Il primo ricordo che ho del concetto di meritocrazia è legato alla scuola: è da ormai decenni che si parla di sistema meritocratico all’interno dell’istituzione scolastica, e di conseguenza poi nel mondo del lavoro. Ci viene spesso insegnato che chi si applica di più, chi studia in modo più approfondito e chi è più bravo ha diritto ad avere voti più alti, posizioni lavorative migliori e stipendi più elevati. Anche il governo di Giorgia Meloni ha rivendicato l’uso di questa parola – e dei valori che racchiude – rinominando il Ministero dell’Istruzione, Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM). Ma siamo veramente convintə che il sistema funzioni così linearmente e soprattutto che debba essere costruito in questo modo?
Il termine meritocrazia, anche se può sembrare che sia sempre esistito, fu coniato nel 1956 dal sociologo Alan Fox, in un articolo per la rivista Socialist Commentary, al fine di spiegare i quattro indici di disuguaglianza e spiegarne la loro correlazione1. La parola fu poi usata in modo più celebre da Michael Young, sociologo e scrittore britannico, all’interno del suo romanzo distopico L’Avvento della meritocrazia: anche in questo caso, l’accezione del termine non era positiva. Nel suo libro, Young indicava una forma di governo distopica, caratterizzata da un’estrema disuguaglianza economica e sociale. Essenzialmente, la posizione sociale di ogni individuo era determinata dal suo quoziente intellettivo e dalla sua attitudine verso il lavoro. In Italia, il termine fu introdotto negli anni Settanta in riferimento alle valutazioni scolastiche, che avrebbero dovuto basarsi sul merito: si iniziò a premiare chi riusciva a distinguersi per impegno e per le proprie capacità dimostrate in interrogazioni e verifiche scritte2.

Con il tempo, il termine iniziò ad essere usato con un’accezione principalmente positiva: ancora oggi si fa fatica a riscontrare opinioni negative sulla meritocrazia e su tutto ciò che ne comporta, soprattutto il sistema di valori su cui si basa. La meritocrazia si basa sul ripudio del clientelismo, del nepotismo e delle raccomandazioni: l’idea è quella di favorire persone meritevoli e di promuovere un governo in cui le cariche pubbliche e le posizioni di maggior rilievo siano affidate a chi dimostri avere le necessarie capacità (e che quindi si meriti di avere ruoli importanti nella società). Questo sistema di valori non si applica solo alle grandi cariche di Stati o di multinazionali: nasce tutto dai primi anni scolastici e si ritrova in qualsiasi ambito lavorativo, non solamente per le posizioni più ambite. Si è appunto arrivati a pensare che equiparando il merito alla propria posizione sociale (e lavorativa), tutte le discriminazioni tipiche di ogni società possano essere eliminate. La narrativa della meritocrazia ci porta a credere di poter superare (o quanto meno, ridurre significativamente) in questo modo fenomeni come la discriminazione razziale, di genere, di nazionalità o il classismo.
A questo punto dovremmo chiederci tuttə: chi definisce il merito e su cosa si basa? Questo è il nodo che deve essere messo in discussione; possiamo accettare un sistema – e magari anche rivendicarlo – senza conoscerne le radici? Fu lo stesso Young a iniziare a portare a galla la pericolosità della retorica meritocratica. Il sociologo inglese sottolineò un punto fondamentale: vi è il rischio che le persone considerate meritevoli «si consolidino in una nuova classe sociale senza lasciare in essa spazio per altre persone»3 e quindi contribuire al fenomeno dell’immobilismo sociale, precludendo la possibilità di ascesa sociale ad altri individui. In questa retorica, il merito viene spesso associato alla competenza, ovvero all’essere capaci di svolgere una determinata attività (pratica o intellettuale) in modo adeguato e spesso anche meglio di altre persone. Possiamo però misurare la competenza di qualcuno? Ma soprattutto, i metodi con cui oggi noi misuriamo le competenze nostre e altrui sono valide? La valutazione del merito è alquanto arbitraria e spesso porta a discriminazioni, sia nel mondo del lavoro che nel sistema scolastico.
Michael Young criticò aspramente il sistema scolastico britannico, il quale si basava sul sistema tripartito: a studenti e studentesse, a seguito di un esame che «sostenevano intorno ai 10 anni, veniva loro assegnata la possibilità di frequentare una delle tre tipologie di scuole: ‘grammar’, ‘technical’ o ‘modern’»4. Tuttavia, il sistema non fece altro che rafforzare il potere socio-economico delle diverse classi sociali: gli studenti provenienti dalla borghesia e dalle classi sociali più ricche venivano indirizzati verso l’università (e quindi poi verso lavori più ‘intellettuali’) e quelli delle classi sociali più povere verso le scuole tecniche, e quindi poi verso i lavori manuali. Nel Regno Unito, questo tipo di sistema fu eliminato negli anni Settanta, ma rimase fortemente presente fino agli anni Novanta in Irlanda del Nord5. Questo tipo di approccio consolida un assioma pericoloso: il confronto tra gli studenti – e poi i futuri lavoratori – viene fatto presupponendo che tutti abbiano avuto le stesse possibilità e lo stesso capitale culturale, come teorizzato dal sociologo Pierre Bourdieu. Quest’ultimo definì il capitale culturale come tutte le risorse non economiche (come appunto l’istruzione e il modo di comportarsi) che sono utili a un individuo in una particolare sfera della vita sociale. Il problema, secondo il sociologo francese, è che non tuttə hanno accesso a tali risorse a causa della classe sociale di appartenenza: l’ineguale distribuzione del capitale culturale crea e reitera i confini tra classi sociali (e quindi anche tutti i privilegi che ne conseguono).

La meritocrazia premia quindi chi riesce, chi è capace: all’interno del sistema educativo gli studenti che “sono bravi” vengono premiati, mentre chi ha più difficoltà spesso viene lasciato indietro. Questo sistema valoriale non tiene conto delle disuguaglianze ‘acquisite’ che cui gli studenti devono affrontare: come sosteneva Bourdieu, «bambini e studenti che provengono da famiglie ricche, e soprattutto ricche in senso culturale, sono avvantaggiati»6. In questo modo, ciò che si ottiene è premiare chi è più agiato economicamente ed è stato esposto a certi tipi di ambienti sin da piccolo. Il ruolo della scuola non è quindi da sottovalutare: riesce a forgiare pesantemente chi si diventa da adulti e che posizione lavorativa si riesce a raggiungere. Come sottolineato in questo articolo dal Guardian, l’educazione superiore, quella universitaria, «è un grande stratificatore» sociale. Infatti, è stato provato che all’interno di diverse università statunitensi, considerate elitarie come Yale, Dartmouth, Penn e Brown, è presente una percentuale più alta di studenti appartenenti dall’1% della fascia della popolazione più ricca, rispetto agli studenti appartenenti al 60% più basso della distribuzione del reddito7. Secondo Daniel Markovits, professore di diritto all’Università di Yale, la meritocrazia è diventata «proprio quello che avrebbe dovuto combattere: un meccanismo di trasmissione dinastica della ricchezza e del privilegio attraverso le generazioni»8. Il tipo di università che frequentiamo, il prestigio collegato al titolo di studio che abbiamo e i contatti che stringiamo definiscono il modo in cui ci approcciamo al mondo del lavoro e come il mondo del lavoro stesso ci percepisce in quanto (futuri) lavoratori. Come sottolinea Louis Menard (critico e saggista statunitense) in un articolo per il New Yorker, ormai consideriamo vergognoso che qualcuno abbia trovato lavoro solamente perché i propri famigliari hanno dei collegamenti all’interno di una determinata azienda o settore: lo consideriamo come un atto di nepotismo, raccomandazione e soprattutto non meritocratico. Tuttavia, non ci sconvolgiamo allo stesso modo quando qualcuno riesce a trovare lavoro grazie alle proprie connessioni strette durante gli anni dell’università con i propri ex compagni di corso o attraverso i propri professori. Menard sostiene che «accettiamo che questi legami […] siano tra le cose che si ‘guadagnano’ entrando in un’università. È una delle ricompense per il merito»9.

Come sottolineato prima, Markovits descrive la meritocrazia come «un meccanismo di trasferimento della ricchezza da una generazione all’altra»10: il capitale culturale e quello economico vengono tramandati attraverso le linee genetiche e queste sono difficili da interrompere, soprattutto per chi parte svantaggiato. L’assunto della meritocrazia è quello del principio di uguaglianza, ma non di equità. L’uguaglianza non tiene conto del fatto che non tutti partono dagli stessi presupposti economici e soprattutto con gli stessi mezzi; l’equità, invece, cerca di mitigare (idealmente, porre fine) a questi squilibri in modo tale che tutti possano raggiungere un obiettivo con gli stessi mezzi. È ovviamente impensabile credere che per porre fine allo squilibrio economico e socioculturale che ne consegue basti qualche incentivo o politiche temporanee che ci danno l’illusione che qualcosa stia cambiando. Quello che serve veramente sono delle politiche strutturali che cambino effettivamente l’accesso all’educazione: che non vuol dire solo riuscire entrare in una determinata scuola o università, ma significa porre tutti nelle stesse condizioni per poter essere accettati da università ‘esclusive’ e poter sostenere i costi che ne conseguono. L’università è la punta dell’iceberg del sistema educativo, ma i problemi sono radicati sin dalla scuola dell’infanzia e di primo grado. Il professore di economia Robert H. Frank sottolinea come il successo di una persona non sia dovuto soltanto al merito e al talento, ma sia spesso legato a fattori accidentali, fortuna e squilibri socioeconomici che non vengono compensati adeguatamente.
Nel suo libro The Meritocracy Trap (2019), Markovits sottolinea un altro punto interessante. Se da un lato è abbastanza chiaro come la meritocrazia svantaggi chi ha meno, spesso non ci si accorge che essa porta svantaggi anche a chi ne beneficia. Secondo il professore di Yale, la meritocrazia «produce una disuguaglianza radicale, frena la mobilità sociale e rende tutti – compresi gli apparenti beneficiari – infelici»11. Chi beneficia della meritocrazia, secondo Markovits, è costantemente messo alla prova per riuscire a mantenere nel tempo lo status che ha raggiunto e dimostrare che – appunto – se lo merita. La meritocrazia tende ad allontanare la classe media da determinate posizioni e incrementa la disuguaglianza sociale: allo stesso tempo, «l’ideologia meritocratica convince la classe media che questa situazione sia colpa loro»12. La vita delle élite è invece caratterizzata da un’incessante competizione, causata dalle stesse logiche meritocratiche che colpiscono più duramente le classi sociali più povere. Markovits sostiene che «le élite sono intrappolate in una competizione infinita che non solo consuma la loro vita quantitativamente, ma anche qualitativamente, senza lasciare spazio all’espressione di sé, all’emancipazione o alla scoperta, ma solo all’auto-sfruttamento, all’accumulo di valore e a infinita ansia»13.
Anche se la selezione meritocratica e i valori che racchiude ci sembrano essere una buona soluzione rispetto a clientelismo, nepotismo e discriminazione, le differenze socioeconomiche sono ancora fortemente caratterizzanti in diversi ambiti. La retorica egualitaria e “giusta” della meritocrazia non ha fatto altro che rafforzare i legami di potere e ha solamente radicato ancora di più le disuguaglianze socioeconomiche invece che contestarle e cercare di eradicarle. «La meritocrazia non è la soluzione alla crescente disuguaglianza ma piuttosto la sua radice. La lotta contro l’ingiustizia richiede di resistere alla visione meritocratica stessa»14.
Note
- I quattro indici indicati da Fox erano reddito, patrimonio, lavoro ed educazione. A. Fox, Class and Equality in “Socialist Commentary”, maggio 1956.
- Termine “Meritocrazia” in Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/meritocrazia/. Consultato il 2 luglio 2024.
- Il Post, Perché il concetto di meritocrazia è controverso in “Il Post”, 2022, https://www.ilpost.it/2022/10/25/merito-meritocrazia/. Consultato il 2 luglio 2024.
- V. Pelligra, Quando una distopia diventa un’utopia: il mito della “meritocrazia” che produce il suo opposto, in “Il Sole 24 Ore”, 2020, https://amp24.ilsole24ore.com/pagina/ADnefTn. Consultato il 2 luglio 2024.
- Ibid.
- A. Ballelli, La meritocrazia a scuola comporta problemi, in primis le disuguaglianze di partenza, in “Il Fatto Quotidiano”, 2022, https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/10/26/la-meritocrazia-a-scuola-comporta-problemi-in-primis-le-disuguaglianze-di-partenza/6852075/amp/. Consultato il 3 luglio 2024.
- K. A. Appiah, The myth of meritocracy: who really gets what they deserve?, in “The Guardian”, 2018, https://www.theguardian.com/news/2018/oct/19/the-myth-of-meritocracy-who-really-gets-what-they-deserve. Consultato il 3 luglio 2024. [TdA]
- Ibid. [TdA]
- L. Menard, Is meritocracy making everyone miserable?, in “The New Yorker”, 2019, https://www.newyorker.com/magazine/2019/09/30/is-meritocracy-making-everyone-miserable. Consultato il 4 luglio 2024. [TdA]
- S. Illing, How meritocracy harms everyone – even the winners, in “Vox”, 2019. https://www.vox.com/identities/2019/10/21/20897021/meritocracy-economic-mobility-daniel-markovits. Consultato il 4 luglio 2024. [TdA]
- R. Karma, “The Meritocracy Trap”, explained, in “Vox”, 2019, https://www.vox.com/policy-and-politics/2019/10/24/20919030/meritocracy-book-daniel-markovits-inequality-rich. Consultato il 4 luglio 2024. [TdA]
- Ibid. [TdA]
- Ibid. [TdA]
- D. Markovits, The Meritocracy Trap, Penguin Publishing Group, 2020.

di Bianca Beretta
Nata a Milano nella torrida estate del 2003 e cresciuta a cubotti della Stockmar e bilinguismo. Ora studio International Politics, Law and Economics all’Università degli Studi di Milano. Ho iniziato a scrivere sul diario segreto alle elementari e ora mi occupo di attualità e (geo)politica. Tra un articolo e l’altro scatto foto e ogni tanto mi ricordo di andare a canottaggio.