Nel 2004, alla sessantunesima Mostra del cinema di Venezia, Hayao Miyazaki presenta il suo nono lungometraggio, Il castello errante di Howl. Nei dodici mesi successivi, il film fa incetta di premi e candidature, rappresentando così l’ultimo gradino verso la consacrazione internazionale del regista giapponese, iniziata nel 2003 con la vittoria agli Oscar de La città incantata. Il successo di pubblico (235 milioni di dollari al botteghino) e critica consente a Il castello errante di Howl di entrare nella rosa dei migliori film dello Studio Ghibli e ritagliarsi uno spazio ben definito nel cuore dei più appassionati, che due decenni e mille innovazioni tecnologiche più tardi continuano a pubblicare fan art e meme dedicati ai protagonisti del film. I veri fan, però, sanno bene che dietro i magnifici disegni di Miyazaki c’è un’altra storia: quella su carta stampata.
Torniamo indietro nel tempo.
A metà degli anni ’80, Diana Wynne Jones si sta affermando come autrice nell’ambiente letterario fantasy britannico. Ha pubblicato i primi libri di una saga letteraria, quella di Chrestomanci, e mentre scrive gira le scuole, incontrando i suoi giovani lettori. Proprio uno di loro le dà l’ispirazione per un nuovo romanzo, chiedendole di intitolarlo “The moving castle”, letteralmente ‘Il castello mobile’ (ma ci penserà la traduzione italiana ad aggiustarlo un po’). «Mi ero presa un appunto con il nome di quel ragazzo», racconta Jones nella prefazione del libro, pubblicato nel 1986, «poi l’ho messo in un posto sicuro. Ma il posto era troppo sicuro, tanto che non sono più riuscita a ritrovare quell’appunto.»1 Un episodio perfettamente adatto all’avventura dai toni comici e scanzonati delle pagine a seguire.
La trama
La giovane Sophie Hatter è la prima delle tre figlie di un cappellaio e sua moglie, ormai morti. Il suo destino, in quanto primogenita, sarà quello di farsi carico della bottega ereditata dai genitori e pensare al futuro delle sorelle Lettie e Martha. Un bel peso per una diciottenne senza particolari talenti, né prospettive; così si sente Sophie, una creatura insipida a cui nessuno presterebbe attenzione, nemmeno Howl, mago dalla sinistra fama di mangiatore di cuori. No, non un passionale sciupafemmine: secondo le voci, infatti, Howl ghermisce il cuore delle fanciulle sedotte, per poi farne non si sa bene cosa. Quando Sophie, suo malgrado, riesce ad attirare lo sguardo malefico della Strega delle Terre Desolate e viene da essa trasformata in una vecchia decrepita, il suo cammino incrocia quello del mago e di tutti gli strambi personaggi del suo mondo. Vedremo Sophie diventare la donna delle pulizie del tenebroso castello, in realtà un’accozzaglia di polverosissime stanze tenuta insieme dalla magia di Calcifer, il demone con cui Howl ha stretto un patto anni or sono. Per spezzare la maledizione della Strega, la ragazza dovrà sciogliere tale patto.
Dall’ironia alla poesia
La prima parte del film è quasi identica alla sinossi del libro. I cambiamenti sono pochi, anche se non necessariamente trascurabili; se poco importa dei capelli di Sophie, che da rossicci dorati diventano castani, o dell’aspetto della strega, che da bellissima maliarda si trasforma in un donnone di proporzioni irreali, è più evidente l’eliminazione di un personaggio, quello di Martha, che viene inglobato da Lettie e sostanzialmente confinato in una delle prime sequenze del film. È un taglio abbastanza strutturale, perché comporta quello di due trame secondarie nel romanzo, eppure più che giustificabile: Il castello errante di Howl, infatti, è un intreccio continuo di personaggi altrettanto erranti, sempre in movimento, il che contribuisce a renderlo una storia dinamica ma molto difficile da riadattare in due ore di girato. La sceneggiatura di Miyazaki decide, perciò, di prendere alcuni temi e caratteristiche dell’opera originale, per poi costruirne una completamente nuova. E ci riesce.
Il regista mantiene la caratterizzazione di base dei personaggi e alcuni elementi di scena. Sophie è una fanciulla intelligente ma insicura, Howl un casanova in fuga dalla Strega (e dal governo) e Calcifer un prigioniero dotato di fantastici poteri che controllano il castello e una porta che si apre su un luogo o una città diversa, a seconda che cambi il colore di un disco sopra lo stipite. Il giovane apprendista di Howl, Michael, qui diventa un bambino di nome Markl, ma resta comunque fedele al proprio ruolo di supporto, quello di svelare il lato più umano del mago allergico alle responsabilità. Miyazaki sceglie poi di sostituire i dialoghi ironici del romanzo con la meraviglia delle immagini: nasce così, ad esempio, la celeberrima scena della piazza in festa, sopra la quale Howl e Sophie camminano e, allo stesso tempo, levitano. Un momento di puro romanticismo, quasi fiabesco, che si distacca completamente dall’atmosfera descritta nel libro. Chi conosce i film dello Studio Ghibli sa quanta poesia trasmettano i paesaggi, che siano pianure sconfinate o città variopinte, e Il castello errante è un perfetto esercizio di stile per gli animatori: la verde brughiera su cui si staglia la figura nera e irregolare del castello, i palazzi della capitale dove Sophie si reca per conto di Howl, il fuoco della battaglia tra mostriciattoli deformi e velivoli steampunk e il campo di stelle cadenti. Questi ultimi due punti fanno parte del lavoro di adattamento e stravolgimento della trama.

Miyazaki approfondisce un episodio secondario della storia di partenza: il regno di Ingary-dove si svolgono le vicende dei nostri eroi-, è sul piede di guerra e il re richiede l’intervento di tutti i maghi, incluso Howl e i suoi numerosi alter ego. Se nel romanzo c’è un sapiente gioco di diplomazia unita a qualche incantesimo, nel film il conflitto è già in corso, e la Strega, in origine nemica della corona, viene chiamata a corte per rendere i propri servigi, salvo poi essere privata dei propri poteri e diventare una vecchietta dall’aria innocente. La sceneggiatura sacrifica gli intrighi di palazzo per focalizzarsi su figure e temi che stanno particolarmente a cuore al regista: lo vediamo negli aerei, nei dirigibili dalle forme strane che gettano bombe e demoni senz’anima su città sconosciute. Non è importante sapere chi combatte contro chi, quello che i fotogrammi vogliono dirci è che la guerra uccide sempre qualcosa, che siano i vinti o l’umanità di chi ne esce vincitore. È un argomento già affrontato da Miyazaki in Nausicaä della Valle del Vento (1984), Laputa – Castello nel cielo (1986) e Principessa Mononoke (1997), che però assume un significato ancora più profondo dopo gli Oscar 2003, ai quali il regista non presenzia per protesta contro la guerra in Iraq.

Il campo di stelle cadenti, invece, è legato alla seconda parte del film, che differisce completamente dal libro, dove scopriamo che Howl è gallese e ha persino una sorella e dei nipoti. Inizia un continuo viavai tra il nostro mondo e quello di Ingary; mentre Sophie nega a se stessa di provare qualcosa per il mago, questi viene infine raggiunto dalla maledizione della Strega e progetta nuovi modi per sfuggirle. Nell’adattamento, Howl, più pacifista che codardo, cerca di rompere il giuramento che lo costringe a servire gli scopi bellici del governo, finché non viene colpito il suo punto debole, cioè Sophie e la sgangherata famiglia composta da Markl, Calcifer e la Strega. A quel punto, è la nostra protagonista, ormai innamorata del mago, a correre per salvarlo, aprendo la porta sulla sezione nera del disco: anziché “entrare” nel Galles, la ragazza si ritrova nel passato di Howl, precisamente alla notte in cui venne stretto il patto con Calcifer. In un certo senso, questo viaggio nel tempo descrive, in maniera molto elaborata (e non di facile comprensione), un viaggio interiore: Sophie inizia finalmente a credere in se stessa, Howl trova il coraggio di ammettere le proprie vulnerabilità e affrontarle. Qui l’opera di Miyazaki si ricongiunge all’idea originale di Jones.

Non un duello, ma un punto di vista

Il castello errante di Howl è uno di quei pochi film che riesce a reggere il confronto con il romanzo da cui è tratto, nonostante trama e temi portanti vengano praticamente rimaneggiati. La stessa Diana Wynne Jones, poco prima dell’uscita nelle sale, esprime entusiasmo per questo adattamento, soprattutto per la resa [5] del castello, che non “cammina” più ma fluttua. Chi conosce la filmografia dello Studio Ghibli sa che i suoi registi non sono nuovi a questi cambiamenti, anzi, non mantengono quasi mai la struttura narrativa di partenza, bensì estraggono da essa i temi a loro più cari. Miyazaki trova terreno fertile per donarci l’avventura di una ragazza alla ricerca della propria identità, di un posto nel mondo per quanto esso sia complicato, talvolta stupidamente violento, dove non esiste davvero una linea netta tra buoni e cattivi, ma solo infinite sfaccettature umane. Ed è forse per questo che la Strega delle Terre Desolate viene infine redenta, dopo aver pagato il prezzo delle sue malefatte, anziché cadere vittima della propria sete di potere come avviene nel libro. Sophie esce di casa e scopre la vita, fatta di paura e incanto, e cresce più nelle settimane trascorse nel castello che non durante i suoi primi diciott’anni. I suoi capelli, rimasti corti e bianchi una volta spezzato il maleficio, sono lo specchio della maturità raggiunta dal suo personaggio. Lo sviluppo di Howl è più difficile da cogliere a una prima visione, per contro, e forse accusa un po’ la riduzione delle battute ironiche, suo punto forte nel romanzo. Anche se c’è chi ha comicamente notato che libro e film potrebbero tranquillamente essere due modi di raccontare la stessa storia, in base al narratore.
- Diana Wynne Jones, Il castello errante di Howl, trad. di Daniela Ventura, Bologna, Kappalab, 2013

Joanna Dema
Sono Joanna, senz’“acca” e con la “i lunga” di Just Dance. Non sono molto brava a parlare di me seriamente, preferisco che lo facciano gli altri. Dovrei avere più di vent’anni, ma ho iniziato a contarli al contrario perché la gente non me ne dà più di quindici, che a quaranta è una bella cosa. Si spera di arrivarci, apocalisse permettendo. Spero anche di finire la magistrale in Traduzione prima che sia lei a finire me, ma ride bene chi ride ultimo…
Non fiori, ma cioccolatini (a un primo appuntamento).