“All’allunaggio!”
La Regina antica veglia sulla notte,
e su sorti di uomini dormienti;
e noi donne di “sei lunatica”
ci siamo “un po’ rotte”.

Era il lontano 10 luglio del 1998 quando, in una notte di luna piena e caldo afoso ed insostenibile – quasi quanto quello che ci affligge in questa rovente estate 2022 – facevo il mio ingresso ufficiale su questa Terra. Da quel giorno, anzi, da quella notte, posso dire che la luna abbia sempre fatto parte della mia vita. Da sempre ne subisco il fascino, e della notte ho fatto il mio habitat naturale: di notte studio e ho sempre scritto i filosofeggiamenti degli almanacchi che ci hanno accompagnato per questi undici mesi. Mi è capitato, di tanto in tanto, di perdere l’ispirazione, di aprire la pagina bianca di Word e di essere “senza parole”. Così, mi affacciavo alla finestra, guardavo la luna e subito, come avessi preso una boccata d’aria nuova – o, in questo caso, un bagliore di luna , (non nuova perché, come dicono i proverbi, quando è nuova non c’è) -, tornavo al pc, con nuove idee e spunti. È sempre stata la mia interlocutrice primaria, la luna. Di certo sono solo l’ultima, la più piccola e insignificante, degli interlocutori, anzi, delle interlocutrici, di Selene. O di Cinzia. O di Diana, o Artemide. Non sto delirando. Questi sono soltanto i diversi nomi che gli antichi hanno dato al nostro satellite, al quale, fin dalla notte dei tempi, è stato dedicato un culto, appunto detto di Selene. Raffigurata come una donna dalla pelle chiara che guida una biga trainata da due cavalli bianchi, la troviamo addirittura in Omero, negli Inni minori, che la descrive in termini estremamente commoventi e singolari, tipici delle cosmogonie:
Da lei scende celeste bagliore ad avvolger la terra, dal suo capo immortale, dai fulgidi raggi, s’effonde somma bellezza: un’aura rifulge che manda bagliori dalla corona d’oro, si spargono raggi per l’aria, quando dai gorghi del mare, lavate le fulgide membra, cinte le vesti, Selène, che lungi lo sguardo sospinge, i suoi puledri aggioga dall’erta cervice, raggianti, nel vespro, a mezzo mese, che pieno rifulge il suo disco; e mentre ella s’accresce, s’effondono fulgidi raggi dal firmamento; ed è pei mortali segnale e presagio.1
In Selene convive la più antica delle ambivalenze: bellezza e pericolo. Il suo arrivo, l’arrivo della sua bellezza, dei suoi raggi, sono «per i mortali segnale e presagio». Per gli uomini la certezza risiedeva nel Sole, non nella Luna, perché di giorno la vita era al sicuro, mentre con la notte giungeva la necessità di difendersi dai pericoli e dall’attacco di predatori e nemici. Inoltre, da sempre, la bellezza, tipicamente associata al femminile, è strettamente legata al pericolo (basti pensare alle sorte toccata alle povere Sirene), e la Luna, presenza così misteriosa e affascinante nella sua stessa natura, lo vedremo, non fa eccezione. Tutti hanno scritto della luna, tutti l’hanno cantata, soprattutto poeti e cantanti maschi, perché la luna è femmina e quindi, pazientemente, ascolta e accoglie. Astolfo, ad esempio, nell’Orlando Furioso, quando in sella ad un ippogrifo giunge sulla Luna per recuperare il senno che Orlando ha perduto per l’amore della bella Angelica, vede con i propri occhi ciò che la superficie lunare conserva:

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.2
Per come la vede Astolfo, la luna potrebbe sembrare un po’ un “archivio di memorie inutili” (probabilmente vi sono finiti anche i poveri buoni propositi di cui vi parlavo a settembre… anche loro “non han mai loco”), per rifarmi al caro Camilleri. Chissà se Wordsworth pensava lo stesso, guardandola. I romantici, e i poeti che dal Romanticismo sono partiti, sono stati, di certo, coloro che più di altri hanno subito il suo fascino e mistero. Basti pensare alla più nota delle domande di Leopardi, «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?», domanda che il Pastore errante dell’Asia le poneva con la speranza che gli rispondesse, liberandolo dai dubbi della notte. Si ritrova il silenzio, come risposta, e quel senso di sgomento, lo stesso che ritroviamo nel Paesaggio lunare di Wordsworth, dove il poeta si trova davanti, anzi, sopra la testa,
[…] la Luna nuda, immensamente alta, […] ed io sul bordo ritrovarmi d’un enorme mare di bruma che silenzioso e placido mi riposava ai piedi… La Luna nel frattempo in solitaria gloria rimirava la scena e noi ristemmo, la bruma, …L’insieme della scena si modellava… grandiosa in sé- ma in quello spacco,… ….la Natura aveva posto l’anima, l’immagine del tutto.3

Lo sgomento è lì, in quella “immagine del tutto”: una Natura che si fa specchio dello sgomento stesso, che per il poeta è dato dalla visione della maestosità della Luna. E proprio da questo stesso “sgomento da Luna” trae spunto il rap-conto scritto a due mani da Murubutu e Caparezza che del poeta porta il nome: Wordsworth (2019), brano che riflette su come la luna, la «regina più antica», appunto, sia stata spunto di poeti, artisti e musicisti, ma anche oggetto d’indagine della scienza e della speculazione filosofica. Ogni branca del sapere ha rivolto il proprio sguardo alla luna e al suo dualismo, dato dal suo essere misteriosa, mai uguale, spesso assente di notte, e questo aspetto emerge nella strofa di Caparezza, un brano nel brano, denso come sono soliti essere i suoi pezzi. La luna è
[…] madre di tutti questi infanti
Brillante perché rifletti mai perché t’infiammi
Non fai differenza tra i tuoi protetti, infatti
Con il tuo lume orienti i poeti e i briganti
Ancora donna, qui anche madre, risulta crudele, quasi quanto la natura di Leopardi, e al contempo equa, tanto che non considera la natura degli uomini. Il suo compito non è dare giudizi, bensì è quello di illuminare le strade – e anche le ragioni. Nei versi successivi, Caparezza gioca con i nomi della Luna, Artemide nello specifico, e torna all’ippogrifo di Astolfo, per approdare a Chopin, che la luna l’ha catturata nel suo famoso Notturno. Lei veglia su di noi, ci guarda dall’alto della sua imponenza… chissà se ci giudica davvero o se ci guarda e basta. Ho sempre pensato a quella sfera come un’entità estremamente empatica, che empatizza con noi, spesso ci compatisce. Un po’ come il finale di Ciaula scopre la luna, la novella di Pirandello, dove Ciaula, nella luna, trova la liberazione dal peso della vita e dalla paura del buio della notte; ma la luna, di lui, non si cura, anzi,
[…] ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.4
Quando empatizza, spesso lo fa perché, proprio dall’alto, assiste a storie di ordinaria quotidianità, quelle di cui la Grande Storia non parla mai. Ma c’è storia e storia, e ci sono storie e storie, e la Luna lo sa bene. Ad esempio, una sera di tanti anni fa, assistette alla fuga di due giovani ragazzi alla ricerca di riscatto. Si chiamavano Anna e Marco, e la luna li aveva visti, prima nel loro essere singole entità, perse nella loro quotidianità soffocante e apparentemente priva di evoluzione. Apparentemente. Lei sapeva come sarebbe andata, sapeva che si sarebbero trovati e che, insieme, i due ragazzi avrebbero trovato il loro riscatto,

la luna, in silenzio, ora si avvicina
Con un mucchio di stelle cade per strada
Luna che cammina, luna di città
Poi passa un cane che sente qualcosa, li guarda, abbaia e se ne va
Anna avrebbe voluto morire
Marco voleva andarsene lontano
Qualcuno li ha visti tornare
Tenendosi per mano.[5]
Non credo che i versi di Dalla abbiano davvero bisogno di commento. Parlano già da soli. Nella fine c’è l’inizio di una nuova storia, di una nuova vita. D’altronde, da sempre, la luna regola la vita: impiega ventotto giorni a compiere il suo ciclo rotatorio, e ventotto sono anche i giorni della durata del ciclo mestruale. E quando entriamo in questo campo… quanti stereotipi nascono? Troppi, uno fra tutti, da sempre legato alle donne: ovvero il nostro essere “lunatiche”. Mi ha sempre urtato questo termine, o meglio, questa barbara e sessista accezione del termine e il suo perpetrato uso maschile. Mi è capitato spesso di sentirmi dire da parte di maschi, in modo quasi comico e ironico, quasi fosse uno scherzo, “sei lunatica”, soprattutto in tutte quelle occasione nelle quali volevo e dovevo far sentire la mia voce – d’altronde, essendo io donna e aspirando all’emancipazione, è giusto che io debba essere costretta a far valere la mia voce, no? Ma si sa, quando esci fuori dallo spazio a-sociale, quello che il patriarcato facente capo ad Aristotele ha deciso per le donne, quando «ti esprimi in forte opposizione non sei una persona equilibrata, sei un’isterica, un’emotiva, un’irrazionale che non sa dominare le proprie passioni, né gli ormoni turbinanti del ciclo»6. Appunto, una lunatica; Michela Murgia non usa propriamente il termine, ma a quello allude. Eppure le donne hanno dominato la luna, anche meglio degli uomini e con più tecnica. Potremmo quasi affermare che senza le donne, ci saremmo potuti scordare l’allunaggio del ’69. Si parla sempre di Neil Armostrong, di Buzz Aldrin, delle loro passeggiate lunari, e di tanti altri uomini impiegati in prima linea nella NASA; ma la loro fama ha oscurato a lungo quella delle donne che hanno permesso l’allunaggio. Katherine Johnson, Frances Northcutt, Margaret Hamilton: non sono semplici nomi di donna, ma sono donne che hanno messo a frutto la loro intelligenza, il loro sapere e le loro competenze, creando nuovi strumenti, ipotizzando e verificando nuove teorie sulle orbite terrestri e sui principi della fisica, ed è anche e soprattutto grazie a loro che quegli uomini hanno avuto gli strumenti per arrivare sulla Luna e prendersi “la giusta fama”. A loro è dedicato il film del 2016 Il diritto di contare, a sua volta tratto dall’omonimo libro, scritto da Margot Lee Shetterly, che segue l’ascesa di Katherine Johnson, fisica e scienziata afro-americana che alla NASA fu calcolatrice insieme alle sue colleghe. Una storia di sorellanza, di un fronte comune in lotta contro stereotipi di genere e razza. E se qualche maschio le avesse chiamate lunatiche, probabilmente avrebbero risposto:
“Tieniti la Terra, uomo, io voglio la luna!”7.
… parlo tanto, non mi dire,
tra versi e canzoni,
tra emozioni e riflessioni;
al prossimo mese, tutto da sentire.
Note
- Omero, Omero minore, Inni, traduzione di Ettore Romagnoli, Bologna, Zanichelli, 1925 (https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Omero_minore.djvu/152 ).
- Ariosto, L., Orlando furioso, XXXIV, 70-87
- Wordsworth, William, Paesaggio lunare, in Preludio, Libro XIII
- Pirandello, L., Ciaula scopre la luna, in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914
- Lucio Dalla, Anna e Marco, 1979.
- p. 65, Murgia, M., Stai zitta, e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Einaudi, 2021
- Caparezza, Vengo dalla luna, 2001

Marta Urriani
Mi chiamo Marta Urriani, classe ’98, e studio Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Ho una folta chioma di capelli ricci, tanto che tutti mi chiamano Mafalda, come la bambina dei fumetti di Quino, con la quale ho molto in comune (e non solo i capelli). Cercando di sopravvivere alla vita universitaria, con il caffè di giorno e la camomilla di sera, leggo e scrivo. Mi interesso soprattutto di letteratura italiana e temi femministi.