Eccoci ancora qua a commentare l’edizione degli Oscar 2025 anno. La 97esima edizione si è conclusa lo scorso 2 marzo, ma pochi ne hanno parlato. Dopo l’edizione dello scorso anno dominata da Oppenheimer , era difficile ripetere l’attenzione mediatica data alla cerimonia senza film da grande incasso. I ratings ci dicono che l’Academy ha incollato alla televisione americana ben 19.700.000 persone1: non male, se teniamo conto che si è registrata solo una flessione di 200.000 persone rispetto all’edizione precedente.
Nonostante questo, la serata è stata abbastanza sotto tono e non ci sono stati eventi degni di nota (né schiaffi né discorsi clamorosi). Alcune cose da notare, però, ci sono, quindi, prima di parlare dei vincitori di questa edizione, dedicherò qualche riga a cosa è effettivamente cambiato nella prima edizione della seconda era Trump alla Casa Bianca.
L’Oscar anestetizzato da The Donald
La conduzione passa quest’anno a Conan O’Brien, presentatore di spicco che lavora nell’ambiente da più di trent’anni. La scelta di O’Brien sembra innocua, ma ha un sottotesto importante: oltre ad essere un professionista d’altri tempi, O’Brien ha l’ottimo pregio di essere fondamentalmente a-politico. Seppur in passato si sia dichiarato democratico e abbia trasmesso in diretta tv per la prima volta negli U.S.A un matrimonio gay, tra gli show-man dell’oltroceano è sempre stato quello che non si sbilanciava mai troppo verso la sinistra americana.
La scelta dell’Academy manda un segnale chiaro: dopo due anni di Kimmel (citato spesso da Trump come “pessimo conduttore”2), fortemente democratico e anti-Trump, si è optato per una scelta più democristiana e moderata. Da questa scelta è scaturito un Oscar quasi del tutto privo di politica, il che ha dell’incredibile, se pensiamo non solo al tono delle edizioni precedenti, ma anche ai messaggi che alcuni film gara portavano. Erano presenti film sul cambio di sesso (Emilia Perez), sull’oggettificazione del corpo femminile (The Substance), su un immigrato in cerca di fortuna negli States (The Brutalist), un film sull’elezioni del papa che diventa una guerra tra ideologie (Conclave) e letteralmente su Donald Trump (The Apprentice).
L’unica svolta politica di valore è stata quella portata sul palco dai registi di No other land3 (vincitore del premio per miglior documentario), film palestinese che mostra la brutalità dell’occupazione israeliana della Cisgiordania. Sul palco hanno chiesto al mondo intero di fermare le atrocità israeliane che insanguinano il Medio Oriente da un anno e mezzo.
Oltre a questo, possiamo citare il discorso di accettazione di Adrien Brody (premiato come miglior attore per The Brutalist) non tanto per il contenuto, ma per la durata. Il suo discorso è divenuto il più lungo della storia degli Oscar4 (più di cinque minuti), entrando nel Guinness World Record.
La polemica che, però, è stata completamente sedata è quella sull’attrice trans Karla Sofia Gascon (protagonista di Emilia Perez), che ha scosso l’ambiente con i suoi tweet5 anti-migranti di qualche anno fa. Come accade post movimento #MeToo, ad Hollywood non si perdona più niente, per cui Emilia e il suo film sono passati da favoriti a fanalino di coda (poco contano i due Oscar vinti, pensando a quello che poteva accadere).
Giusto sottolineare la bruttezza dei tweet, meno giusto il meccanismo di distruzione che Hollywood ha portato alla esasperazione negli ultimi anni. Forse la nuova amministrazione americana reprimerà pure quello.
I vincitori: il trionfo di Anora
Totale vincitore di questa edizione con ben 5 Oscar è il film indipendente Anora. Sean Baker racconta la storia di una prostituta (Mikey Madison, ora premio Oscar) che si gode la vita da miliardaria dopo aver conosciuto il figlio di un oligarca russo. Anora vince per due motivi: il primo, già portato avanti dall’Academy negli ultimi anni, è far vincere i film indipendenti a spesa delle grandi produzioni; il secondo è la sua natura poco politica. Scartando Emilia Perez, The Brutalist e Conclave, si è scelto di puntare su un film che non aveva una risonanza politico-ideologica troppo marcata. Più di uno, senza poca ironia, ha fatto notare come sia stato premiato l’unico film con presenze russe al suo interno: quasi un disgelo artistico tra i due paesi dopo i primi passi diplomatici degli ultimi tempi.
Sorpresa della serata è la vittoria della Madison, che riesce a battere la concorrenza di Demi Moore (The Substance). Altro colpo è quello di Flow, film animato lettone che batte la concorrenza di Pixar e DreamWorks, che si unisce agli altri vincenti di quest’anno: Dune 2 (sonoro ed effetti visivi), A Real Pain (attore non protagonista), Io sono ancora qui (film internazionale) e Wicked (costumi e scenografia).
L’edizione è stata scialba, dimenticabile e classica. Come Carlo Conti è tornato ad uno stile old-school per il Festival, così ha fatto O’Brien per gli Oscar. Sarà servito? L’eccessiva politicizzazione delle ultime edizioni può veramente essere sostituita con un silenzio quasi assoluto? Il fatto di premiare film indipendenti con poca risonanza non rischia di allontanare il grande pubblico? Oppure lo avvicina al cinema indipendente di nicchia?
Quanti quesiti, ma nessuna risposta.
Ora vi saluto, sono già in attesa della prossima edizione. Viva le statuette!

Marcello Monti
Romagnolo di nascita, ormai bolognese di adozione dove studio Lettere Moderne all’Alma Mater. Appassionato di letteratura e cinema, ormai da due anni ne L’Eclisse, amo scrivere di vari temi (da quelli più pop a quelli più ricercati e filosofici). Ho collaborato con radio web, scritto brevi racconti e procrastinato innumerevoli volte. Seguendo le lezioni di Woody Allen e Chaplin, cerco di vivere la vita come una grande commedia. Vi aspetto tra le righe e in live su Twitch, dove qualche volta cerco di dire cose intelligenti.