Dal 19 al 27 settembre a Milano si è svolto Le vie del cinema, la rassegna cinematografica annuale organizzata da AGIS Lombardia, che ha portato nelle sale una selezione di film provenienti dai grandi festival internazionali. Ringraziamo AGIS Lombardia per l'accesso stampa alla proiezione di seguito recensita.
Al parco, una bambina di circa uno, due anni ride in braccio alla mamma, mentre gioca con il papà. A riprenderla è la nonna, che vuole postare il video sui social. “No, sarà la piccola Bo a decidere, quando sarà più grande, se vuole che la sua immagine finisca in rete”, dice la mamma.
Inizia così Stranger Eyes di Yeo Siew Hua, presentato a Venezia quest’autunno e ambientato nella Singapore contemporanea. Subito scopriamo che non siamo solo noi a guardare questo tenero film di famiglia, ma anche la mamma della piccola Bo, qualche anno dopo. “La polizia ci ha detto di esaminare tutti i video per vedere se notiamo qualcosa di strano”, dice la donna al marito, che le chiede cosa stia facendo. La piccola Bo, infatti, è scomparsa, e i genitori e la nonna (che convivono tutti in un appartamento di uno degli innumerevoli grattacieli ad uso abitativo di Singapore, stipati gli uni contro gli altri tanto da riuscire a veder agilmente i vicini di fronte) la stanno cercando ormai da mesi. Quella sera stessa, un uomo misterioso slitta sotto la porta di casa un DVD, contenente una ripresa della piccola Bo e del padre in un supermercato, tempo prima.
Con una premessa narrativa che ricorda da vicinissimo sia La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock (Rear Window, 1954), ma anche L’occhio che uccide (Peeping Tom, 1960) di Michael Powell e soprattutto Strade perdute (Lost Highway, 1997) di David Lynch, Stranger Eyes non perde tempo nell’esporre il tema che gli interessa trattare: il moltiplicarsi ormai incontrollabile della nostra immagine. I personaggi si guardano, si spiano, si filmano costantemente: dalla finestra, col binocolo, con i cellulari, sui social (Instagram, Twitch), con i supporti tradizionali, come i DVD, e con le nuove tecnologie. Ma c’è un occhio che veglia su tutti loro, su tutti noi, come quello del Grande Fratello del capolavoro di George Orwell, 1984: lo Stato.
Le telecamere di sicurezza sono una presenza costante e sempre più palesata del film, e la polizia, costantemente connessa alle innumerevoli CCTV della città, una forza sempre più inquietante, inizialmente bonaria nei confronti dei genitori sconvolti, ma che finisce per incastrare un uomo proprio grazie all’esercizio di una sorveglianza costante. “Se osservi abbastanza un uomo, diventerà per forza colpevole”, dice il commissario al padre della piccola Bo.
Da un certo punto di vista, Stranger Eyes sembra condividere questa posizione, evidenziando sin da subito la doppiezza di tutti i personaggi, in particolare quello del padre – tema, anche questo, molto vicino alla poetica lynchiana. Tuttavia, il capitolo finale (in realtà abbastanza superfluo e mal legato al resto del film) sembrerebbe proporre anche l’opzione opposta, ovvero che anche i reietti della società possono, a guardarli bene, avere dei lati redimenti.
Il tema del capitalismo della sorveglianza, riprendendo il titolo del saggio del 2019 di Shoshana Zuboff, è ovviamente molto sentito a Singapore, che su un’area di 700 mila km2 ha all’incirca 90mila telecamere di sicurezza funzionanti e conta di aumentare la cifra a più di 200mila entro il 2030, ma anche e soprattutto nella vicina Cina, la nazione con più telecamere per kilometro quadrato al mondo (200 milioni). Yeo Siew Hua lo sviluppa bene, con un lavoro visivo molto interessante in cui tutto è film, tutto è video, tutto è immagine moltiplicata: lavoro che tira in causa, ovviamente, lo spettatore stesso, anch’egli complice della scopofilia collettiva della nostra società. Gli altri argomenti e scarti narrativi, purtroppo, non sono trattati con altrettanta cura, e dopo la prima ora il film perché rapidamente focus, inanellando una serie di relazioni incrociate che lo trasformano in un mélo poco digeribile.
Gli ultimi venti minuti risultano davvero indigesti, soprattutto per via dell’introduzione di un personaggio totalmente nuovo, il cui arco narrativo serve più che altro per mostrare un’evoluzione psicologica del padre di Bo sbrigativa e davvero poco convincente (nonché per raddoppiare la dose su un ennesimo tema che il film vorrebbe trattare, ovvero il rapporto genitori-figli e in particolare madre-figlio). Peccato, perché Stranger Eyes, con un po’ di editing in fase di sceneggiatura e più parsimonia negli spunti di riflessione lanciati allo spettatore, avrebbe potuto essere un thriller dai risvolti politici davvero interessante, lucido e in diretta conversazione con la storia e il mezzo stesso del cinema, supportato inoltre da giovani interpreti (uno su tutti Wu Chien-Ho, che interpreta il padre) estremamente competenti.
Un terzo lungometraggio, per il trentanovenne Yeo, un po’ pasticciato, ma che mostra sicuramente uno sguardo acuto sul contemporaneo e un’esuberanza promettente, ma da limare.
Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo – ha madre ligure e padre francese – e per L’Eclisse fa l’uccello del malaugurio. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha due gatti e molti dubbi.