Per quasi un secolo gli Stati Uniti d’America sono stati il Paese più potente al mondo1. Il loro impero, basato non solo sulla superiorità economica e militare, ma anche sulla promessa di portare benessere, democrazia e libertà, sembrava poter durare per sempre. Eppure, le sfide del nuovo millennio, come la crisi finanziaria del 2008 e la competizione con altre potenze, prima tra tutte la Cina, hanno frammentato la società americana, portando anche questo impero in declino. Il presidente Donald Trump, che promette di riportare gli Stati Uniti all’antico splendore, rischia in realtà, con la sua retorica aggressiva, di sancire il tramonto definitivo dell’egemonia statunitense, con conseguenze dalla portata mondiale.
Dopo la Seconda guerra mondiale (1939–1945), gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica emersero come superpotenze2, essendo economicamente e militarmente superiori rispetto a tutti gli altri Paesi. A rendere una potenza egemone, però, non è solo il potere materiale, ma anche la capacità di governare con il consenso dei governati, che gli Stati Uniti cercarono di creare attraverso il loro soft power. Con soft power si intende l’esercizio dell’influenza da parte di un Paese senza l’uso della forza, sfruttando risorse come la cultura e i valori politici3. Gli Stati Uniti si impegnarono quindi a costruire una narrazione benigna di sé, enfatizzando il rispetto per le libertà e i diritti umani, insieme alla prosperità portata dal loro modello economico capitalista, basato sulla proprietà privata e il libero mercato, che si opponeva al modello socialista sovietico, in cui lo Stato, non l’individuo, era centrale. Così, attraverso gli scambi culturali, la musica e soprattutto il cinema, gli Stati Uniti riuscirono a conquistare i cuori e le menti delle persone all’interno e al di fuori del proprio blocco4.
Parallelamente, gli USA si presentarono come un egemone liberale, anche concorrendo alla creazione di una serie di istituzioni internazionali che favorirono la cooperazione tra Paesi. Fu infatti dall’impulso del presidente americano Franklin Delano Roosevelt che nacquero istituzioni internazionali come le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, con lo scopo di promuovere un ordine internazionale basato sul diritto, anziché la forza5. In questo modo gli USA si fecero promotori di un mondo sempre più interconnesso, agendo come garanti dell’infrastruttura della globalizzazione e del liberalismo, sia in ambito politico che economico6.
Nel 1992, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il trionfo del liberalismo degli Stati Uniti, il politologo Francis Fukuyama proclamò la “fine della Storia”, avendo la vittoria della democrazia liberale messo fine ai conflitti ideologici7. Oggi, nel 2025, mentre le democrazie arretrano e le guerre riaffiorano, fa sorridere pensare all’ottimismo di questa tesi ed è ironico che siano proprio gli Stati Uniti, creatori di quest’ordine, ad attaccarne sempre più le fondamenta. Ma come può il Paese storicamente garante del liberalismo essere oggi guidato da un presidente che attacca la libertà di pensiero e ostacola il commercio internazionale?8

Essendo gli Stati Uniti una potenza egemone, quando il presidente parla si riferisce a un doppio pubblico: quello nazionale e quello internazionale. Se durante la Guerra Fredda era facile allineare le preferenze di entrambe le platee, mobilitando l’opinione pubblica a favore di interventi all’estero per proteggere gli interessi degli USA e dei suoi alleati, negli ultimi anni lə americanə sono stati sempre più ostili alla globalizzazione e alla cooperazione internazionale, viste più come un fardello che una risorsa9. Un modo per spiegare quest’ostilità è guardare agli effetti che la globalizzazione ha avuto sulla società americana, specialmente dopo il 2008.
Dagli anni Ottanta l’economia americana si trasformò radicalmente: con l’apprezzamento del dollaro e l’apertura dei mercati, gli USA iniziarono a importare massicciamente, incentivando la delocalizzazione industriale. In termini macroeconomici ne beneficiarono tutti: lə americanə, che poterono consumare di più grazie alle importazioni a basso costo, e le economie in via di sviluppo come la Cina, che beneficiarono dalla crescente domanda di questi beni, appianando le disuguaglianze tra Paesi. Tuttavia, all’interno dei Paesi industrializzati come gli USA la globalizzazione accentuò le disuguaglianze, arricchendo chi lavorava nei servizi e impoverendo il settore manifatturiero10.
Queste disuguaglianze furono a lungo attenuate dalla maggiore possibilità di consumare. Grazie alle importazioni a basso costo e alla deregolamentazione finanziaria, che aveva facilitato l’accesso al credito, era possibile consumare molto, soprattutto a debito. Le banche finanziavano questi prestiti anche grazie alla vendita di strumenti finanziari poco trasparenti, contenenti parte di mutui, che nei primi anni 2000 venivano concessi anche a persone ad alto rischio di insolvenza, alimentando la speculazione nel settore immobiliare e diffondendo il rischio in tutto il sistema finanziario11. Quando però nel 2007 la bolla immobiliare esplose, innescando la peggior crisi finanziaria dal 1929, il debito rimase e le diseguaglianze si accentuarono. Il potere d’acquisto di molte famiglie americane, specialmente quelle nel Midwest ormai deindustrializzato, crollò, insieme alle promesse della globalizzazione. Ciò innescò una sfiducia nelle istituzioni politiche ed economiche, considerate responsabili della crisi. Si può vedere l’elezione di Trump, sia nel 2016 che nel 2024, come il risultato di questa sfiducia nelle istituzioni e della polarizzazione trainata dalle crescenti disuguaglianze economiche e sociali, che hanno spinto coloro che hanno perso dalla globalizzazione ad apprezzare la retorica d’estrema destra di Trump12.
L’enfasi di Trump sul riportare la produzione negli Stati Uniti fa breccia proprio nei cuori di chi ha perso dall’apertura al commercio con Paesi come la Cina e dalla conseguente delocalizzazione del settore manifatturiero. Ciò di cui molti dei suoi elettori non si rendono conto, però, è che il modo in cui Trump ha deciso di portare avanti quest’obiettivo, ovvero con imposizioni unilaterali come i dazi, rischia di alienare gli Stati Uniti, con potenziali ripercussioni negative anche sul resto del mondo13.

L’imposizione dei dazi contro i principali partner commerciali degli USA, come l’Unione Europea e il Canada, rischia di danneggiare la loro stessa economia, ma gli effetti negativi non saranno solo economici. Imponendo dazi indiscriminatamente, violando accordi internazionali e governando quasi esclusivamente attraverso ordini esecutivi, gli USA stanno erodendo la propria autorevolezza, mostrandosi non più come un egemone liberale, che può offrire benessere con la propria leadership, ma come un despota globale, che vuole dettare le regole senza offrire nulla in cambio. A peggiorare la posizione degli USA è anche il modo erratico in cui i dazi vengono imposti e poi rimossi, che ne sta erodendo la credibilità di leader affidabile. Anche se si verificasse un improvviso cambio di rotta, sarebbe difficile riconquistare la fiducia degli altri Paesi, che cercano di rendersi sempre più indipendenti dagli Stati Uniti, soprattutto sul piano economico, non potendo più contare sulla stabilità del dollaro e dell’economia americana14.
A preoccupare è anche il tono bellicoso della politica estera degli Stati Uniti. Il Segretario della Difesa americano, Pete Hegseth, parla di prepararsi alla guerra per mantenere la pace nel Pacifico15, mentre il piano programmatico della nuova presidenza, Project 202516, propone un incremento della spesa militare, già la più alta al mondo17, per fronteggiare un possibile scontro con la Cina, che gli USA sembrano cercare più che prevenire. I dazi imposti alla Cina rischiano infatti di togliere uno dei pochi ostacoli al conflitto militare tra i due Paesi, ovvero l’interdipendenza economica18.

Questa risposta aggressiva degli Stati Uniti alla competizione posta dalle nuove potenze emergenti segna la fine dell’egemonia liberale statunitense, lasciando spazio a un dominio basato più sulla forza che sul consenso. Questo scenario preoccupa molti, in quanto la fine dell’unipolarismo statunitense, che ha garantito pace e stabilità, almeno in Occidente, potrebbe portare a nuovi conflitti19. Ma la rinuncia degli USA al ruolo di egemone potrebbe anche rappresentare la spinta necessaria per creare un ordine internazionale più collaborativo e meno gerarchico, in cui non sia un unico egemone a imporre la propria volontà sul resto del mondo.
Note
- J. Ikenberry, The Rise of Liberal Hegemony, in A World Safe for Democracy: Liberal Internationalism and the Crises of Global Order, New Haven, Yale University Press, 2020, p. 177
- Il termine “superpotenza”, in inglese superpower, è stato coniato dal politologo William T. R. Fox nel 1944, convinto che il termine “grande potenza”, usato fino ad allora per descrivere i paesi economicamente e militarmente più forti, fosse inadeguato per definire gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che avevano alla fine della Seconda guerra mondiale un potere economico e militare nettamente superiore a quello di tutti gli altri Paesi, che li rendeva molto più influenti. Fonte: C. Layne, US decline or primacy? A debate, in “US foreign policy”, III edizione (2018).
- J. Nye, Preface, in Soft Power: The Means to Succeed in World Politics, New York, PublicAffairs, 2004, ix-x.
- J. Nye, Wielding Soft Power, in Soft Power: The Means to Succeed in World Politics, New York, PublicAffairs, 2004, pp. 99-105.
- J. Ikenberry, The Rise of Liberal Hegemony, in A World Safe for Democracy: Liberal Internationalism and the Crises of Global Order, New Haven, Yale University Press, 2020, 177-182.
- Ibid
- F. Fukuyama, The End of History and The Last Man, New York, The Free Press, 1992.
- Trump ha infatti sospeso, o minacciato di sospendere, i fondi federali alle università che non cedevano alle sue richieste. Inoltre, ha introdotto dazi verso quasi tutti i paesi del mondo, che mettono a rischio il commercio internazionale. Per approfondire: https://www.internazionale.it/notizie/2025/05/01/trump-universita-ricerca; https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/usa-dazi-per-tutti-204826
- M. Del Pero, America: l’egemone non più egemonico in “Istituto per gli Studi di Politica Internazionale”, 5 Marzo 2024, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/america-legemone-non-piu-egemonico-165308, consultato 6/6/2025
- M. Mazzonis, Mario Del Pero, le radici del trumpismo nella crisi del 2008 in “Il Manifesto”, 7 dicembre 2024
- M. Fratianni, F. Marchionne, The Role of Banks in the Subprime Financial Crisis, in “Review of Economic Conditions in Italy”, 2009, http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.1383473
- Ibid
- Commissione dell’UE, The macroeconomic effect of US tariff hikes, 19 maggio 2025, https://economy-finance.ec.europa.eu/economic-forecast-and-surveys/economic-forecasts/spring-2025-economic-forecast-moderate-growth-amid-global-economic-uncertainty/macroeconomic-effect-us-tariff-hikes_en, consultato in data 22/07/25
- In particolare, molte banche centrali, soprattutto in Asia, stanno cercando di allontanarsi dal dollaro (riducendo quindi le loro riserve di dollari), per essere più indipendenti dagli Stati Uniti, anche se la ricerca di un’alternativa si sta rivelando difficile. Per approfondire: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/dedollarizzazione-un-mondo-multi-valuta-168415
- US Department of Defense, Remarks by Secretary of Defense Pete Hegseth at the 2025 Shangri-La Dialogue in Singapore (As Delivered), 31 Maggio 2025, https://www.defense.gov/News/Speeches/Speech/Article/4202494/remarks-by-secretary-of-defense-pete-hegseth-at-the-2025-shangri-la-dialogue-in/, consultato in data 6 giugno 2025.
- Il Project 2025 comprende una serie di raccomandazioni per la politica americana redatte dal think tank conservatore Heritage Foundation.
- L. Macchi, Countries with the highest military spending worldwide in 2023 in “Statista”, 30 Maggio 2025, consultato 6/6/2025 https://www.statista.com/statistics/262742/countries-with-the-highest-military-spending/
- Per interdipendenza economica si intende la dipendenza dell’economia americana da quella cinese e, viceversa, dell’economia cinese da quella americana. Gli USA infatti importano dalla Cina beni a basso costo e ricevono finanziamenti del debito pubblico, mentre la Cina dipende dagli USA come mercato di sbocco per le sue esportazioni e come fonte di innovazione e investimenti. Fonte: “Dazi: Unimpresa, commercio bilaterale USA-Cina vale 575 miliardi di dollari”, https://www.unimpresa.it/dazi-unimpresa-commercio-bilaterale-usa-cina-vale-575-miliardi-dollari/67034, consultato in data 21/07/25
- D. Sargent, “Sketches for an Undiplomatic History”, in Diplomatic History, Volume 42, 2018, pp. 357–376, https://doi.org/10.1093/dh/dhy019

Carlotta Viscione
Nata a Milano nel 2004, ma la mia mente non conosce confini. Ho studiato inglese, tedesco e spagnolo al liceo, ma sono finita in Francia a studiare Scienze Politiche in inglese. Dopo due anni passati a Reims, finirò la triennale alla London School of Economics and Political Science. Nota per non riuscire mai a staccare dallo studio, passo il mio tempo libero a guardare video educativi su YouTube. A parte imparare, mi piace cucinare (tutto rigorosamente vegano), leggere e scrivere. Per L’Eclisse collaboro con il gruppo social media e scrivo di politica.