Ossessione, di Luchino Visconti
Ossessione è tante cose. Innanzitutto, è il debutto alla regia di uno dei più eleganti autori del nostro cinema, Luchino Visconti, rientrato in Italia dalla Francia proprio per girare il film. È anche, secondo la storiografia, una delle pellicole che hanno dato i natali al Neorealismo, insieme a 4 passi tra le nuvole (1942, Alessandro Blasetti) e I bambini ci guardano (1944, Vittorio De Sica). Infine, è tratto dal romanzo di James M. Cain Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice, 1934), considerato un esempio principe della letteratura noir e pulp americana. Un primo adattamento era stato girato in Francia da Pierre Chenal nel 1939, con il titolo Le dernier tournant [“L’ultimo tornante”, film mai distribuito in Italia, NdA], ma il più conosciuto è sicuramente quello americano di Tay Garnett, del 1946, con protagonisti Lana Turner e John Garfield.
È soprattutto confrontando la versione americana con quella di Visconti che si colgono le peculiarità di quest’ultima. Partiamo dalle ovvietà: se Garnett si attiene quasi totalmente al romanzo, Visconti lo usa più come un canovaccio per esplorare i temi che più gli interessano, a differenza di come farà, ad esempio, con Il Gattopardo nel 1963, che ricalca quasi perfettamente il romanzo di Tomasi di Lampedusa, ad eccezione del celebre finale. Inoltre, Il postino suona sempre due volte è ambientato in California, intorno a Los Angeles, mentre Ossessione si svolge principalmente ad Ancona e nelle zone del ferrarese.
Una sostanziale differenza, tuttavia, risiede nel modo in cui i due registi trattano i temi scabrosi nati dalla penna di Cain. Garnett, o meglio, la casa di produzione MGM, cerca di astrarre il più possibile la violenza e il sesso spinti presenti nel romanzo, così come le tendenze sadomasochistiche dei protagonisti, in conformità con il Codice “Hays”, cioè il codice censorio attivo a Hollywood tra il 1934 e il 1968. La sensualità tra Frank e Cora (Garfield e Turner) è solo suggerita, tramite ellissi e soggettive. Al contrario, Visconti mette in scena una sessualità dirompente ed estremamente esplicita per l’epoca, soprattutto se messa a confronto con i film popolari durante il periodo fascista, le commedie sofisticate dei cosiddetti “telefoni bianchi”, e in generale con l’atteggiamento del regime nei confronti di tali temi. Non a caso, Ossessione fu pesantemente censurato all’uscita, fu condannato dalla Chiesa cattolica e, addirittura, si cercò di bruciarne tutte le copie (Visconti riuscì a nascondere il negativo di camera fino alla fine della guerra). Personalmente, penso che ciò che più colpisce un occhio moderno sia quello che potremmo chiamare “lo sguardo femminile” (o anche “sguardo queer”) che il regista rivolse ai propri personaggi, specialmente a Gino, interpretato da Massimo Girotti.
Partiamo dal saggio di Laura Mulvey, Cinema narrativo e piacere visivo (1975), fondamento della Feminist Film Theory e prima teorizzazione di un termine ultimamente molto popolare online, “male gaze” (sguardo maschile). Senza stare a sciorinare qua l’intero pensiero di Mulvey, che parte dalla psicanalisi ed è estremamente articolato e complesso, ci basti riassumerlo brevemente. Secondo Mulvey, il cinema narrativo di impianto classico (quindi, in soldoni, la Vecchia Hollywood dello studio system) è portatore di uno sguardo maschile – forse sarebbe meglio dire, oggi, eteropatriarcale – che porta lo spettatore a identificarsi con la macchina da presa e il suo punto di vista, adattato ai personaggi maschili. Poiché uno dei principi del cinema classico è creare l’illusione dell’invisibilità della macchina da presa, e poiché i suoi registi e protagonisti erano in preponderanza uomini, lo spettatore è portato a identificarsi con l’eroe maschile sullo schermo. Questa unificazione dei punti di vista è tematizzata nei momenti in cui il personaggio maschile guarda un oggetto del desiderio femminile – e noi con lui. La posizione delle donne nel cinema classico è quella di, per usare le parole di Mulvey, totale «to-be-look-atness», mentre l’uomo è in posizione attiva. Lui guarda, la donna è guardata, e il piacere scopofilo dello spettatore si appaga, ovviamente, identificandosi in chi sta guardando. Questo riduce le donne a elementi passivi, oggettificati e sottomessi allo sguardo eteropatriarcale, anche quando le azioni che compiono nel racconto sono (o sembrano) emancipate e attive.
Ebbene, in Ossessione, non c’è dubbio che ad essere guardato sia Gino. La sequenza iniziale del film è quasi didascalica in questo. Nei primi minuti, la macchina da presa lo inquadra quasi sullo sfondo, con il viso coperto da un cappello. Non è lui a parlare, ma solo alcuni personaggi secondari. Poi, Visconti segue Gino mentre entra nella trattoria in cui si svolgerà gran parte della vicenda, ma ancora non ne vediamo il volto: è inquadrato di spalle, oppure ci si concentra sulle gambe che avanzano. Quando finalmente l’uomo entra in cucina, attirato da una voce femminile che canta, prima vediamo il volto di lei, Giovanna (Clara Calamai, diva dell’epoca), e solo infine, seguendo lo sguardo chiaramente desiderante della donna, viene finalmente inquadrato Gino/Girotti. L’inquadratura, una soggettiva di Giovanna, è chiaramente feticista in senso mulveyano: inquadrato dal basso verso l’alto, con un carrello in avanti, di Gino vediamo le spalle forti, i pettorali possenti, appena coperti da una giacca troppo grande per lui, il viso in chiaroscuro.
Per contrasto, il primo incontro dei due amanti sfortunati ne Il postino suona sempre due volte di Garnett è tutto il contrario. In primo luogo, lo spettatore ha già identificato John Garfield/Frank come il protagonista della storia. Infatti, anche questo secondo film inizia seguendo l’uomo fino alla taverna di Cora (Turner) e suo marito Nick Smith (Cecil Kellaway), ma fin da subito vediamo il suo viso: fin da subito è lui a parlare e ad introdurre la vicenda. In quanto spettatori, assumiamo automaticamente la sua prospettiva. Quando Frank arriva alla taverna, per lungo tempo non vediamo la signora Smith. Mentre il protagonista è seduto a mangiare, ai suoi piedi rotola un rossetto. La cinepresa segue a ritroso il percorso del tubetto, giungendo a un’inquadratura delle gambe di Lana Turner, per poi regalarci un suo primo piano nella tradizione dei “glamour shot” della MGM, ovvero primi piani perfetti delle loro più brillanti star, che avevano l’obiettivo di rinforzare nel pubblico l’amore idolatrante per attrici e attori. La segmentazione del corpo della donna è un meccanismo da manuale dello sguardo eteropatriarcale per (letteralmente) oggettivarla, privarla della sua integrità, asserendo la forza sovrumana del patriarcato e dei suoi mezzi.
Sopra abbiamo scritto che, in Ossessione, si può parlare di uno sguardo femminile, ma anche di uno sguardo queer. Infatti, queste due funzioni, ai fini della nostra analisi, sono essenzialmente coincidenti. È un personaggio femminile a osservare il personaggio maschile, ma è anche un regista apertamente omosessuale a filmare un attore giovane e attraente, mettendone in risalto la fisicità, la sensualità, il corpo muscoloso: non a caso, nelle scene di sesso tra i due, è sempre Girotti a restare a petto nudo, mentre Calamai resta pudicamente vestita. E se anche le gambe di lei sono spesso inquadrate, per esempio nella scena dell’incontro, non ci si sofferma su di esse, né le si isola nell’inquadratura, come nel caso di Turner – fanno semplicemente parte del quadro. In opposizione, quindi, a uno sguardo eteropatriarcale come quello individuato da Mulvey, Ossessione propone uno sguardo eccentrico e divergente, arrivando anche a tratteggiare (neanche così velatamente) una sottotrama omosessuale tra Gino e “lo Spagnolo” (Elio Marcuzzo), personaggio assente dal romanzo di Cain. Il film palesa il desiderio dello Spagnolo per Gino in numerose occasioni, la più plateale delle quali fu, infatti, una scena tagliata praticamente subito dalle autorità censorie. Dopo aver lasciato per una prima volta la taverna, Gino si ritrova su un treno senza il becco di un quattrino. Qui incontra lo Spagnolo, che lo “salva” da un controllore pagandogli il biglietto e gli propone di viaggiare con lui. Quella sera, arrivati in un ostello, i due devono condividere un letto e, dopo aver spento la luce, lo Spagnolo accende un fiammifero per fumare, soffermandosi prima a guardare languidamente il corpo voltato di Gino alla luce della fiamma. La cinepresa, ancora una volta, indugia sulle spalle e il dorso di Girotti.
Lo sguardo eccentrico di Visconti si inserisce in un discorso più ampio sui temi del film. Qual è “l’ossessione” del titolo? È quella di Gino per Giovanna, che lo porta a compiere atti ignobili pur di cercare (fallendo) di costruire un nucleo patriarcale di stampo borghese? È quella di Giovanna, che fin da subito esprime il suo malessere riguardo al proprio matrimonio e cerca un modo per essere indipendente? Oppure è quella dello Spagnolo – e, verrebbe da pensare, anche in parte di Gino – di viaggiare, di non stare mai fermi, di rifiutare le regole della società borghese (della società fascista!) e viverne ai margini?
Personalmente, sebbene tutte e tre le opzioni abbiano delle ottime ragioni a proprio favore, penso che sia proprio nella loro unione che risiede la forza del film, anche più di ottant’anni dopo. Girato e distribuito al tramonto del ventennio, Ossessione è un grido soffocato di ricerca della propria libertà, nella propria vita privata, ma anche nel proprio ruolo pubblico. Il fascismo, i suoi capi e la guerra non sono mai citati, eppure l’ostinatezza di questi personaggi nel comportarsi “male”, secondo le regole sociali mussoliniane, li rende, ante litteram, “resistenti”. Paragonati agli eroi e le eroine del cinema fascista, loro sembrano trovarsi in un’altra epoca, e non possiamo pensare che Ettore Scola non abbia guardato anche a questo film, forse inconsciamente, girando Una giornata particolare, 1977. La conversazione tra Gino e lo Spagnolo, quando questi lo va a trovare allo spaccio dopo l’omicidio del marito di Giovanna, non è un invito diretto a imbracciare le armi e combattere il nazifascismo (peraltro, all’uscita del film, la Resistenza in quanto tale non esisteva ancora), ma è sicuramente uno spunto a riconsiderare che cosa è “normale”, a interrogarsi su quello che ci è stato insegnato sia giusto fare. Ossessione è, ancora oggi, una lettera d’amore dolceamara alla libertà.