Per un’esperienza più immersiva, consigliamo di premere play su An Ending (Ascent) di Brian Eno (qui su YouTube, qui su Spotify). Buona lettura.
Sono in sei in una grande H di metallo sospesa sopra la Terra. Ruotano in orbita, quattro astronauti (americano, giapponese, inglese, italiano) e due cosmonauti (russi); due donne, quattro uomini, una stazione spaziale composta da diciassette moduli collegati, a ventottomila chilometri all’ora. Resteranno così per nove mesi.
Non è l’incipit di un romanzo di Stanisław Lem o di Isaac Asimov, nonostante l’ambientazione, ma si tratta di Orbital, scritto da Samantha Harvey ed edito in Italia da NN Editore, con traduzione di Gioia Guerzoni. Desideriamo ringraziare NNE per averci gentilmente inviato una copia stampa di questo romanzo, uscito l’11 febbraio 2025 e disponibile sul loro sito.
Harvey ci parla delle giornate di Anton, Pietro, Roman, Shaun, Chie e Nell a bordo di una stazione spaziale che orbita completamente attorno alla Terra ogni 90 minuti. La loro missione consiste nel monitorare i propri parametri vitali in condizioni di antigravità, condurre esperimenti e osservare la superficie terrestre, scattando fotografie e segnalando eventi meteorologici. Non aspettatevi, però, un twist thriller o guerre spaziali: Orbital è a metà strada tra un diario di bordo e una riflessione filosofica. L’insignificanza e la piccolezza dell’essere umano sono affrontate con serena accettazione velata da esistenzialismo, e tutto viene rimesso in discussione in una nuova prospettiva.
Orbital è il quinto romanzo di Samantha Harvey, scrittrice inglese che da anni unisce la finzione letteraria alla filosofia, e ha appena vinto il Booker Prize, uno dei più prestigiosi premi dell’editoria anglofona e mondiale. Iniziato e lasciato in stallo prima della pandemia di Covid-19, è stato completato con l’aiuto del lockdown nel 2020 e informato dall’esperienza dell’insonnia, di cui l’autrice ha sofferto per un intero anno, documentata nel suo unico saggio (The Shapeless Unease, ancora inedito in Italia). Come dichiarato in un’intervista al giornale britannico The Guardian, Harvey ha pensato al romanzo non tanto comeun’avventura fantascientifica à la Alien o L’uomo di Marte, ma piuttosto «come una pastorale nello spazio – una specie di scrittura paesaggistica sulla bellezza dello spazio, con un senso leggermente nostalgico di quello che sta sparendo. Non solo sulla Terra, ma anche la stessa Stazione Spaziale Internazionale». Proprio le sue notti insonni l’hanno spinta a riflettere a fondo sul tema del tempo e la sua arbitrarietà, che nel romanzo è centrale.
Orbital potrebbe diventare un classico contemporaneo, un titolo di spicco nella fantascienza: riesce a distinguersi, paradossalmente, per gli eventi “ordinari” che descrive. E oltre a essere tali, non ci sono particolari riferimenti temporali, se non la certezza di essere nel ventunesimo secolo, a seguito della corsa allo spazio, del progresso tecnologico in fatto di astronavi (e probabilmente anche per la presenza di due donne su sei astronauti). Questa sospensione nel tempo e la presenza dello spazio solo in senso “astronomico” – e non più geografico – permettono un’estraniazione completa da riferimenti che ci terrebbero coi piedi per terra. Importa solo l’hic et nunc, il qui e ora.

Il senso di meraviglia che viene evocato a ogni nuova orbita (così vengono intitolati i capitoli) è un sentimento universale, al pari di osservare un evento naturale dispiegarsi davanti a occhi umani, che sia l’immensamente grande dello spazio o l’immensamente microscopico. Difatti, il paragone più riuscito che Harvey stessa inserisce nel libro è quello del corpo umano: i sei astronauti si sentono parte integrante di un organismo, che contribuiscono a mantenere in vita. “C’è qualcosa nello sfrecciare in orbita che li fa pensare in questo modo, come un’unità, dove l’unità stessa, la loro gigantesca nave spaziale, diventa viva, diventa parte di loro”. La sensazione è come di star leggendo un report quotidiano di un gruppo di cellule viventi, di globuli rossi che provano a distinguere il passare dei giorni in base a parametri vitali di ossigeno o anidride carbonica nei vasi sanguigni. Certo, a questa immersività contribuisce il fatto che le giornate degli astronauti non sono più scandite da alba e tramonto, ma dalle orbite che la loro astronave completa ogni 90 minuti.
Questa cosa ospita noi umani, tutti presi a lucidare le lenti sempre più grandi dei nostri telescopi, che ci ricordano quanto siamo sempre più piccoli. E noi restiamo lì a bocca aperta. E con il tempo arriviamo a capire che non solo siamo ai margini dell’universo, ma che è un universo di margini, che non c’è un centro, solo un ammasso vertiginoso di cose danzanti, e che forse tutto il nostro sapere consiste in una conoscenza elaborata e in continua evoluzione della nostra estraneità, uno smantellamento dell’ego attraverso gli strumenti dell’indagine scientifica fino a che quell’ego non sarà ridotto a un edificio in rovina da cui filtra la luce.
Merita un adeguato elogio l’abilissima traduzione a cura di Gioia Guerzoni. A fine volume, potete leggere anche la “Nota della traduttrice”, che fa decisamente apprezzare di più la lettura appena conclusa. Guerzoni condivide l’emozione che l’ha catturata la prima volta che ha finito Orbital, l’impegno e il lavoro di approfondimento sui termini specifici per le stazioni spaziali, diari di bordo di astronauti, ma soprattutto un profondo amore per la Terra. “[…] parlando del cosmo, ci fa innamorare della Terra, e facendoci entrare nella testa degli astronauti, che sono senza dubbio persone speciali, ci fa innamorare delle persone comuni […]”. Ovviamente, si può leggere un messaggio ambientalista, amiamo la Terra perché è la nostra casa, perché è giusto, ma Orbital non è (solo) un manifesto alla salvaguardia del nostro pianeta. E’ una lettera d’amore, alle circostanze che ci hanno portato fin qui, il giusto e incredibile equilibrio di ossigeno, acqua, temperatura e condizioni ottimali che hanno permesso lo sviluppo di organismi pluricellulari, finché una di queste forme di vita non è stata in grado di superare l’atmosfera e osservare casa propria dall’alto.


Guardando giù capiscono perché viene chiamata Madre Terra. Tutti associano la Terra a una madre, li fa sentire bambini. Nel loro dondolio di corpi androgini, ben rasati, nei pantaloncini da ginnastica e nei cibi pronti, nel succo bevuto con la cannuccia, le bandierine per i compleanni, il coricarsi presto, l’innocenza forzata di giornate diligenti, tutti hanno degli istanti in cui all’improvviso dimenticano il loro ruolo di astronauti e provano la sensazione fortissima di essere tornati piccoli, all’infanzia. Al di là del vetro, la genitrice li guarda, maestosa e onnipresente.
Inserendosi nella tradizione di grandi opere filosofiche ambientate lontane dalla Terra, da Solaris di Stanisław Lem a 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, lo stile sobrio ma evocativo di Orbital lo rende un nuovo classico della fantascienza, capace di rendere visibile al lettore paesaggi spaziali con chiarezza e poesia; al contempo, dà l’impressione di essere un romanzo di formazione, un diario dell’essere umano che diventa adulto e raggiunge consapevolezza delle proprie inquietudini ma anche di quanta bellezza contiene la Terra.

Vittoria Tosatto
Nata a Vimercate nel 2001 e cresciuta nei meandri della Brianza, mi sono laureata in Scienze Linguistiche e ora studio Cinema all’Università Cattolica di Milano (e ancora mi chiedo perché ho scelto la vita da pendolare). Le mie “guilty pleasures” sono i musical, le aste e i libri che finiscono male. Gestisco la sezione di scrittura articoli, correggo, mi occupo del calendario e di strigliare (con amore) i nostri articolisti. Spesso mi troverete a scrivere pezzi su cinema, letteratura e teatro, ma non solo: tocca a voi scoprire il resto.
Si ringrazia Valentina Oger.
[…] sono magnetiche (ve ne avevamo parlato qui e qui). La nostra redattrice Vittoria Tosatto ha avuto solo lodi per Orbital di Samantha Harvey, il vincitore dello scorso Booker Prize e il più breve della storia del premio, con sole 136 […]