È stata inaugurata il 1° ottobre alla Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano la mostra Open Studio #4 – Luoghi, memorie e visione, visitabile fino al 31 maggio 2026. L’esposizione è concepita come un percorso che intreccia cinque decenni del lavoro di Pomodoro, dagli anni Settanta agli anni Duemila. A partire da quel decennio, infatti, l’artista intraprese una nuova fase di ricerca, trasformando la scultura in un luogo di esperienze e di visioni. Non più oggetto statico nello spazio, ma spazio stesso, generatore di memorie. In queste installazioni Pomodoro intreccia passato e presente, memoria personale e collettiva, in un linguaggio in costante metamorfosi, che modifica la percezione stessa dello spazio, non più solo cornice, ma materia viva, attraversata dai temi dei luoghi, delle memorie e delle visioni.

(Fotografia Archivio Arnaldo Pomodoro)
Il percorso espositivo si articola tra il cortile e gli spazi interni della Fondazione, dove dialogano, tra le diverse opere, gli Scettri (1987-1988), la Rotativa di Babilonia (1991), le Aste cielari (1978-1980), i Cippi (1983-1984) e uno dei Papiri (1985-1986). In queste sculture si avverte un immaginario che fonde l’arcaico e il mitico: frammenti d’Egitto, riflessi di Mediterraneo, echi di civiltà sommerse. Le parole di Giovanni Carandente, nel saggio Vitalità della scultura, restituiscono l’immaginario potente che abita queste opere: descrivendo gli Scettri, li definisce «le antenne del futuro, e, allo stesso tempo, le maschere tribali che risorgono da una selva oscura per svettare trionfanti e stagliarsi sull’orizzonte delle “rive marine” dei suoi sogni»1.
Eppure, prima ancora di entrare negli spazi interni, nel cortile della Fondazione il visitatore incontra già la chiave più intima della mostra. Qui sono collocate le opere che meglio raccontano l’origine del suo linguaggio: gli Ossi di seppia, in realtà appartenenti alla serie Rive dei mari (1987-1988). Come raccontava lo stesso artista: «Negli Scudi e nelle Rive dei mari ritengo si siano depositate sia le suggestioni dell’osso di seppia, con la sua straordinaria valenza elementare e pura, sia l’immaginario che ci viene dato dalla superficie del mare, dal suo moto, dalla sua spiaggia – e anche altri motivi: la veste, la ricezione della luce, il guscio stesso come scudo, la proiezione fantastica della mente nel sonno».

(Fotografia Archivio Arnaldo Pomodoro)
Le sculture appaiono in due declinazioni differenti: adagiate a terra, immerse nella ghiaia come resti organici riaffiorati da un fondale, o innalzate in forma di Scudo (Scudo VIII, 1987-1988), come frammenti di un paesaggio marino solidificato. Presso l’archivio della Fondazione, sono custodite anche alcune diapositive che le mostrano parzialmente coperte di foglie, come se l’artista volesse testarne il senso più profondo, riportandole alla loro condizione di reperti naturali. Ed è forse da questa immagine, di residui che emergono dalla terra, che si può tornare all’origine della pratica artistica di Pomodoro. Quell’oggetto umile che il mare restituisce alle spiagge, l’osso di seppia, scarto naturale, preda degli uccelli, residuo di un organismo marino, è per l’artista molto più di un materiale di lavoro. Esso costituisce infatti il cuore della sua ricerca artistica, dalla sua formazione fino alle grandi installazioni degli anni Ottanta.
Quest’evoluzione ha origine a Pesaro, dove il giovane Pomodoro impara la tecnica della fusione in osso di seppia nella bottega di un orafo. Si tratta di una procedura artigianale semplice, di sapore arcaico, ancora oggi praticata per ottenere piccoli oggetti in metallo: di solito si accostano due ossi, racchiudendo tra le superfici il prototipo da riprodurre, ricavato da un blocco di metallo lavorato con lime e scalpelli. Pomodoro, tuttavia, ne rovescia il principio, trasformando il procedimento in un gesto creativo: «Io invece prendo un osso di seppia e lo incido in se stesso direttamente, usando bisturi, coltelli, aghi e ogni attrezzo utile. Nel risultato così ottenuto si cola il metallo: piombo, oro, argento. Ottenuta la fusione, passo con lime e ceselli sulle parti del metallo che decido di far diventare lucide»2. In questa operazione diretta, Pomodoro trova il proprio alfabeto plastico.

(Fotografia Archivio Arnaldo Pomodoro)
Le prime opere nascono così: «piccoli rilievi coperti di segni leggeri e ritmici, un tracciato di nodi, punti e fili, a formare una sorta di scrittura arcaica e illeggibile»3. Il gesto tecnico si fa gesto poetico: scavare l’osso significa entrare nel cuore stesso della materia, lasciandosi guidare dalle sue venature. «Lo scavare l’osso di seppia per ritrovare queste venature suggerisce talvolta forme magiche: e tu non hai fatto nulla, ed è l’osso di seppia che ti regala suggestioni e immagini che sono insieme frammenti di spiaggia, lembi del Mediterraneo»4.
Da questa esperienza di bottega, così intima e fisica, prende forma la visione che lo accompagnerà per tutta la vita: una scultura che nasce dal contatto diretto con la materia, dal suo scriversi da sé, come se il mare lasciasse ancora un’impronta nelle sue superfici. In questo modo, l’osso di seppia si trasforma da semplice materiale a metafora, in quanto paesaggio mentale, che richiama il mare, la spiaggia e l’idea di frammento.
Non a caso Pomodoro dialoga idealmente con Eugenio Montale, che degli Ossi di seppia fa il titolo della sua prima raccolta poetica. Un legame che si fa esplicito in un bozzetto del 1976 per il Pietrarubbia Group, dove compare il verso montaliano «Lo sai: debbo riperderti e non posso». In mostra è presente un modello di quest’opera, insieme a una selezione di disegni e materiali di lavoro che ne raccontano la genesi. Pomodoro la concepisce nei primi anni Settanta, dopo un viaggio nel borgo di Pietrarubbia, nel Montefeltro: «un villaggio medievale che stava andando in rovina, abitato solo da un pastore». Quel paesaggio di pietre e rovine, spiega, «era quello che avevo conosciuto da bambino», e il desiderio di restituirgli vita si traduce nell’idea di una scultura-paese, un organismo complesso e in progress, formato da blocchi e frammenti che rappresentano Il fondamento, L’uso, Il rapporto, La quotidianità, Gli assoluti.

(Fotografia Archivio Arnaldo Pomodoro)
Con Pietrarubbia, l’artista porta a compimento una riflessione già inscritta negli ossi di seppia: l’idea che la scultura possa diventare luogo e memoria, spazio fisico e mentale in cui la materia si rigenera. È un passaggio decisivo, perché proprio da qui si apre la stagione delle grandi installazioni e del dialogo con il teatro: lo spazio che non è più cornice dell’opera, ma parte viva della sua costruzione. Un momento cruciale di questa evoluzione è la scenografia realizzata dall’artista per l’Alceste di Gluck, messo in scena al Teatro Margherita di Genova il 26 febbraio 1987. I costumi, ricoperti di lattice, riproducono la fibra ondosa dell’osso di seppia, diventando “negativo” delle sculture minime degli esordi. Pomodoro li descrive come “gusci”, scudi protettivi, ma anche simboli di morte, avvolti in un colore “lunare”5. Quel guscio, ingrandito, diventa scultura autonoma: è il passaggio dalle piccole fusioni ai grandi Scudi e Scettri esposti alla Biennale di Venezia del 1988, quelle opere che Carandente definisce «le antenne del futuro» e, al tempo stesso, «le maschere tribali che risorgono da una selva oscura».

(Fotografia Archivio Arnaldo Pomodoro)
Nello stesso anno, in occasione della Biennale del Mare di Napoli e del festival Milanopoesia, Pomodoro presenta Scolio, un’opera collettiva realizzata con la scultrice Bettina Werner e il poeta Francesco Leonetti, a cui è dedicata una sezione del percorso espositivo. Il titolo stesso, Scolio, costituisce una chiave di lettura dell’intero progetto: in un foglio di lavoro Pomodoro annota che, «nell’antichità greca latina e poi sino a Spinoza “Scolio” ha il significato tecnico di commento a un passo di un’opera (come, modernamente una nota) ed è anche un genere di poesia lirica conviviale». L’opera nasce infatti come un commento visivo e poetico al tempo stesso, facendo dialogare materia, parola e suono. I versi di Leonetti si intrecciano alle sculture di Pomodoro in un processo di reciproca trasformazione fino a che le parole non sono «ridotte all’osso», essenzializzate, mentre la forma scultorea si carica di echi linguistici e ritmi interiori. In questo intreccio, la riflessione sul mare e sulla memoria si fa coralità in un’unica voce che tiene insieme la parola, il segno e il sogno.

(Fotografia Archivio Arnaldo Pomodoro)
Alla fine del percorso espositivo, un pannello d’archivio restituisce proprio questa storia, parte di un racconto più ampio che la mostra dispiega attraverso opere, disegni, appunti e fotografie. Un racconto che non si sviluppa in modo lineare, ma per strati e risonanze, come accade nei materiali stessi di Pomodoro. Ogni sezione del percorso suggerisce una possibile via tra luoghi, memorie e visioni, intrecciando traiettorie e rimandi che permettono allo spettatore di costruire il proprio itinerario. Si possono seguire i fili dei luoghi, le memorie personali e collettive di cui le sculture sono intrise, o le visioni che esse portano con sé, sogni, incubi, ricordi che emergono dalle superfici come dal fondo di un mare antico. È in questa pluralità di percorsi che Open Studio #4 trova la sua forza, dal momento che ogni opera si fa voce nella lunga conversazione che Pomodoro ha intrecciato con il tempo.
Note
- G. Carandente, Vitalità della Scultura, in catalogo mostra “XLIII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia”, Venezia, Edizioni La Biennale, Venezia / Fabbri Editori, Milano, 1988, pp. 57-58; poi in Colpo d’ala di Arnaldo Pomodoro, Fratelli Palombi Editori, Roma, 1988, p. 39.
- A. Pomodoro, F. Leonetti, L’arte lunga, Feltrinelli, Milano, 1992, pp. 26-27.
- A. Pomodoro, Il grande teatro delle civiltà, a cura di L. Respi, A. Viliani, Skira, Milano, 2023, p. 96.
- A. Pomodoro, F. Leonetti, ivi, pp. 27-28.
- A. Pomodoro, F. Leonetti, ivi, p. 135.

Greta Beluffi
Laureata in Lettere classiche e studentessa di Storia e Critica d’Arte a Milano: mi chiamo Greta e ho 24 anni. Vivo di arte e di Spritz ma, si sa, “mens sana in corpore sano”, e lungo i moltissimi km di corsa giornalieri amo pensare al marxismo, alla psicanalisi lacaniana e alle letture post strutturaliste delle opere d’arte, di cui spero di poter scrivere senza far storcere il naso a chi, come me, non si intende di filosofia.
