i numerosi cambiamenti, la società cinese contemporanea sia ancora pervasa da una profonda cultura patriarcale: la pellicola evidenzia proprio il difficile percorso di emancipazione femminile da radicati pregiudizi sociali e familiari. Il film mette in luce con delicatezza e forza come le donne, ancor prima di essere madri o nutrici — ruoli spesso dati per scontati e oggetto di sfruttamento — siano innanzitutto esseri umani liberi, dotati di desideri, sogni e ambizioni. Una libertà che, pur dovendo spesso confrontarsi con norme e tradizioni ancora oggi tese a ridurre l’identità femminile al solo ambito familiare o coniugale, non smette di affermarsi, trovare voce e reclamare spazio.
Ed è proprio Like a Rolling Stone, come una prima pietra che rotola, che il cinema asiatico firmato al femminile ha iniziato a muoversi. Ogni film è un atto di spinta, di rottura, di maggiore consapevolezza.

Ognuna delle storie portate sullo schermo da queste registe, sceneggiatrici e attrici, aggiunge un tassello prezioso alla narrazione collettiva della condizione femminile. Dalla Cina arriva un altro sguardo, diverso, ma complementare al titolo appena affrontato. Si tratta di Her Story (della regista Yihui Shao, Cina, 2024) premiato al FEFF27 con il Gelso d’Oro. Sembra quasi di assistere ad una tappa successiva nel percorso iniziato da Li Hong: il momento in cui il vissuto individuale diventa racconto condiviso. Le protagoniste – tre donne di generazioni diverse – si confrontano apertamente sulle proprie scelte sentimentali, familiari e lavorative. Non c’è fuga, ma solo esposizione: in uno spazio pubblico, femminile e corale, le donne parlano, si raccontano e si ascoltano a vicenda. Se Li Hong rompe il silenzio attraverso l’azione, le protagoniste di Her Story lo fanno attraverso la parola.

Sunshine (della regista e produttrice Antoinette Jadaone, Filippine, 2024) affronta un tema che rappresenta ancora profondamente un tabù nel suo Paese di provenienza: il diritto all’autodeterminazione femminile in caso di gravidanza. La protagonista, Sunshine (Maris Racal), è una giovane promessa della ginnastica ritmica, la cui carriera viene improvvisamente messa in discussione da una gravidanza inattesa. Da qui prende forma un racconto intenso e necessario, che esplora le pressioni familiari, sociali e culturali a cui sono sottoposte le donne filippine, in un contesto in cui la libertà di scelta sul proprio corpo resta spesso subordinata a norme e valori tradizionali.

Sempre dalle Filippine giunge Diamonds in the Sand (della regista Janus Victoria, Filippine, 2025), film d’esordio della regista, premiato con il Gelso Bianco per il Miglior Debutto al festival. La pellicola, che mette in scena un intreccio di culture (quella giapponese e quella filippina), affronta un tema toccante: il bisogno di appartenere ad una sola cultura non ha confini. Il protagonista, Yoji, si trasferisce dal Giappone a Manila, paese di origine della badante della madre, ormai defunta. Al centro di questo nuovo inizio, vi è una ricerca profondamente umana, fatta di connessioni emotive e legami autentici. Un film commovente, che ribalta il pensiero dello spettatore sui concetti di migrazione e senso di appartenenza.
Hong Kong e Taiwan ci propongono, invece, due opere preziose, che offrono uno sguardo lucido e toccante sulla maternità nell’Asia contemporanea. Montages of a Modern Motherhood (della sceneggiatrice e regista Oliver Chan, Hong Kong, 2024) e Daughter’s Daughter (della regista Huang Xi, Taiwan, 2024) propongono narrazioni intime dalla forte risonanza universale, capaci di superare i confini culturali e parlare direttamente dell’esperienza umana.

In particolare, Montages of a Modern Motherhood, mette in luce con grande sensibilità il delicato equilibrio tra il desiderio di essere una madre presente e la legittima aspirazione a realizzarsi professionalmente, affermando il proprio diritto a non essere definita esclusivamente dal ruolo materno. Jing, la protagonista, si ritrova così a vivere una trasformazione radicale: tanto quanto il neonato, anche lei deve imparare a vivere una nuova vita. Jing si ritrova ad affrontare questa nuova fase priva del supporto necessario, schiacciata dal peso di aspettative familiari e sociali. Il film affronta con realismo e delicatezza il tema della depressione post-partum, dando voce ad un dolore spesso taciuto, che non trova spazio né ascolto in una società ancora intrisa di modelli tradizionali.

Il tema della maternità assume, invece, una dimensione più complessa e stratificata con il film Daughter’s Daughter. Con il suo secondo lungometraggio, Huang Xi conduce un’opera intensa e intima, che tocca i temi delicati del lutto, della responsabilità intergenerazionale e dei legami familiari. La formidabile Sylvia Chang, premiata con il Gelso d’Oro alla Carriera, offre una prova d’attrice potente e sfaccettata, dando corpo e anima al personaggio di Ai-xia, una donna incastrata tra doveri familiari e desideri repressi. Il film si muove tra Taipei e New York, mettendo in scena lo scontro tra la madre e le due figlie, con lunghi piani sequenza e flashback.
La primogenita, Emma, è stata data in adozione appena nata, data l’impossibilità di Ai-xia di prendersene cura per la giovane età. Zuer, la secondogenita, dimostra un’indole ribelle e non va molto d’accordo con la madre. Tuttavia, dopo averla persa a causa di un incidente stradale, Ai-xia si troverà a fare i conti con un tumulto emotivo e a dover affrontare una grandissima responsabilità. Cosa farne dell’embrione congelato che la figlia ha lasciato in vista della tanto cercata gravidanza? Darle vita come era nei piani? L’età avanzata di Ai-xia potrebbe impedirle di prendersene adeguatamente cura? Un’opera lucida e struggente che interroga il significato stesso di essere madre, senza offrire risposte univoche, ma spalancando uno spazio di riflessione etica e personale. La pellicola si dimostra essere un altro tassello prezioso nel mosaico femminile tracciato dal FEFF27.

Chiudere con leggerezza non significa rinunciare alla profondità. See You Tomorrow (della regista e sceneggiatrice Michimoto Saki, Giappone, 2024) porta sul grande schermo un debutto alla regia in piena regola minimalista. Attraverso una narrazione dal respiro più lieve, Saki ci porta nel mondo degli adolescenti con uno sguardo delicato e sensibile, esplorando i piccoli grandi turbamenti dell’età adolescenziale: il valore dell’amicizia e la necessità di imparare ad accettare la trasformazione. La protagonista Nao (Tanaka Makoto), studentessa di fotografia brillante e riservata, affronta l’ultimo anno di accademia insieme ai suoi tre amici altrettanto appassionati, ma meno sicuri per il proprio futuro. Il loro è un legame affiatato, ma segnato da invidie latenti, che si incrina drasticamente quando Nao si prepara a volare a Berlino grazie ad una borsa di studio. Con una regia fresca e piena di grazia, il film racconta l’incertezza del domani, i piccoli squilibri nelle relazioni giovanili e la tensione tra affetto e competizione. In una rassegna dominata da narrazioni forti e spesso drammatiche, questo film dimostra che anche uno sguardo più lieve può contribuire con forza al discorso collettivo sulla rappresentazione femminile.
Per concludere, sebbene la maggior parte di questi titoli possa dirsi intrisa di elementi del Paese di provenienza di ciascuna regista, i temi affrontati superano di gran lunga i confini geografici, tanto è incredibile la loro capacità di smuovere emozioni autentiche, uniche e profonde. Sono narrazioni che parlano una lingua universale: quella delle emozioni. Infatti, in questa dimensione umana condivisa, l’uguaglianza di genere non è soltanto un obiettivo ideale, ma una prospettiva concreta da continuare a costruire anche attraverso il racconto cinematografico.
