Una recensione di Brave Ragazze, di Hadley Freeman
Attenzione: in questo articolo si parlerà di disturbi del comportamento alimentare (DCA).
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«Alla fine ho deciso di scrivere questo libro nella speranza che qualcuno possa sentirsi meno solo, per dirgli cose che avrei voluto sapere anch’io all’epoca, e anche per ricordare che il presente non dev’essere per forza una condanna perenne: le cose possono migliorare come mai avreste immaginato. La vita può essere goduta e non semplicemente sopportata».
Così recita la quarta di copertina di Brave ragazze. Una storia di anoressia, scritto dalla giornalista americana Hadley Freeman e edito in Italia da 66thand2nd, con traduzione di Milena Sanfilippo. In parte memoir di un’adolescenza e prima età adulta segnata dai numerosi ricoveri per anoressia, in parte saggio che parte dalla malattia, l’evoluzione della sua cura e le sue possibili cause per allargare il campo al ruolo delle giovani donne nella società odierna. Freeman, con l’etica che contraddistingue il buon giornalismo, è netta e schietta nelle sue scelte: il libro parla di anoressia femminile (pur riconoscendo l’esistenza di quella maschile, tra l’altro in forte crescita, negli ultimi anni), soprattutto nell’età della pubescenza, ancora oggi quella più a rischio; sceglie alcuni termini, come “un’anoressica”, invece di “paziente con anoressia”, non per ridurre sé stessa e le persone che ha conosciuto nei reparti ospedalieri alla loro malattia, ma perché «è soltanto dopo aver compreso che l’anoressia scaturiva da dentro di me – e non era una forza esterna, come un virus contratto chissà dove – che ho iniziato a rivendicare un controllo sulla mia guarigione. […] Inoltre, quando ero stretta nella morsa della malattia ero a tutti gli effetti solo un’anoressica: non esisteva nient’altro nella mia vita, l’anoressia controllava ogni secondo di ogni giornata, ogni parola pronunciata dalla mia bocca, ogni pensiero fugace nella testa. Non ero più me stessa e chiunque abbia sofferto della mia stessa patologia, o conosca qualcuno che ne è affetto, avrà assistito a questa trasformazione con i suoi occhi. Dunque mi sono servita [dell’espressione “un’anoressica”] perché ritengo che rispecchi meglio la mia esperienza»1.
Si noterà come, in questa recensione, tenderò a usare moltissimo le parole dell’autrice, proprio perché il saggio, pur basandosi su ricerche scrupolose, fonti verificate e interviste a medici, psichiatri e ex pazienti, ha il suo fulcro proprio nella storia personale di Freeman, nel suo bisogno di raccontarla, nella sua rabbia mai totalmente sopita verso un mondo che ha cercato di imporle delle versioni di sé che lei rifiutava, girandosi poi dall’altra parte quando la sua reazione, la malattia, è diventata “eccessiva” o “scomoda” per i suoi standard. Non a caso, il sottotitolo originale recita “A Story and Study of Anorexia”.
Freeman si ammala di anoressia nervosa a quattordici anni. Americana di buona famiglia trapiantata a Londra, la sua storia è tristemente comune: ragazza timida e studiosa, con una tendenza al perfezionismo, inserita in un contesto sociale medio-alto e bianco, iscritta a una scuola privata. In un certo senso, è l’incarnazione stessa delle statistiche sull’anoressia. Tuttavia – questo Freeman lo ripete spesso – nessuna teoria, nessuna statistica al mondo riuscirà mai a spiegare come mai alcune ragazze si ammalano e altre no. Anzi, sostiene l’autrice, l’opinione pubblica tende a concentrarsi anche troppo sull’innesco della patologia, forse per cercare di spiegare questo incomprensibile rifiuto di un bisogno primario, ma nessuno si interessa davvero di comprendere il mondo di queste ragazze. Si cerca il “cosa”, ma non il “perché”. In un interessante capitolo, Freeman discute dell’aumento di casi di disforia di genere segnalati al servizio sanitario nazionale britannico da ragazze adolescenti e prepubescenti (come per l’anoressia, negli ultimi dieci anni l’età media delle ragazze con disforia di genere sta rapidamente diminuendo)2. L’autrice intervista lo psicoterapeuta Anastassis Spiliadis, che ha lavorato in centri per i disturbi alimentari e al Gids (Gender Identity Development Service, la clinica pubblica britannica per minori con disforia di genere), il quale afferma: «Andiamo verso un rapporto maschi-femmine molto simile nel Gids e nei centri per disturbi alimentari, con una percentuale femminile che va dal novanta al novantacinque per cento sul campione adolescenziale. Questo mi fa riflettere sull’adolescenza femminile, su come questa può rivelarsi traumatica per alcune»3, aggiungendo poi che, secondo alcuni, i disturbi alimentari nelle persone disforiche4 non sarebbero altro che «un mezzo per reprimere lo sviluppo del corpo»5, ma «sarebbe meglio dire che entrambe le condizioni possono interessare la pubertà, anziché affermare in maniera semplicistica che una sia la causa dell’altra»6.

La femminilità e le mille aspettative intorno al “diventare donna” sono uno dei principali imputati dell’autrice. Dalle sante medievali che si rifiutavano di mangiare (guarda caso, per sottrarsi a matrimoni imposti o più in generale al ruolo che ci si aspettava dal loro genere) alle pazienti anoressiche degli anni Novanta, coeve a Hadley Freeman, il tema della rifiutata femminilità ritorna prepotentemente. Secondo la vulgata, il mondo dice alle donne di essere magre per essere belle, la moda chiede taglie irrealistiche a ragazze sempre più giovani, e l’anoressia sarebbe una conseguenza estrema del tentativo di conformarsi alle aspettative sociali. Invece, Freeman la considera più che altro una disperata via di fuga, un tentativo di restare “fuori dai giochi” del genere. Allo stesso tempo, la giornalista, che «controcorrente» ha deciso di lavorare nel mondo della moda dopo i suoi ricoveri, si rende conto della problematicità intrinseca nel dare un valore morale alla magrezza, e di legarlo indissolubilmente alla bellezza femminile. «L’anoressia deriva in gran parte dal contesto, e cioè dalla cultura in cui siamo immersi. La moda è un tassello di quella cultura e un suo concentrato, e la sua miope ossessione per la magrezza estrema riflette quanto l’associazione tra abnegazione femminile e femminilità perfetta sia consolidata nella nostra società. Non è questa la causa dell’anoressia, ma le fornisce un terreno fertile in cui proliferare»7. Non a caso, i trend dell’estrema magrezza nella moda occidentale sono sempre legati a doppio filo con periodi di rinnovata libertà per le donne: «è una tecnica di dare/avere, un piano ingegnoso per assicurarsi che le donne si ricordino sempre di non essere mai del tutto prive di pastoie»8.
Brave ragazze è scritto in modo chiaro e scorrevole, ma non è una lettura facile. Freeman è onesta, a volte brutalmente, ma al lettore arriva sempre l’urgenza dietro alle sue parole ed è inevitabile empatizzare con la sua storia e con le storie di altre ragazze, ex compagne di degenza, che inframezzano i capitoli personali. Per questo, è un libro da affrontare con cautela, consapevoli che non proporrà risposte, consolazioni, o compromessi. Freeman non si limita a raccontare la malattia e i ricoveri, ma anche il difficile periodo di guarigione, che non è mai lineare e non si conclude semplicemente una volta uscite dall’ospedale. «Quasi tutte le università per cui avevo fatto domanda mi respinsero senza mezzi termini, e di certo non potevo dirmi sorpresa. “Quale sarebbe il problema?” avrei voluto chiedergli. “Forse i tre anni di ricoveri psichiatrici? Le mie altissime probabilità di recidiva?”»9. Ammalarsi di anoressia da giovanissime vuol dire bloccare la crescita, fisica, sì, ma anche emotivo-psicologica. «Non avevo la minima idea di come gestirle, certe cose [ad esempio, i rapporti affettivi con gli uomini, NdA]. L’anoressia congela il tempo e magari quello è l’intento del malato sin dal principio, ma quando il ghiaccio si scioglie le difficoltà affiorano»10. Soprattutto, l’ossessione del controllo che caratterizza l’anoressia, se smette di accanirsi sul cibo (o, meglio, si riduce abbastanza da rendere la paziente «un’anoressica funzionale», come la scrittrice definisce se stessa), di certo non sparisce da un giorno all’altro. Anche Freeman se ne rende conto: «Avevo trovato il modo di mantenere un controllo serrato, e al contempo andare oltre. Anziché angosciarmi su attività fisica e perdita di peso mi ossessionavo sugli studi, e Oxford accolse di buon grado quella mia ossessività»11.
Ma non solo: anche se è un aspetto meno noto al grande pubblico, ai disturbi alimentari spesso segue la dipendenza da stupefacenti. «Le sostanze mi affascinavano proprio a causa della mia anoressia: a differenza dell’alcol, erano un rimedio a calorie zero per uscire dalla mia testa. Mi aiutavano a staccarmi dalla piccola anoressica ancora ansiosa che ero e a diventare la ventenne festaiola che volevo essere»12. Di nuovo, pur non pretendendo di scrivere «un’enciclopedia dell’anoressia»13, attraverso la sua storia personale e quella di persone che ha conosciuto l’autrice riesce ad esplorare le tantissime ramificazioni che i disturbi alimentari e le malattie mentali sviluppano nella vita dei pazienti, e viceversa come il mondo si rapporta ad ognuna di queste ramificazioni. Ogni tanto è scoraggiante constatare quanta ignoranza e quanto pressapochismo ci siano ancora nel dibattito pubblico riguardo questi argomenti. Tra vicini di casa curiosi, parenti animati da buone intenzioni ma inopportuni, compagne di scuola invidiose di non essere “speciali” e stampa generalista che ripete solo i soliti clichés, viene da capire la Hadley quindicenne, di ritorno a casa tra un ricovero e l’altro, che si chiude in camera sua e non vuole parlare con nessuno. La verità è che sottovalutiamo ancora tantissimo la complessità del mondo interiore degli adolescenti (e in particolare delle adolescenti), interpretiamo scontrosità e fissazioni come un gesto di sfida verso i genitori – “massì, sono ragazzi, è normale, è un periodo passeggero” – quando spesso si tratta di vere e proprie richieste d’aiuto. Invece di preoccuparci di aiutare i giovani a esprimere le proprie, confuse emozioni, a sfogare le paure e le ansie di uno dei periodi più delicati della loro vita in maniera sana, a guidarli verso uno sviluppo di sé lontano dalle facili ma soffocanti etichette del “nerd”, “la secchiona”, “l’atleta popolare”, ecc., ci concentriamo sulla superficie.
Siamo velocissimi a dare valutazioni repentine (“Hadley non mangia perché Kate Moss ha detto che nothing tastes as good as skinny feels”) e non ci poniamo mai le domande giuste (“Perché, tra tutte le possibili reazioni, Hadley ha deciso di non mangiare? Che cosa sta cercando di esprimere tramite questa estrema auto-punizione?”). Addossiamo le colpe ai genitori o alle pazienti stesse (“la madre non l’ha amata abbastanza, il padre è distante, in famiglia si parla troppo di diete”) senza fermarci a pensare che, forse, è proprio l’ansia di doversi staccare dai genitori, il timore di essere lasciate indietro dai coetanei se non ci affrettiamo ad interessarci alle cose “da grandi”, i segnali contrastanti che intimano ad una quattordicenne di essere pudica, e contemporaneamente esperta delle questioni sessuali, e mille altri segnali falsati riguardo la strada da intraprendere nella vita hanno molto più impatto sulla mente di un’adolescente. «Essere donna somigliava a una battaglia incessante con il proprio corpo, e io ero convinta che cominciando in tempi non sospetti avrei fregato il sistema»14.
Il tema dei disturbi alimentari è spinoso, delicatissimo e complicato. L’autrice stessa esprime opinioni che il lettore non sempre condividerà e ne prende consapevolezza già nel capitolo iniziale. Tuttavia, è un argomento di cui è fondamentale parlare, se non altro perché di anoressia soffre, in Italia, l’1% della popolazione, e 9 pazienti su 10 (oltre 540 mila persone) sono donne. Se si allarga l’obiettivo a quanti soffrono di disturbi alimentari si arriva alla cifra da capogiro di 3 milioni di italiani e italiane15. Hadley Freeman, con dedizione e sobrietà, riesce a dare nel suo libro una panoramica aggiornata e rigorosa anche a chi non si intende di psicologia dell’alimentazione, senza dimenticare la parte umana, il dolore di persone reali, che spesso si trova sommerso sotto la freddezza dei dati.
In conclusione, tocca rispondere alla domanda che, forse, alcuni lettori e lettrici si staranno facendo: posso consigliare Brave ragazze a qualcuno che conosco affetto da anoressia, oppure ai genitori di una paziente anoressica? Tendenzialmente, direi di no, se la persona a cui pensate è nel pieno della malattia. Innanzitutto, la descrizione degli stratagemmi di Freeman per perdere peso e ingannare familiari e infermieri rischia di essere letta come un esempio da seguire, anche perché, come dice l’autrice, le anoressiche sono «manipolatrici, colleriche, cocciute e del tutto inaffidabili»16 (è un giudizio che può sembrare duro, ma esprime perfettamente la condizione ossessiva e la profonda solitudine della malattia). Inoltre, Brave ragazze non vuole essere un manuale d’istruzioni, neanche per i genitori che, ce ne rendiamo conto, cercano un qualsiasi tipo di aiuto per capire come guarire la propria figlia. Temo che un libro del genere possa risultare addirittura doloroso, perché non ha paura di scavare in ferite difficilmente rimarginabili.
Lo consiglierei a chi ha a che fare con adolescenti nella vita o per lavoro, ma anche a futuri genitori, o a giovani adulti che si sentono pronti ad esplorare un argomento sensibile. Come sempre, quando si parla di disturbi psicologici, l’informazione è fondamentale, e sono convinta che un libro del genere possa aiutare a far scattare qualche campanello d’allarme in più e, in generale, ad approcciarsi coscientemente ad un tema di salute pubblica ancora troppo trascurato. Se non altro, resta la testimonianza senza retorica di una persona che ha attraversato il faticoso viaggio della malattia, e in questo già risiede l’innegabile valore di un tale documento. La persona meglio indicata per leggere Brave ragazze, tuttavia, resta la persona per cui è stato scritto: chi vuole uscirne, ma non ci riesce, chi magari ha finito il ricovero, ma ancora non si sente “normale”, chi si sente solə nella morsa di una malattia che sembra portare unicamente dolore e incomprensione. Chi, in fondo, spera che la vita possa essere goduta e non soltanto sopportata.
Si ringrazia 66thand2nd per la copia stampa.
Note
- Freeman, H., Brave ragazze. Una storia di anoressia, ed.it. 2025, Roma: 66thand2nd, trad. Milena Sanfilippo, p. 19
- Id., pp. 127-144
- Id., p. 129
- Secondo uno studio del 2013, gli adolescenti transgender sono tre volte più inclini alle privazioni alimentari rispetto ai non disforici: Carly E. Guss et al., Disordered Weight Management Behaviours, Nonprescription Steorid Use, and Weight Perception in Transgender Youth, in «Journal of Adolescent Health», 60, (1), gennaio 2017, pp. 17-22, in Freeman, H., op. cit., p. 130
- Freeman, H., op. cit., pp. 128-129
- Id., p. 130
- Id., p. 251
- Ibidem
- Id., p. 237
- Id., p. 241
- Id., p. 240
- Id., p. 274
- Id., p. 17
- Id., p. 28
- https://www.sanitainformazione.it/anoressia-in-italia-ne-soffrono-540mila-donne-studio-fa-luce-su-marcatori-chiave-per-le-cure/#:~:text=Anoressia%3A%20in%20Italia%20ne%20soffrono%20540mila%20donne.
- Freeman, H., op. cit., p. 85

di Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo – ha madre ligure e padre francese – e per L’Eclisse fa l’uccello del malaugurio. La sua ossessione principale è il cinema, ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha due gatti e molti dubbi.