Kate Mulgrew (Dubuque, Iowa, 1955) è attrice e autrice di bestseller. Conosciuta principalmente per la sua interpretazione di Kathryn Janeway, prima capitana donna protagonista della saga di Star Trek in Star Trek: Voyager (UPN, 1995–2001), per la TV ha anche fatto parte del cast fisso di Orange Is the New Black (Netflix, 2013–2019). La sua carriera è stata lanciata negli anni Settanta con la soap opera I Ryan (Ryan’s Hope, ABC, 1975–1989), ma il suo vero amore è sempre stato il teatro.
Ha interpretato molte donne percepite come non convenzionali da una certa parte della società, dall’energica Mrs. Columbo (NBC, 1979–1980) al film TV del 1991 Daddy, nel quale interpreta una giovane madre che vuole tornare a studiare e, per la prima volta, pensa a sé stessa. Può parlarmi della sua carriera prima di Janeway?
Prima di Janeway, la mia vita da attrice era impegnativa, ma anche appagante. In quei primi anni, penso che il mio lavoro più gratificante sia avvenuto sul palco: Hedda Gabler, Aristocratici, Il Misantropo, Misura per misura. Il mio primo marito (Robert H. Egan, NdA) era regista teatrale e mi ha fatto interpretare numerose parti in un breve lasso di tempo. Nel poco tempo libero ho avuto i miei figli, quindi è stata anche una vita privata felice. Inoltre, ho partecipato a vari film che sono stati recepiti bene: Il mio nome è Remo Williams (Remo Williams: The Adventure Begins, Guy Hamilton, Stati Uniti, 1985; NdA), Getta la mamma dal treno (Throw Momma from the Train, Danny DeVito, Stati Uniti, 1987; NdA). Ma solitamente, mi si poteva trovare su qualche palco a fare quel che amavo davvero.
Nel 2024 c’è stato un fenomeno filmico in Italia: C’è ancora domani, film d’esordio alla regia di Paola Cortellesi, la storia di una donna alle prese con un marito violento nell’Italia del secondo dopoguerra. Ha seguito il successo di Barbie (2023) di Greta Gerwig, e molte donne di tutte le età e contesti sociali si sono riviste nella protagonista. Oggi c’è più spazio per la rappresentazione dell’esperienza femminile nel cinema? E come si può confrontare con il suo successo nei panni del Capitano Janeway negli anni Novanta?
C’è sempre spazio per rappresentare l’esperienza femminile al cinema e nella televisione. Janeway ha aiutato? Sì, credo di sì, particolarmente le donne nelle discipline STEM, ma c’è ancora un divario significativo tra quello che la maggior parte degli uomini trova interessante (pistole, guerra, sesso gratuito, commedia) e ciò che le donne trovano interessante (complessità, lealtà, sfide emotive e creative, resilienza, amore). Il personaggio del Capitano Janeway ha dato sicuramente una svolta: adesso abbiamo bisogno di portare a termine ciò che abbiamo iniziato, che è sicuramente un compito più arduo. Ho l’impressione che la conversazione verta verso la visione sociale dell’imperativo biologico: il suo potere, la sua origine e, infine, la sua capacità di produrre cambiamento o stagnazione.
Durante l’edizione del 2016 del Los Angeles Times Festival of Books, quando le è stato chiesto della sua interpretazione di Red in Orange Is the New Black, ha risposto: “Nel rinunciare alla mia vanità, mi sono liberata”. Viene subito in mente la cruda performance di Bette Davis nei panni di una donna morente in Schiavo d’amore (Of Human Bondage, John Cromwell, Stati Uniti, 1934). La vera magia accade soltanto quando un’attrice può liberarsi dai principi morali della società?
La risposta a questa domanda è piuttosto complicata. Alcune interpretazioni sono magiche nonostante il contesto e alcune grazie a esso, ma molte performance veramente eccellenti avvengono quando l’attrice si sveste del proprio ego: si pensi a Judi Dench in Diario di uno scandalo (Notes On A Scandal, Richard Eyre, Stati Uniti, 2006; NdA), Olivia Colman nei panni della Regina Anna (ne La Favorita, Yorgos Lanthimos, Irlanda, Regno Unito e Stati Uniti, 2018; NdA), Emma Thompson in più o meno qualunque cosa abbia fatto, Meryl Streep nei panni di Margaret Thatcher (in The Iron Lady, Phyllida Lloyd, Regno Unito, 2006; NdA). Mi sono accorta che, nel liberarmi della mia vanità, che non è altro che ego in azione, avrei trovato non solo libertà, ma anche profondità e complessità. Non m’importava del mio aspetto, del deterioramento o del mantenimento delle mie apparenze – m’importava di Red: chi era, quali erano i suoi obiettivi, i suoi pregi di essere umano. Bette Davis voleva disperatamente lasciare un’eredità di vera grandezza (artistica, NdA) ma, alla fine, il suo status di star del cinema ha prevalso.
Dal punto di vista di un’attrice – colei che lavora davanti alla telecamera – cosa ne pensa dell’uso dell’IA nelle arti e nel cinema? Mi riferisco soprattutto a una recente controversia: un film in cui è stata usata l’IA generativa per migliorare gli accenti dellə attorə mentre parlavano una lingua straniera (The Brutalist, Brady Corbet, Stati Uniti, 2024; NdA). A che punto possiamo porre dei limiti? È troppo tardi per farlo?
In quanto all’IA, siamo solo all’inizio. È fondamentale, ora come non mai, informarsi a fondo sull’intelligenza artificiale, in modo da determinare il suo valore rispetto al suo potenziale distruttivo. Quindi, professando la mia ignoranza, dirò poco su questo tema eccetto l’ovvio: non bisognerebbe mai permettere l’usurpazione di ciò che è umano, o eclissare ciò che scaturisce dall’immaginazione umana.
L’Italia fascista fu il primo governo a esercitare un controllo diretto sull’uso di cinegiornali per la propaganda. Negli Stati Uniti, il Presidente Roosevelt fondò nel 1942 l’Office of War Information, che esaminava anche sceneggiature. Secondo lei, la politica oggi può influenzare il modo in cui raccontiamo storie attraverso il cinema? In che modo?
Certo, la politica ha un peso sul modo in cui vengono realizzati i film, e sul tema che essi trattano. Oggi basta guardare qualsiasi prodotto e, nascosto in dettagli come scambi di battute, la trivializzazione delle donne o della violenza (non così discreta), si troverà un qualche tipo di movente politico. Tralasciando il film storico, qualsiasi regista con una sola scintilla di consapevolezza sociopolitica troverà il modo per includere i suoi valori e le sue convinzioni nella sceneggiatura – com’è giusto che sia e, soprattutto adesso, come dovrebbe essere. Anzi, se c’è mai stato un tempo in cui il cinema ha sentito il bisogno di rappresentare la verità, è oggi. Dobbiamo esprimerci senza paura o remissione, intervenendo contro ciò che mette a repentaglio la nostra libertà di agire come artistə.
Durante la quarantena del 2020 creò “Cocktails with Kate”, una serie di incontri online con i fan, in cui rispondeva alle loro domande. Come possiamo facilitare la conversazione tra generazioni in un mondo in cui le voci dellə giovani faticano per farsi sentire?
Questa domanda m’intristisce. Percepisco una curiosa solitudine nellə giovani e me ne chiedo il perché. Sicuramente, il mondo digitale ne è la causa, con il suo potere di creare dipendenza – ma, oltre a ciò, penso che abbiamo smesso di ascoltare il prossimo. Quando ero giovane io, la socializzazione portava ad un arricchimento della persona, all’intimità, al divertimento. Si accendevano amicizie, storie d’amore, conversazioni. È difficile vivere queste cose attraverso un cellulare, con quello schermo vuoto intasato dal chiacchiericcio. Nessuna occasione per cogliere rischi, per l’amore o per le delusioni. Inoltre, penso che lə giovani non leggano abbastanza libri. Nei libri troviamo la solidarietà, la gioia, la saggezza e la libertà che la conoscenza scatena. I libri possono e devono essere condivisi. Dovremmo tenerci per mano. Le persone dovrebbero incontrarsi in tempo reale e in spazi reali, guardando l’altro con vero interesse. Lə giovani dovrebbero fare lunghe passeggiate insieme e ridere spesso.
Lei è anche autrice di bestseller, con un terzo libro in arrivo. Il suo primo memoriale, Born With Teeth (2015), parla della sua vita privata e carriera artistica. How to Forget (2019) racconta la storia dei suoi genitori. Interpreta altre persone sullo schermo, ma la sua vera storia prende corpo sotto forma di libro. Secondo lei c’è una spaccatura tra questi due media?
Non ho una risposta pronta a questa domanda, forse perché mi turba. Se dovessi essere onesta, direi che recitare è il mio mestiere e mi consente di respirare creativamente, mentre scrivere è qualcosa che sento di dover fare per farmi conoscere. Il mio essere mortale incornicia e influenza entrambi.