Una volta entratə negli spazi del Podium della Fondazione Prada di Milano, ci si trova immersə in un’atmosfera sospesa, dove la luce naturale è schermata da finestre oscurate e lo spazio è scandito da griglie ordinate e pannelli sospesi. Un’atmosfera rarefatta, quasi surreale, che invita a un’immersione profonda nel visibile. L’effetto è duplice: da un lato, si entra in uno spazio “altro”, dove il tempo sembra dilatarsi; dall’altro, si è spintə a un confronto diretto, quasi scientifico, con le immagini.
In questa cornice prende forma la mostra Typologien: Photography in 20th-century Germany, un vero e proprio atlante visivo in cui il principio della “tipologia” accomuna oltre 600 fotografie e 25 artiste e artisti, delineando le molteplici sfaccettature della società tedesca del XX secolo in un percorso espositivo privo di un ordine cronologico. Come voluto dalla curatrice Susan Pfeffer, storica dell’arte e direttrice del Museum MMK für Moderne Kunst di Francoforte sul Meno, la disposizione lascia infatti emergere connessioni inaspettate tra generazioni di fotografe e fotografi diverse. Tuttavia, quest’ordine non si limita a creare corrispondenze visive, ma amplifica somiglianze e differenze, sollecitando una presa di coscienza critica: cosa distingue l’individuo dal tipo? Dove finisce il normativo e inizia il reale?
Il percorso espositivo ha inizio con l’opera di Karl Blossfeldt (1865–1932) e con le sue macrofotografie botaniche (primi piani di piante, foglie, germogli e steli), frutto di una lunga indagine condotta con metodo scientifico, ma con uno sguardo profondamente estetico. Blossfeldt, infatti, non fotografa la natura per classificarla in senso botanico, ma per trarne modelli formali universali, ossia archetipi visivi che, pur appartenendo al mondo naturale, sembrano già inscritti in una grammatica dell’arte.

Il titolo del volume Urformen der Kunst, realizzato da Blossfeldt nel 1928 e tradotto come Forme originarie dell’arte, è in effetti rivelatore: l’obiettivo non è documentare la varietà della natura, quanto più rintracciare in essa strutture primitive, matrici formali archetipiche che fungono da modelli per l’immaginazione artistica. In questa prospettiva, la fotografia diventa strumento di rivelazione in quanto isola, ingrandisce, mette in sequenza elementi simili per mostrare ciò che resiste nel tempo, arrivando a costituire un “tipo”. L’inserimento delle sue immagini all’inizio della mostra assume quindi un valore programmatico: in queste fotografie, il metodo tipologico1 si declina come sguardo ordinatore – non una sterile classificazione, ma un invito a cogliere nella varietà l’unità nascosta delle cose.
La mostra prosegue con la serie dedicata ai ritratti di piante realizzata nel 1930 da Lotte Jacobi (1896–1990), nota per le sue fotografie di intellettuali come Martin Buber, di artisti come Marc Chagall e poeti come Robert Frost e Vladimir Majakovskij. Le sue immagini di soggetti naturali sembrano dialogare con la lezione di Blossfeldt e, pur non essendo la natura il centro della sua ricerca, Jacobi sembra avvicinarsi al mondo naturale con l’empatia e l’attenzione che riservava ai volti umani. Tra le varie fotografie che offrono diverse declinazioni del rapporto tra natura e tipologia, quelle di Simone Nieweg (1962), allieva della scuola di Düsseldorf2, immortalano orti e appezzamenti coltivati ai margini della città: terreni provvisori, recinti improvvisati, piccoli interventi umani in un equilibrio fragile con la vegetazione. A prima vista neutre, queste immagini custodiscono invece una delicatezza di osservazione che restituisce dignità e valore a spazi minimi e informali. Nella loro apparente serialità, rivelano variazioni sottili, gesti personali, microsistemi resistenti alla standardizzazione urbana.

Andreas Gursky (1955) è invece presente in mostra con una prima immagine tratta dalla serie Ohne Titel (2015–2016), Senza titolo. File compatte di tulipani, privi di titolo e privi di luogo, si offrono a uno sguardo frontale e distante, che dissolve ogni dettaglio in una trama cromatica astratta. Solo in un secondo momento si riconoscono – o si intuiscono – i soggetti: fiori industrializzati, cresciuti in serre ipercontrollate nei Paesi Bassi (dove Gursky vive e lavora), caratterizzati dalla presenza delle coltivazioni intensive degli tulipani. Quella che a prima vista sembrava una composizione astratta si rivela, in realtà, la rappresentazione di un ambiente sterilizzato e meccanico, dove la bellezza è priva di vita e l’artificio prevale sulla spontaneità. E qui, la tipologia non rassicura: inquieta, poiché si muove sul livello dell’artificio, della costruzione e dell’ipervisibilità. Nelle sue fotografie, la realtà non è mai semplicemente documentata, ma riorganizzata secondo logiche formali che ne esasperano la ripetizione fino a farla esplodere in una sorta di ordine minaccioso.

Questa stessa estetica si ritrova, amplificata, in Paris, Montparnasse (1993), una delle prime opere in cui Gursky ricorre alla post-produzione digitale per intervenire direttamente sulla struttura dell’immagine. L’edificio fotografato, il complesso Maine-Montparnasse II a Parigi, non appare nella realtà così come lo vediamo nella fotografia. Gursky ne modifica la facciata digitalmente, duplicando e riallineando le finestre per ottenere una griglia perfetta, senza interruzioni né anomalie prospettiche. Ne risulta un’architettura ipnotica, svuotata della sua funzione abitativa e trasformata in pura superficie visiva. Le tracce di individualità umana, come tende, piante e luci interne, diventano elementi minimi, quasi impercettibili, che emergono come variazioni entro un sistema rigidamente regolato. In questo modo, il fotografo ricostruisce la realtà secondo una logica che rivela quanto essa stessa sia già intrinsecamente strutturata, normata, seriale. Così, in 99 Cent (1999), il soggetto è l’interno di un supermercato, le cui scaffalature sono sature di prodotti di largo consumo ordinati con meticolosa simmetria sotto la ripetizione ossessiva delle etichette «99 cents». Il sistema chiuso e autosufficiente immortalato nella foto fa sì che gli scaffali carichi di merci appaiano come moduli di un paesaggio artificiale, coloratissimo e opprimente, in cui l’eccesso di stimoli visivi si trasforma in disorientamento. In Gursky, la tipologia non serve più a classificare il reale, ma a mostrarne la deriva: il mondo come macchina ripetitiva, dove ogni unità perde il suo peso specifico e diventa parte di un flusso visivo potenzialmente infinito.

Accanto a Paris, Montparnasse, la presenza delle fotografie di Bernd (1931–2007) e Hilla Becher (1934–2015) restituisce le radici più solide della scuola di Düsseldorf2. A partire dagli anni Sessanta, i coniugi Becher intraprendono un vasto progetto di documentazione sistematica dell’architettura industriale in via di smantellamento nella ex Germania Ovest: torri di raffreddamento, cisterne, forni, silos. In Anonyme Skulpturen (1969), uno dei primi nuclei del loro lavoro, questi manufatti vengono presentati come “sculture anonime”, prive di funzione e di autorialità, eppure dotate di una forte presenza visiva.

Ogni immagine segue uno schema rigoroso: inquadratura frontale, assenza totale di figure umane, luce diffusa e cielo nuvoloso per evitare ombre marcate, stampa in bianco e nero su carta omogenea. L’obiettivo è costruire una neutralità singolare, in cui i due sembrano ritirarsi per lasciare che siano gli oggetti stessi, comparabili ma mai identici, a parlare. Le loro serie, disposte in griglie tipologiche, applicano un principio di classificazione quasi enciclopedico: non si tratta di raccontare un edificio, ma di mostrarne le affinità strutturali con altri simili, rendendo visibile una logica costruttiva condivisa. Questa sistematizzazione produce però un effetto stranamente potente: le strutture industriali, isolate dal contesto e svuotate d’uso, emergono nella loro monumentalità silenziosa, come reliquie di una civiltà in estinzione.
Allieva dei Becher, Candida Höfer (1944) applica i principi della tipologia agli interni architettonici, con una particolare attenzione per spazi pubblici o semipubblici, come biblioteche, musei, archivi, teatri. I suoi scatti, sempre privi di figure umane, sono costruiti secondo una logica di rigore e simmetria: inquadrature prevalentemente frontali, talvolta angolate, luce diffusa e colori sobri, che accentuano la geometria dello spazio. La scelta dell’assenza (delle persone e del movimento) non raffredda l’immagine, ma la carica di tensione potenziale tra il silenzio e la funzione collettiva, tra l’architettura e l’uso che ne viene fatto.

Ed è la stessa fotografa a rivelare un’altra dimensione di questi luoghi:
I musei mi interessano come tipologie di spazi pubblici o semipubblici. I musei presentano stratificazioni che mostrano la loro architettura originale, i diversi modi di esporre nel tempo, i diversi modi in cui le loro sale sono state utilizzate con o senza la loro volontà e il modo in cui le loro sale si sono servite l’una dell’altra. Ognuno di questi usi lascia delle tracce, e tutte queste tracce sono presenti contemporaneamente. C’è sempre un momento della giornata, nei musei, in cui queste tracce, insieme alla struttura dello spazio, alle pareti, alle finestre, alle porte, alle scale, alle loro proporzioni, ai colori e alla luce, diventano molto più visibili, tra le persone e gli oggetti esposti.3
In questa riflessione si coglie la natura stratificata del suo sguardo. L’apparente oggettività delle sue immagini, infatti, non è mai semplicemente descrittiva, ma lascia affiorare le memorie sedimentate nello spazio, i segni di ciò che è stato e di ciò che può ancora accadere. Il rigore tipologico diventa così un modo per far emergere e per dare ordine alla complessità senza cancellarla.
Il tema della “traccia” attraversa anche i lavori di Ursula Schulz-Dornburg (1938), basati sulla ricerca di indizi minimi, di residui marginali, segnali di una fragile presenza passata: «Il mio compito è trovare tracce nel nulla e scoprire in quelle tracce qualcosa che parli: della storia, della colonizzazione. Essendo nata nel ’38, sono nata nella distruzione di tutto. Fin dall’inizio ho fotografato per mostrare la bellezza agli altri, perché non la distruggessero»4. Questa ricerca si esprime con particolare intensità nella serie dedicata alle fermate di autobus sovietiche in Armenia, fotografate tra il 1997 e il 2001. Queste fermate, spesso collocate in zone remote e isolate nel paesaggio, appaiono come resti silenziosi di un’utopia socialista ormai svanita, come appartenenti a un mondo fuori dal tempo. Le immagini, tuttavia, abitate da figure umane femminili e infantili, mostrano anche nella povertà una dignità composta, come se un gesto quotidiano – aspettare un autobus – potesse trasformarsi in un momento rituale. La fotografa coglie così un’umanità essenziale, resistente, capace di attraversare il tempo senza rumore.

Lo spazio urbano è protagonista delle fotografie di Thomas Struth (1954), formatosi dapprima nella classe di pittura di Gerhard Richter, e successivamente sotto la guida dei Becher, il quale intreccia rigore compositivo e sensibilità per l’esperienza collettiva. La sua pratica ha inizio negli anni Settanta con la serie Unconscious Places, fotografie in bianco e nero che documentano le strade di diverse città europee. Dai suoi scatti emerge un paesaggio urbano sospeso, a tratti desolato, in cui l’infrastruttura architettonica sembra assorbire ogni traccia di vita: luoghi inconsci, appunto, che plasmano l’esistenza quotidiana restando spesso ai margini della percezione cosciente. A distanza di pochi anni, con la serie People on the Street, Düsseldorf 1974-78, Struth comincia a interrogare in modo più diretto il rapporto tra soggetto e ambiente. Qui, le figure umane compaiono ma restano anonime, immerse nella loro traiettoria, quasi mai in interazione con l’obiettivo. Fotografati con uno sguardo distaccato ma non freddo, questi passanti attraversano la scena ciascuno con il proprio ritmo e scopo.

A questo approccio si collega il lavoro più noto di Struth: la serie Museum Photographs (1989–1992), in cui l’artista introduce nuovamente la figura umana come soggetto centrale, ma in un contesto radicalmente diverso. Grandi fotografie a colori mostrano gruppi di visitatori di spalle, assorti nella contemplazione di capolavori della storia dell’arte. In queste immagini, la “visione esatta” teorizzata da Struth, un’inquadratura che non nasconde né interpreta ma mostra e produce una tensione enigmatica. L’opera non offre un messaggio, ma apre uno spazio di osservazione condivisa in cui lə spettatorə della foto si sovrappone a quellə dell’opera d’arte, e l’immagine si fa specchio della nostra stessa posizione.

In mostra, inoltre, è presente anche la serie dedicata da Struth ai ritratti di famiglia, iniziata intorno alla metà degli anni Ottanta: composizioni frontali e riflessive, in cui i soggetti posano consapevolmente, per la maggior parte nel loro ambiente domestico, instaurando un controllato equilibrio tra presenza e distanza.
Con queste fotografie, si è arrivati al secondo piano del Podium di Fondazione Prada, che si apre con i lavori di August Sander (1876–1964), punto di riferimento imprescindibile per ogni riflessione tipologica sulla figura umana nella Germania del Novecento.
Trasferitosi a Colonia nei primi anni del Novecento, Sander inizia a costruire un’ampia galleria di ritratti che aveva come obiettivo restituire un’immagine stratificata e rappresentativa della società tedesca del suo tempo. Il progetto Menschen des 20. Jahrhunderts (Persone del XX secolo), avviato negli anni Venti, si articola come un archivio visivo in cui uomini e donne sono classificati secondo categorie professionali e sociali, con un intento quasi enciclopedico. L’individuo viene ritratto per ciò che rappresenta nel contesto storico in cui vive, e il confronto tra i vari soggetti diventa uno strumento per leggere le gerarchie, le tensioni e le strutture della Repubblica di Weimar:
La fotografia pura ci consente di creare ritratti che rendono i soggetti con assoluta verità, sia fisica sia psicologica. Sono partito da questo principio dopo essermi detto che, se possiamo creare ritratti di soggetti che siano veritieri, in tal modo creiamo anche uno specchio dell’epoca in cui questi soggetti vivono […] Per essere in grado di dare un’idea rappresentativa dell’epoca attuale e del nostro popolo tedesco ho raggruppato queste immagini in più serie, cominciando con i contadini per finire con i rappresentanti dell’aristocrazia dello spirito. Questa evoluzione si inserisce in un altro album che si dispiega parallelamente e mostra l’evoluzione dell’habitat, dal villaggio al grande agglomerato urbano moderno. Registrando, per mezzo della fotografia assoluta, tanto i diversi ceti sociali quanto i loro rispettivi ambienti, spero di rendere fedelmente la psicologia del nostro tempo e del nostro popolo5.

Sander adotta un approccio coerente e sistematico: soggetti ripresi in posa frontale, spesso nel proprio ambiente lavorativo o quotidiano, con un’espressione seria, distante, talvolta rigida, che rivela anche il peso della formalità fotografica in un’epoca in cui la presenza della macchina fotografica era tutt’altro che familiare. La neutralità dello stile, più che cancellare l’autore, ne rafforza il gesto selettivo. Ciò che conta è la costruzione di un sistema di riferimento, la capacità di far emergere le differenze e le similitudini tra i soggetti attraverso la costanza dei criteri formali. Il progetto di Sander si configura anche come un archivio visivo della società del suo tempo, ossia una raccolta strutturata di volti, mestieri e ruoli che aspira a ordinare il frammento, a trasformare la molteplicità individuale in una narrazione collettiva. In questo senso, il suo lavoro introduce uno dei temi fondamentali per molte pratiche artistiche del Novecento e oltre – l’archivio come dispositivo mnestico e politico. Infatti, archiviare non significa soltanto raccogliere e ordinare, bensì implica selezionare, stabilire criteri, costruire un discorso. Ogni archivio è anche un gesto di esclusione: ciò che viene conservato alimenta la memoria, ciò che resta fuori scivola nell’oblio.
Queste due tensioni opposte ma inseparabili rendono l’archivio una pratica artistica centrale nel panorama contemporaneo, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Un esempio emblematico del ruolo dell’archivio come pratica artistica e atto politico è l’Atlas di Gerhard Richter6 (1932), un progetto iniziato nel 1962 e costantemente ampliato fino al 2013. Si tratta di un vasto atlante fotografico, composto da fotografie personali, ritagli di giornale, schizzi, annotazioni, ordinato in centinaia di tavole disposte su griglia e che conclude la mostra a Fondazione Prada. In parallelo alla sua produzione pittorica, Richter costruisce così un inventario visivo delle sue fonti e dei suoi riferimenti, che agisce simultaneamente come strumento di lavoro, mappa concettuale e autoritratto intellettuale. Atlas rappresenta quindi un vero e proprio dispositivo conoscitivo perché accompagna lə spettatorə nella lettura dell’opera, ne orienta lo sguardo e, al tempo stesso, lə costringe a interrogarsi sulla relazione tra immagine, verità e rappresentazione.

Tuttavia, accanto all’apparente semplicità del materiale, immagini dimessamente quotidiane e spesso insignificanti, compaiono fotografie dell’Olocausto: documenti visivi che impongono uno slittamento nel tono e nella responsabilità del gesto archivistico. Il loro inserimento è frutto di una scelta consapevole, di una presa di posizione storica e morale. La memoria individuale si intreccia così con la memoria collettiva, e l’archivio, che sempre seleziona, ordina, esclude, si rivela strumento non solo conoscitivo, ma etico e politico.

In questo quadro, il concetto di tipologia assume una funzione centrale: ogni progetto tipologico è una forma di archivio visivo che tenta di rappresentare l’esperienza collettiva attraverso la ripetizione, la classificazione, la comparazione. Ma ogni tipologia, pur nella sua struttura ordinata, non è mai neutra: riflette visioni del mondo, relazioni di potere, scelte soggettive. E queste opere invitano a mettere in discussione il modo in cui guardiamo il mondo e costruiamo la memoria, riflettendo in un’epoca come quella contemporanea tanto caratterizzata da un irrefrenabile accumulo sul senso che assume l’atto di raccolta, classificazione e costruzione di senso.
Note
- «Con tipologia si intende la classificazione di più oggetti facenti parte di un complesso omogeneo, per mezzo della definizione di tipi, ossia raggruppamenti di oggetti che condividono uguali attributi e che possono essere perciò distinti dagli altri. Ci sono molti modi di stabilire una tipologia e a ciò concorrono fattori legati alle caratteristiche specifiche del complesso analizzato, all’esistenza o meno di convenzioni già in uso […] e infine, essendo comunque la tipologia un sistema di ordine mentale, anche alla personale attitudine da parte di chi studia a lavorare secondo un criterio anziché un altro» (cfr. S. Anastasio, Tipologia e quantificazione: introduzione alle principali metodologie, in Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Università di Siena (ed.), Introduzione allo studio della ceramica in archeologia, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2007, p. 33. https://www.letterebeniculturali.unicampania.it/images/didattica/materiale_didattico/A2520B_Ceramica_03_Anastasio.pdf).
- La scuola di Düsseldorf è un movimento nato negli anni Settanta attorno all’Accademia di Belle Arti della città, noto per l’approccio sistematico, oggettivo e concettuale alla fotografia documentaria.
- K. McShine, Candida Höfer, in The Museum as Muse, catalogo della mostra, Abrams, New York, 1999, p. 120.
- U. Schulz-Dornburg, I want to Archive These Places, in “YouTube”, 2018, https://youtu.be/dHz9mFrkxLc?si=ounyMXzcrpQJr_cj.
- A. Sander, lettera a Erich Stenger, 21 luglio 1925, collezione Fotohistorama, Leverkusen.
- È possibile trovare la maggior parte delle tavole dell’Atlas al link: https://www.gerhard-richter.com/it/art/atlas.

di Greta Beluffi
Laureata in Lettere classiche e studentessa di Storia e Critica d’Arte a Milano: mi chiamo Greta e ho 22 anni. Vivo di arte e di Spritz ma, si sa, “mens sana in corpore sano”, e lungo i moltissimi km di corsa giornalieri amo pensare al marxismo, alla psicanalisi lacaniana e alle letture post strutturaliste delle opere d’arte, di cui spero di poter scrivere senza far storcere il naso a chi, come me, non si intende di filosofia.