Recensione del libro Piccola storia grande di Marion Fayolle
Non può che essere un potentissimo concetto di Franco Battiato, tratto dalla canzone Aria di Rivoluzione, a dare titolo a questa recensione. Inutile specificare, quando si parla di arte in senso lato, che lo scorrere del tempo e le sue conseguenze siano due tra i temi sempreverdi che più ispirano la creatività deglə autorə. Ognunə di loro ha sempre provato a esprimere questo mistero della natura in maniera quanto più unica possibile, ma le affinità e i punti di congiunzione sono inevitabilmente molteplici. Così, alla stessa maniera, anche tra Battiato e Fayolle.
Prima di tutto, che cos’è Piccola storia grande? Sarebbe scontato, e forse anche banale, dire che è una storia sia piccola che grande, ma è un’informazione che non può essere tralasciata. Questo perché, connettendosi al titolo e all’introduzione, si tratta di un libro di piccole dimensioni, il quale però cerca di narrare con una sineddoche, rappresentata dalla famiglia protagonista, tutta l’impotenza della specie umana dinanzi alla fugacità del tempo. Un’incombenza, se si vuole, con la quale siamo in realtà costrettə a combattere tutti i giorni anche noi. Una battaglia latente e spesso anche impercettibile, che però siamo destinatə a perdere e che mostra i suoi effetti quando meno ce lo aspettiamo, magari in maniera pesantissima. Meglio andare con ordine, però.
La storia gira intorno a una numerosa famiglia i cui membri si prendono cura di una fattoria dispersa in un’area boschiva e molto isolata. Gli avvenimenti riguardano, anche in maniera indiretta, tutte le persone che vivono in questa tenuta, dai più piccoli ai più grandi, dai bambini agli anziani. Un dettaglio tutt’altro che indifferente, se ci si pensa, in quanto offre tantissimi punti di vista e, conseguentemente, approcci molto diversi, se non addirittura anteposti tra loro, per risolvere i problemi che puntualmente si presentano. Benché le digressioni siano numerosissime, la storia parte di pari passo con la nascita di una bambina, denominata “Ragazzina”, che sarà tra lə principali artefici degli episodi del libro. Non è tutto: prima ancora dei suoi natali, vengono raccontati la nascita e i primi giorni di vita di un piccolo vitello, insieme al comportamento della madre che sembra rigettarlo per motivi apparentemente ignoti. Ancora una volta, quella che sarebbe potuta sembrare una “semplice” scelta stilistica nasconde in sé un significato molto più profondo: la fattoria in questione non esiste e men che meno sopravvive grazie alle persone che la abitano, bensì grazie agli animali.
Gli animali, forse, potrebbero vivere in natura senza gli uomini che li custodiscono, mentre la famiglia non potrebbe mai sopravvivere in quel luogo senza il bestiame che manda avanti la loro economia. Man mano che passa il tempo, iniziano a farsi presenti in maniera sempre più preponderante i dilemmi che avvolgono l’intimità di ogni persona. La condivisione degli spazi domestici rende impossibile nascondere le proprie turbe aglə altrə e l’esposizione forzata dei lati più oscuri di se stessə non può che portare ai più disparati disappunti. Da un lato, i bambini che non comprendono, ma che al contempo non giudicano nella loro innocenza; dall’altro, gli anziani che non riescono ad accettare i drammi che caratterizzano i loro parenti. Inoltre, la continua “prigionia” in una simile località sembra non aiutarlə, dividendo lə presenti in fazioni abbastanza definite sulla base della loro opinione verso la fattoria. Gli anni trascorrono inevitabilmente per tuttə, trascinando insieme a sé tante avventure e disavventure: conoscenze, amori, litigi, amicizie, frequentazioni sbagliate, morte, etc.
Provando a fare una riflessione più profonda, secondo chi scrive, l’elemento più importante del racconto è la sua autenticità, che si manifesta con dettagli realistici e consueti. Chiaramente, per persone che vivono quasi sempre in aree fortemente urbanizzate e industrializzate, può sembrare molto complesso immedesimarsi in mansioni così diverse rispetto alla propria quotidianità. La vita e il lavoro insieme e in funzione degli animali, in base alle loro decisioni e volontà, appaiono complessissimi. Al contempo, il totale o quasi isolamento dal resto del mondo, che porta lə protagonistə a essere costantemente “nascosti” in mezzo agli alberi di un pendio, può essere un’idea opprimente per moltə. Inoltre, facendo riferimento al titolo originale francese, Du même bois [“dallo stesso legno”, NdR], lavorare la legna e, in generale, il contatto con la natura possono essere molto stancanti. Ciononostante, le succitate turbe emotive sono spesso le medesime per tuttə noi, magari con accezioni legittimamente differenti, e questo ci accomuna a prescindere dalla vita che conduciamo, permettendoci di immedesimarci meglio nell’essenza dei personaggi e nella loro intimità. Ed è proprio qui che si dimostra la veridicità del titolo francese: siamo compostə dallo stesso legno, dalla stessa pasta, dalla stessa sostanza. Tuttə viviamo amori, amicizie, rapporti che ci piacciono e rapporti che non ci piacciono. Relazioni, amorose o meno che siano, che possono portarci sulla buona o sulla cattiva strada, con lə più grandi che cercano di aprire gli occhi allə più piccolə, quando ancora questə non sono prontə e/o maturə per farlo, nella speranza che le conseguenze siano quanto più leggere possibili. In un certo senso, pur con tutte le differenze che l’individualità giustamente costruisce, viviamo tuttə la stessa vita e ci poniamo tuttə le stesse domande. L’immagine della famiglia è un atomo della grande molecola che è l’umanità. I sentimenti, positivi e negativi, sono sempre uguali. Gioia, tristezza, ingiustizia e il conseguente rancore. L’egoismo, non necessariamente materialista, non cambia tra i personaggi del libro e una persona presa casualmente dal resto del genere umano. Nel racconto, ne è un esempio molto evidente, e forse anche un po’ estremo, la nonnina che prova un rancore fortissimo verso il fratello del nonnino che muore improvvisamente durante il funerale di quest’ultimo, rubandogli la “scena”.
Si deve dare atto sia all’autrice (anche illustratrice nella vita, non a caso) che alla traduttrice Francesca Bononi per aver rappresentato i capitoletti con estrema poeticità, dandone un’immagine tra il grottesco e il tragicomico, mantenuto intatto nella traduzione. Il proverbiale zio solo e ubriacone, che non si sente compreso e che, nei deliri dovuti al consumo di alcol, si ritiene corrisposto soltanto da una fagiana che lo guarda senza proferire parola (ovviamente), è uno dei passaggi in cui questo tocco quasi comico si fa sentire più pesantemente, in senso buono.
Dopodiché, tornando finalmente a quanto esplicato all’inizio dell’articolo, «passa il tempo, sembra che non cambi niente». Lo svoltare delle pagine e dei suoi personaggi sembra non modificare nulla nell’assetto della vita quotidiana della famiglia in questione. Le attività, i princìpi, le idee, le intenzioni: sostanzialmente tutto resta pressoché invariato. Certo, gli approcci alla vita risentono dei progressi che la modernità dilagante produce, ma gli effetti sono inevitabilmente limitati in quanto questa non solo appare, ma si trova molto lontana, in quelle città di tanto in tanto menzionate, come apparati viventi a sé stanti, come mondi alieni con i quali si intrattengono sporadici e malvoluti contatti. Così, anche la seconda generazione del racconto resta inesorabilmente a servire la propria economia e i propri animali, che sono ormai un punto fermo, se non proprio il fulcro attorno cui ruota la fattoria, come se fosse una sorta di simulacro intoccabile e da venerare.
Nessuno dellə più anzianə, infatti, avrebbe mai pensato di poter vendere le bestie o, addirittura, abbandonare la propria casa, nemmeno con la prospettiva concreta di una vita molto più agiata. Quando questo accade, con la generazione più vecchia ormai dimezzata per ragioni biologico-anagrafiche, non solo ci si sente sollevatə al pensiero di chi non può vedere quel sacrilegio, ma addirittura si invidia un po’ chi è già passatə a miglior vita per averlo scampato. Il simulacro, difatti, è destinato a trasformarsi in una reliquia. La generazione più giovane sente molto più fortemente il fascino di ciò che è nuovo e che viene da lontano. Abbandona la fattoria quando ormai la vita può offrire loro molto altro, lasciando da solə lə loro parenti più anzianə e ponendo il punto finale alla storica attività di famiglia. Pur trattandosi di una scelta indubbiamente legittima, viene vissuta come un tradimento che solo i genitori sono disposti a perdonare, ponendo un intero ramo familiare a guardarsi in cagnesco a vicenda.
Tra questə giovani, c’è solo una persona che sarebbe stata disposta a rilevare il tutto, ma che ha dovuto desistere per vari motivi: la Ragazzina. Cresciuta, invecchiata e diventata madre di un bambino vivace e curioso, che soffre molto la mancanza del nonno, è rimasta “ragazzina” per tutta la vita, così come era nata. Non ha mai perso, infatti, il suo carattere e gli ideali che l’avevano guidata per tutte le sue (dis)avventure. Non ha perso quel piglio caratterialmente forte che aveva mostrato già poco dopo essere uscita dal ventre di sua madre. Non ha perso la sua essenza e non l’avrebbe persa nemmeno dopo la fine della fattoria nella quale aveva trascorso tutto il suo tempo. Ne avrebbero sentito la nostalgia anche glə altrə, a discapito della scelta di andarsene. Avvertendone la mancanza, quindi mantenendo nel proprio cuore i ricordi della propria genesi, sarebbero riuscitə a restarne distanti?
Ringraziamo NN Editore per la copia stampa. Per maggiori informazioni: https://www.nneditore.it/
di Alessandro Mazza
Nato nel 2002 in Romagna, sono studente all’Università di Bologna. Lo studio è, fortunatamente, fra le mie passioni, come lettura, musica e scrittura. Insieme ad altre meno “auliche”, come lo sport. Curioso per natura, mi pongo domande e cerco risposte, molto spesso senza successo, ma con conoscenze in più.