Arte e sesso: quando il corpo diventa ossessione
Ricordo di aver letto da qualche parte che “sesso e arte sono la stessah cosa” e di aver ragionato sulla profonda veridicità dell’affermazione. Fare sesso e fare arte: in entrambi i “fare” si instaura un rapporto con l’altro, in cui la “questione” è quella di “toccare il limite […] e anche quella del toccare in quanto tale, e il rapporto sessuale è l’epifania del toccare”1. Le parole del filosofo francese Jean-Luc Nancy, riferite all’esperienza sessuale, infatti, possono facilmente essere trasposte a quella artistica. Questo perché entrambe implicano una stessa tensione il cui fulcro è il corpo: il bisogno di contatto, il superamento di una distanza, l’esposizione di sé.
Sesso e arte chiedono al corpo di farsi veicolo di un’esperienza totale, lasciandosi attraversare e perdendosi al contempo nell’altro e in sé stessi. Tuttavia, proprio in questo risiede il loro carattere ossessivo. Infatti, il rapporto con il proprio corpo e con quello altrui costituisce sempre un campo di tensione, un gioco di attrazione e distanza, compenetrazione e perdita, dal momento che l’altro non è mai solo un soggetto, ma una forza con cui scontrarsi e confrontarsi:
«E ancora: anziché voler definire l’altro («Cos’è mai costui?»), io volgo l’attenzione su me stesso: «Cos’è che voglio, io che desidero conoscerti?» Cosa si verificherebbe se decidessi di definirti non già come una persona, ma bensì come una forza? E nel caso che mi ponessi come una forza contrapposta alla tua forza? Tutto ciò avrebbe come risultato questo: il mio altro si definirebbe solamente attraverso la sofferenza o il piacere che egli mi dà».2
Questa tensione si amplifica oggi in un’epoca in cui il corpo è costantemente esposto, iper-rappresentato e sottoposto a una valutazione ossessiva. Non si tratta più solo del desiderio di conoscere l’altro attraverso il contatto, ma della volontà di controllare, modellare e possedere l’immagine del proprio corpo: viviamo immersi in un’estetica che glorifica il corpo come oggetto di desiderio e consumo, trasformandolo in una superficie da perfezionare e da esibire. In questa costante tensione tra corpo e immagine, tra presenza e rappresentazione, arte e sesso si intrecciano nel loro divenire strumenti di esplorazione dell’interiorità e di messa in mostra di questi meccanismi di mercificazione.
L’attività di Milo Moiré (pseudonimo di Sue Pruzina, nata nel 1983 in Svizzera) si colloca a metà tra la pornografia e l’arte, ponendo al centro di essa lo studio ossessivo del proprio corpo e portando all’estremo la sovrapposizione tra corpo reale e corpo mediatizzato. Nel video Ensemble (2019), Moiré interagisce per circa due minuti con uno specchio posto in uno spazio naturale, leccandolo e baciandolo, dando vita a una “danza” sessualmente esplicita con il suo stesso riflesso.

L’artista esplora così il concetto di desiderio, facendo del proprio corpo sia il soggetto che l’oggetto dell’azione: un rimando al mito di Narciso, nell’ossessività rivolta verso la propria immagine e al desiderio di un’unione impossibile con essa, a cui allude il titolo Ensemble, “insieme”. Inoltre, vi si può leggere un riferimento al costante confronto della società contemporanea con la messa in scena del corpo sui social media. Nel video, come sulle piattaforme digitali, il corpo diventa pubblico e Moiré usa l’esposizione del gesto erotico per generare una tensione tra intimità e spettacolarizzazione, innestando una dinamica tipica sia dell’arte performativa che della pornografia: una logica dell’iper-esposizione ricercata al massimo grado nel suo profilo Instagram, che a sua volta sembra trasformarsi in una performance continua o una provocazione incessante.
Questa riflessione sul corpo come luogo di tensione tra desiderio e sguardo pubblico era già presente nella performance di Moiré Mirror Box (2016), in cui la funzione dello specchio assume un ruolo ancora più esplicito. Se in Ensemble il riflesso è il doppio con cui si cerca un contatto impossibile, in Mirror Box lo specchio diventa un confine ambiguo tra il corpo dell’artista e quello degli spettatori, che sono chiamati a interagire direttamente con lei. La performance, messa in scena in varie città europee, vedeva l’artista camminare per strada con una scatola di specchi all’altezza del seno o dei genitali, invitando il pubblico a inserire le mani nelle aperture e a toccarla, azione che aveva portato al suo arresto a Londra per oltraggio alla decenza pubblica.
Con questa azione, Moiré rendeva il corpo un dispositivo di scambio tra intimità e pubblico, ribaltando il rapporto tra voyeurismo e consenso: lo spettatore, anziché limitarsi a osservare, era chiamato a un’interazione fisica diretta, ma all’interno di un contesto regolato e dichiaratamente3 performativo. Quest’opera riprende la storica performance Tapp- und Tastkino (“Cinema sfiora-e-tocca”), messa in scena nel 1968 da Valie Export (pseudonimo dell’artista austriaca Waltraud Lehner, nata nel 1940). Quest’ultima aveva realizzato un’azione simile ma con una valenza politica più esplicita: indossando una scatola di cartone all’altezza del seno, invitava gli spettatori a toccarla mentre un collaboratore, Peter Weibel, con un megafono annunciava la performance, paragonando il dispositivo a una sala cinematografica:
«Questa scatola è una sala cinematografica, Il mio corpo è lo schermo. Questa sala, però, non è fatta per guardare, è fatta per toccare … Questo è Touch Cinema. Anche se lo stato non ammette la pornografia, voi potete sentirvi liberi di sperimentarlo… ma solo per tredici secondi. Quando lo fate, comunque, sarete visti da tutti».
La sua provocazione mirava a sovvertire le dinamiche del cinema tradizionale, in cui il corpo femminile è spesso oggetto passivo dello sguardo maschile. Con Tapp- und Tastkino, invece, l’atto del toccare sostituiva quello del guardare, obbligando gli spettatori a confrontarsi con le implicazioni della propria partecipazione. Se Tapp- und Tastkino rifletteva sulla censura e sulla rappresentazione femminile nel cinema, Mirror Box affronta un’epoca in cui il corpo non è più solo filmato o fotografato, ma può essere toccato, esperito, reso accessibile in un modo che sfida le tradizionali barriere tra privato e pubblico.
Milo Moiré, Mirror Box (2016) Valie Export, Tapp- und Tastkino (1968)
Questa logica di iper-esposizione e dissoluzione del confine tra intimità e pubblico trova un antecedente in Seedbed (1972) di Vito Acconci (1940-2017), poeta, performer e architetto americano di origini italiane. Acconci nella sua performance sottrae il proprio corpo alla vista, sostituendo la presenza fisica con una voce che insinua un desiderio ossessivo e incontrollato: nella galleria Sonnabend di New York, dal 15 al 29 gennaio 1972, due volte a settimana per otto ore al giorno, l’artista rimase nascosto sotto una pedana di legno, da lui appositamente costruita4, masturbandosi mentre sussurrava fantasie sessuali, rivolte ai visitatori che camminavano sopra di lui, spargendo così il proprio seme, elemento da cui deriva il titolo dell’opera. Il pubblico non poteva vederlo, ma poteva sentirlo e sapere cosa stava facendo, diventando involontariamente parte del suo processo di eccitazione.
«[…] Quello che sto facendo lo faccio con te, adesso … tu mi stai di fronte … ti giri intorno … io m’avanzo verso di te, mi piego su di te … Sotto la rampa: mi muovo da un punto all’altro dell’intero pavimento (l’intenzione era di produrre seme, di lasciare del seme per tutta l’area coperta). […] mi masturbo: devo continuare tutto il giorno – coprire di sperma il pavimento, seminare il pavimento. Mediante gli spettatori: a causa degli spettatori: posso sentire i loro passi, loro mi stanno camminando sopra, di fianco – io li sto raggiungendo – mi sto concentrando su uno di loro: posso formarmi un’immagine di te, sognare di te, lavorare su di te. […] tu puoi aumentare la mia eccitazione, servirmi da mezzo (il seme gettato nel pavimento è un risultato congiunto della tua presenza e della mia). Tu puoi ascoltarmi; voglio che tu rimanga qui; puoi camminarmi intorno; sorpassarmi; tornare; sederti qui; giacermi accanto; camminare di nuovo con me»5.

In Seedbed, il desiderio si manifesta in una dimensione ossessiva e solitaria, in cui la presenza dell’altro non è fisica ma immaginata, evocata da una voce che trasforma lo spazio della galleria in un territorio ambiguo tra intimità e violazione. Il carattere ossessivo dell’opera si gioca quindi sulla ripetizione e sulla tensione tra esibizione e occultamento: Acconci crea una dimensione claustrofobica, dove il desiderio emerge come una forza incontrollabile che si alimenta della presenza degli spettatori. Qui la performance diventa un dispositivo che esaspera il rapporto tra arte, sessualità e potere, facendo emergere la tensione tra chi guarda e chi è guardato, tra chi desidera e chi è desiderato, come affermato anche dal critico Edward Levine:
«Le nozioni di interno ed esterno, pornografia e sessualità, visibilità e invisibilità vengono esplorate con un’ambiguità e un’ironia di matrice joyciana. Il monologo interiore si trasforma in un evento pubblico, l’esperienza intima diventa comunicazione condivisa. Acconci riesce a indagare ed esternare le proprie fantasie, coinvolgendo il pubblico nel suo mondo privato attraverso una struttura ambientale che costringe ogni individuo a confrontarsi sia con sé stesso che con l’artista, al livello più istintivo»6.
Il 10 novembre 2005, alle 17 in punto, posta al di sotto di una piattaforma circolare al centro della rotonda del Guggenheim Museum di New York, Marina Abramović (1946) iniziò la sua reinterpretazione della performance di Acconci nell’ambito della mostra Seven Easy Pieces. Questo progetto consisteva nella rievocazione di sei performance storiche originariamente eseguite tra gli anni Sessanta e Settanta, accompagnate dalla presentazione di un nuovo lavoro dell’artista serba ideato e realizzato appositamente per l’occasione: l’intento di questo esperimento era di preservarne la memoria e di analizzarne l’impatto nella contemporaneità.
Nel caso di Seedbed, tuttavia, Abramović operò una significativa trasformazione rispetto alla versione originale. Se Acconci si nascondeva sotto una rampa e masturbava ascoltando i passi del pubblico sopra di lui, mantenendo così un carattere di invisibilità e di monologo interiore erotico, Abramović scelse di posizionarsi visibilmente sotto una pedana trasparente. In questo modo, il suo corpo non era più occultato, ma esposto agli sguardi del pubblico, sovvertendo il gioco tra presenza e assenza che caratterizzava l’opera di Acconci. Ribaltando la dinamica, Abramović rese il proprio corpo oggetto di osservazione e riflessione consapevole: la dimensione ossessiva e compulsiva del desiderio maschile, espressa da Acconci attraverso l’atto masturbatorio nascosto, veniva sostituita da una presenza corporea esplicita e da un’esplorazione della vulnerabilità e dell’esposizione del corpo femminile, facendo emergere una riflessione sulla spettacolarizzazione del corpo e sul suo ruolo in un’era di iper-visibilità.
Questa riflessione si trova anche nel lavoro di Vanessa Beecroft (nata a Genova nel 1968 ma di origini inglesi), incentrato sull’uso del corpo come campo di esplorazione: nelle sue performance, l’artista impiega gruppi di modelle nude o semi-nude per annullare qualsiasi carica erotica e narrativa. VB55 (2005) è un’opera emblematica per comprendere questo discorso: gli spazi della Neue Nationalgalerie di Berlino vennero riempiti dall’artista con i corpi di cento modelle nude, disposte nello spazio come sculture viventi, immobili e silenziose per ore, senza che potessero interagire con il pubblico.

Così facendo, il corpo femminile viene completamente passivizzato, ridotto a un’immagine muta, senza azione né volontà: diversamente da Abramović, che nella reinterpretazione di Seedbed trasforma il proprio corpo in un campo di tensione tra vulnerabilità e controllo, Beecroft annulla qualsiasi carica erotica e narrativa. L’assenza di azione genera un effetto di straniamento dato da un’oggettificazione estrema in cui il corpo è presentato come un’entità inerte, un’immagine da consumare ma con cui è impossibile relazionarsi. In questo modo, Beecroft porta alle estreme conseguenze la logica della rappresentazione femminile nei media, riducendo il corpo a una superficie muta, prodotto perfetto della cultura contemporanea: merce visiva priva di agency.
Le performances di Moiré, Abramović e Beecroft, pur con approcci differenti, riflettono proprio su questa logica contemporanea, in cui il corpo è ridotto a un oggetto di consumo. Da un lato, l’iper-esposizione erotica lo trasforma in una merce sessualizzata; dall’altro, la sua spersonalizzazione lo svuota di intenzionalità, rendendolo a pura immagine da contemplare, una presenza muta e passiva. Se Moiré gioca con il desiderio e la spettacolarizzazione del corpo femminile, Abramović sovverte il rapporto tra visibilità e potere, mentre Beecroft radicalizza la distanza tra corpo e soggetto, riducendo il corpo a un’entità astratta, una composizione estetica priva di volontà.
Così, nella contemporaneità, il desiderio si nutre di una ripetizione ossessiva dell’immagine del corpo, che finisce per svuotarsi di significato. Il sesso diventa ossessione perché fruito attraverso un’incessante mediazione, da un consumo infinito di immagini: un’assuefazione che finisce per anestetizzare chi ne fruisce in un eterno presente fatto di visibilità senza profondità.
Note
- Jean-Luc Nancy, Sessistenza, a c. di F. R. Recchia Luciani, Il Melangolo, Genova, 2019, p. 27.
- Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Giulio Einaudi editore, Torino, 2021, p.108.
- Queste sono le parole pronunciate, trascritte e tradotte dalle videoregistrazioni della performance, di cui un estratto è disponibile al link https://archive.org/details/touch-cinema.
- “Seedbed fu la più controversa delle tre performance presentate alla galleria Sonnabend. In una sala espositiva altrimenti vuota, venne costruita una rampa che si estendeva dal centro della galleria fino alla parete di fondo. Nei giorni in cui la performance veniva attivata, il mercoledì e il sabato, Acconci si posizionava nello spazio ristretto sotto la rampa e si masturbava ripetutamente, lasciandosi stimolare dal suono dei visitatori che camminavano sopra di lui e trasformandoli in protagonisti delle sue fantasie sessuali.” Cfr. https://www.tate.org.uk/art/artworks/acconci-seedbed-t13176.
- Mario Diacono, Vito Acconci. Dal testo-azione al corpo come testo, New York, Out of London Press, 1975, p.168.
- Edward Levine, In Pursuit of Acconci, Artforum, 15, 1977, https://www.artforum.com/features/in-pursuit-of-acconci-209427/.