C’era una volta Maria, che arrivò nella mia scuola quando frequentavo la terza o quarta elementare. Non so dire che tipo di bambina fosse, non credo di averci mai parlato più di tanto, dal momento che ci trovavamo in due classi diverse; non la ricordo come un’amica d’infanzia, ho un’immagine sfocata del suo viso di allora. Eppure, mi rendo conto di sapere troppe cose su di lei, per essere una semplice sconosciuta.
Maria veniva dalla terra delle aquile, l’Albania. Dopo il divorzio dei genitori, aveva vissuto con il nonno materno fino alla sua morte. Le informazioni che, nel corso degli anni, ho captato dalle chiacchiere tra adulti (familiari o amici di famiglia, mai i diretti interessati) sono molto frammentate, talvolta incerte, motivo per il quale non sono matematicamente sicura di conoscere la storia di Maria prima di trasferirsi in Italia. So che il nuovo marito della madre non l’aveva voluta, il che, per quanto crudele, mi sembra abbastanza plausibile: perché far emigrare una bambina di otto/nove anni, altrimenti, se aveva già un posto dove stare? Così, Maria si era stabilita dal padre, anche lui risposato e con figli, e a cavallo tra la fine delle elementari e l’inizio delle medie si trasferì nel mio quartiere.
Da questo momento in poi è come se nella mia memoria ci fosse un buco, perché ricordo la sua famiglia, ma non lei. Ricordo i fratellini che giravano in bicicletta e la sua matrigna, con un’espressione perennemente scocciata sul viso; preferisco non riportare quel poco che ho sentito sul suo conto perché non era lusinghiero e, oltretutto, la loro situazione familiare era complicata. Penso che questa donna fosse a sua volta prigioniera di qualcosa, per quanto non sappia di cosa. Al netto dei misteri, però, il suo rapporto con Maria non era affatto buono, non la trattava come gli altri figli, questo è ciò che più spesso ho colto dalle conversazioni che ho ascoltato.
Non ricordo di aver mai visto Maria alla fermata dell’autobus, durante le superiori. Nel mio paesino ce ne sono due opposte in base alla città dove i ragazzini studiano, quindi potrei non essermi accorta che lei era lì. È come se, più che una persona, fosse diventata un argomento di cui sentivo parlare ogni tanto, un segreto che conoscevo, sebbene non mi appartenesse. Vorrei che la mia memoria fosse più limpida, anche solo per dire che saliva alla fermata dall’altro lato della strada, ma di quegli anni tutto ciò che ricordo di lei sono gli stralci di un’altra conversazione, in particolare una frase che mi è rimasta impressa:
«Si sarà stufata di occuparsi dei figli di un’altra e avrà preferito farsi una famiglia tutta sua»
Magari, dopo le medie, Maria ha frequentato una scuola professionale e ha preso il diploma nel giro di tre o quattro anni, anziché cinque. Magari il patrigno ha cambiato idea e lei è tornata dalla madre. Quello che so per certo è che Maria si è sposata, con tanto di filmato del ballo padre-figlia. Avevo diciassette anni quando ho visto il video, ma forse lei era già maggiorenne. Chissà, magari alle elementari l’avevano inserita nel mio anno perché non parlava bene l’italiano, non perché avesse la mia età. Non ho una data di compleanno a cui fare riferimento, solo pettegolezzi sussurrati che mi hanno confermato una cosa: questa storia è profondamente ingiusta.

L’indignazione è la prima cosa che provo, quando ci ripenso. Sapere che lo sposo non è un pedofilo trent’anni più vecchio non è di gran consolazione, visto che, con tutta probabilità, si è trattato di un matrimonio combinato che Maria potrebbe aver accettato per scappare dalla propria famiglia, sempre che non sia stata costretta. Mi riesce difficile credere che una diciassettenne (o diciottenne) possa volere questo dalla vita, a meno che l’alternativa non sia fare la bambinaia gratis per la matrigna. Per quello che ne so, Maria potrebbe aver pensato di non avere altro dovere se non quello di sposarsi e procreare, è improbabile che qualcuno le abbia detto (o dimostrato) che poteva scegliere liberamente cosa fare di se stessa e levarsi i panni di Cenerentola al quadrato che tutti, dai familiari più stretti ai pettegoli, le avevano cucito addosso.
C’è un’altra sensazione che avverto, però: una specie di pelle d’oca interiore, come se per un centimetro avessi schivato un incidente mortale.
Anche la mia famiglia è emigrata dall’Albania. A differenza di Maria, io sono nata qua e ho avuto pochi, sporadici contatti con il Paese d’origine dei miei genitori, forse perché la maggior parte dei miei parenti si è trasferita in Italia (o altrove) e l’albanese rimane una specie di lingua franca al bisogno, che non padroneggio granché ma fa di me un mezzo agente segreto quando sento delle persone che lo parlano in strada o in treno; è uno degli aspetti divertenti dell’essere un’italiana di seconda generazione, ma questa è un’altra storia. È un bagaglio culturale ereditato ma quasi incolto, forse anche perché i miei genitori sono stati degli immigrati sui generis che non rispecchiavano lo stereotipo che molti avevano all’inizio degli anni Duemila degli albanesi, ossia di rozzi delinquenti con la Mercedes e un italiano zoppicante. Tra gli immigrati, invece, c’erano (e ci sono ancora adesso) molte persone diplomate e laureate: mia madre non si stanca mai di ripetermi che la scuola era obbligatoria fino ai diciotto anni. Non tutti hanno allevato i propri figli all’ombra dell’aquila bicefala, lamentando la nostalgia per un Paese nascosto tra le ceneri di una dittatura, e i miei genitori sono stati piuttosto onesti sulla loro vita prima di venire in Italia, senza edulcorare nulla, e hanno mantenuto un atteggiamento critico, anche se talvolta ambiguo, Non è così scontato continuare ad avere un attaccamento per un Paese ormai defunto, e ancor meno per quello che ha preso il suo posto dagli anni ’90 in poi. Tutto questo ha fatto di me un’osservatrice più esterna che interna.
Molti sanno che, pur essendo la maggioranza della popolazione musulmana, l’Albania è un Paese ufficialmente laico. Qualcuno sostiene che non esistano rivalità tra confessioni e tutti i cittadini siano uguali; è un’affermazione che, personalmente, prenderei con le pinze alla luce dei racconti della mia famiglia, ma non necessariamente falsa; forse solo un po’ superficiale. Quarant’anni di comunismo aconfessionale non hanno, però, livellato il divario economico, sociale e culturale tra gli abitanti delle zone urbane e quelli delle zone rurali. Basta uscire dal fermento di Tirana o Durazzo e dirigersi verso l’entroterra per addentrarsi in un mondo diverso, in una mentalità molto più ristretta, talvolta retrograda per quanto riguarda l’istruzione e il ruolo della donna nella società. Nelle comunità più isolate esistono ancora adesso casi di matrimoni combinati dove la sposa è quasi sempre una minorenne promessa, tra le tante ragioni per preservare l’onore della famiglia o smettere di pesare sull’economia domestica. Non è una visione del mondo limitata a questo lato dell’Adriatico, né può cambiare soltanto con l’emigrazione. Di storie simili a quella di Maria continuano ad essercene tante, ben nascoste per non suscitare vespai legali in Italia o in Albania, e i primi a reggere questo velo infame sono coloro che bisbigliano, commentano, si impietosiscono, ma non denunciano.
Fino a una decina di anni fa, cioè quando ho ottenuto la cittadinanza, io e Maria eravamo quasi identiche sulla carta. L’italiano medio non avrebbe fatto molto caso al luogo di nascita, ci avrebbe classificate come semplici connazionali e avrebbe dato per scontato che vivessimo in due famiglie simili. È questa apparente vicinanza a farmi raggelare perché, se non avessi vinto la mia famiglia alla lotteria della vita, al posto di Maria avrei potuto esserci io. Nutrire questa consapevolezza è terrificante, come se fossi sopravvissuta a qualcosa che neppure ho vissuto. Se mia madre, a diciassette anni, fosse venuta a dirmi che presto mi sarei sposata, avrei avuto più di un brivido lungo la schiena.
Ovviamente, quello di Maria è un nome fittizio, per darle almeno una briciola del rispetto che nessuna delle persone intorno a lei ha avuto nei suoi confronti
di Joanna Dema
Illustrazioni di Maria Traversa
“L’altra faccia della Luna” è la nuova rubrica de L’Eclisse, una rubrica personale, in cui vogliamo mettere a nudo le ansie e la vita quotidiana di noi giovani.