Track 01: play. Prima il basso, avvolgente; poi le voci, intricate, che si susseguono e si scavalcano; il piano, il violino, l’autotune e noi. Al centro di un vortice colorato da note e ritmo ci siamo noi. A volte gangsters del sottobosco urbano newyorkese, altre volte dive bagnate dall’acqua dei caraibi e la luce dell’equatore, quando ascoltiamo una canzone siamo protagonisti e interpreti di un video musicale tutto nostro. Il flow duro, arrabbiato, del rapper ci conduce ad Harlem, alla periferia; le immagini si fanno dense, frammentate, montate una vicino all’altra, freneticamente. L’immaginazione ha la cadenza della paura e della rabbia, della frustrazione e dell’emarginazione: per 4 minuti e 23 secondi sentiamo la frenesia del riscatto, della vendetta. Sentiamo la violenza della gang, ne siamo parte, e la nostra mente cambia shot a suon di sparo. Poi cambio album: cambio scenario.
Nell’articolo che state per leggere intendo presentarvi tre abbinamenti, riguardanti un film e un album musicale, scelti in base alla condivisione di un ritmo, un’ambientazione e, in generale, un intento. Vi prego, anche, di voler considerare ognuna delle sei opere citate nell’articolo come un mio personale suggerimento o consiglio per la visione o l’ascolto: ce n’è per tutti i gusti, non resta che scegliere!
Apocalypse Now – Journey in Satchidananda
Copertina dell’album Journey in Satchidananda Copertina del film Apocalypse Now
India, Persia, Somalia, Afghanistan, Pakistan, Myanmar, Vietnam. Un viaggio in questi luoghi oscuri, sconosciuti, avvolti in superstizione e leggenda, provoca orrore e attrazione al cittadino, soldato, musicista occidentale. Il suo monoteismo gli fornisce, senza ombra di dubbio, gli strumenti per determinare ciò che è vero e ciò che è falso, per discernere la cultura dalla credenza, la giustizia dall’ingiustizia. Camminare tra le fronde fitte della foresta tropicale vietnamita vuol dire perdersi, non solo fisicamente: perdere punti di riferimento culturali e morali soffocati dal verde troppo folto. Vuol dire ripensare se stessi, le proprie coordinate esistenziali, la propria sicurezza. La dissonanza del dubbio, le aritmie del cuore di un impaurito e i richiami a sonorità insolite vengono allora messi in musica da Alice Coltrane, in un percorso profondamente sperimentale che porta a salpare dal porto sicuro americano per approdare in acque straniere, tra le onde del Sahara e la nebbia della tratta dell’oppio. Il percorso esplorativo della jazzista americana la porta prima di tutto ad ascoltare: popoli, storie, miti, posizioni politiche e morali. Il percorso musicale parte da un percorso di ascolto ed esplorazione perché per musicare il dubbio lei deve prima comprenderlo e farlo sedimentare. È un percorso che procede in profondità, alla ricerca di un altro punto di vista, un’altra verità; è un percorso a ritroso, la risalita di un fiume tra le chiome pericolose del Vietnam. È una navigazione incerta, difficoltosa, che ansa dopo ansa mette in forse le proprie certezze, mette a nudo la propria curiosità, la debolezza della propaganda, la fragilità della sicurezza.
Che siano i quattro minuti e ventisette secondi del monologo del colonnello Kuntz o i trentasette minuti dell’album di Coltrane poco importa: percussione dopo percussione, sparo dopo sparo, l’incertezza del Pledge of Allegiance lascia posto a un melting pot di suoni, idee e religioni. Dissonanza dopo dissonanza, si illumina una scintilla che accenderà il fuoco della democrazia.
La Haine – Rhythm Nation
Copertina del film La Haine (L’odio) Copertina dell’album Rhythm Nation
Il bianco: dell’ordine, della tranquillità, della mansuetudine; il bianco della polizia, del giudice, del ministro, del ricco, del legislatore o dell’editore. Il bianco che si sporca, nella Parigi di La Haine (L’odio) o nell’America di Rhythm Nation, col nero pece del sangue della periferia, del buio di quei luoghi dimenticati o della cui esistenza si vuole rammentare il meno possibile, dove la vita si svolge in una continua lotta, rabbiosa, sporca, sui toni del grigio. Perché il grigio è il colore dell’indistinguibilità; è il colore che permette sia a Janet Jackson sia al regista francese Mathieu Kassovitz di proporre uno spaccato sociale indiviso da giudizi morali, da fazioni di ‘buoni’ e ‘cattivi’. Il grigiore permette di rappresentare la rabbia, il dolore, il risentimento, il desiderio di giustizia di un popolo di non visti, di giudicati, senza (per contro) la necessità di emettere sentenze e condanne. Il panorama delle comunità emarginate afro-americane degli Stati Uniti, delle gang delle Banlieue parigine, della microcriminalità diffusa, viene raccontato per quello che è: un panorama composto da uomini e tensioni tra essi, soldi e povertà, droga e dipendenza, felicità e miseria. Sono gli scontri e gli attriti, tra il bianco e il nero, che diventano protagonisti. Sia l’album di Janet Jackson sia la pellicola di Mathieu Kassovitz dipingono una realtà dura, di odio e risentimento, sepolta sotto una realtà patinata come una copertina degli anni novanta: lucida dunque riflettente, incapace di assorbire nulla che non sia l’inchiostro cangiante che la compone.
Les Plages d’Agnès – Taming the Tiger
Copertina del documentario Les Plages d’Agnès Copertina dell’album Taming the Tiger
Quando una donna cammina sulla sabbia a lungo lascia delle impronte: impronte temporanee, certo, ma che raccontano di un percorso, di un lungo tracciato che l’ha portata sulla riva, vicino a quell’onda o sotto a quel cielo. Guardandosi indietro, la donna ripercorre i propri passi, le onde che le hanno bagnato le caviglie e i raggi di sole che l’hanno accompagnata. Vede la sua casa, i suoi figli, la sua carriera, sua madre e suo padre, le sue battaglie e il calore di una vita lunga: il conforto di essere vicino all’onda giusta, sotto al cielo giusto.
La necessità di voltarsi e di riepilogare i propri successi e i propri insuccessi è quello che accomuna Agnès Varda e Joni Mitchell che, con le rispettive opere Les Plages d’Agnès e Taming the Tiger, ricompongono un puzzle di foto di famiglia e ritagli di memoria. È un’occasione per riflettere su chi si è, su cosa ci compone, di che cosa si è fatti: degli amici? Dei ricordi? Delle sconfitte? Delle battaglie?
Un album di canzoni e una raccolta di immagini, intime, a cui l’artista rimane aggrappata solidamente come nella riproposizione continua della domanda: quanto di me c’è in voi e quanto di voi c’è in me? Vicine alla materia con cui giocano sempre, l’una visiva e l’altra sonora, emerge un ritratto familiare, estremamente personale, di una indissolubilità emozionante tra creato e immaginato, opera e memoria, il testo di una canzone e le orme lasciate sulla sabbia.

Matteo Paguri
Matteo Paguri, 10 settembre 1998. Vergine ma, ve ne prego, non chiedetemi l’ascendente perché non me lo ricordo: già troppe volte l’ho “calcolato”, “cercato” e già troppe volte me lo sono scordato. Profondo amante dell’astrologia, come si può dedurre. In realtà non amo troppo descrivermi, quindi che dire? Studio l’arte del cinema all’Università di Padova: in particolare frequento il corso di Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale. Laureato al DAMS di Bologna, il motto della mia vita è “sarà quel che sarà”.
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