Durante il Novara Jazz Festival (31 maggio – 8 giugno), per le vie della città, tra gli archi e le piazze, per diversi giorni si crea un luogo dove il tempo è libero di improvvisare e di far sentire il jazz, più che spiegarlo. Novara prende un ritmo diverso e i silenzi si fanno pieni di senso, grazie alla forma d’arte condivisa a cui questo evento è dedicato, la musica. Sentirsi compresə, potersi lasciare andare, ne abbiamo bisogno. È una città che per qualche giorno cammina a tempo irregolare, e noi con lei. Novara sembra non avere fretta.
Qui si sperimenta, si ascolta e ci si incontra: si respira una specie di tregua dal rumore del mondo, le persone trovano uno spazio che permette di fermarsi, stare nel presente. I luoghi suggestivi del Broletto, l’aria aperta, i concerti itineranti per le strade del centro storico, le jam session... tutto contribuisce a creare un’atmosfera dove, senza pretese di conoscenze tecniche e in maniera del tutto spontanea, ci si può avvicinare alla musica. Il bello del festival, in fondo, è questo: ti insegna che non serve capire tutto per lasciarsi attraversare da vibrazioni che parlano più alla pelle che alla teoria. C’è qualcosa, in questa musica, che arriva comunque. Ed è forse proprio lì, in quell’apertura, che si nasconde il vero senso del festival.
Ciò che conta è lasciarsi trasportare, nella libertà di perdersi tra i suoni. Accettare la sorpresa, trovare magari un artista che risuoni con qualcosa di tuo anche solo per un brano o un accordo.
In una calda e soleggiata domenica di giugno, tra le ultime note di un festival dove la musica diventa dialogo, grazie alla responsabile Ufficio Stampa del Novara Jazz, Alessandra Stefanini, incontro Davide Shorty. C’è spazio per raccontarsi, in modo spontaneo, naturale, e soprattutto sentito.
Incontrarlo poco prima della sua esibizione è stata un’occasione per capire come un artista viva un’esibizione sul palco di un festival come questo. Inizio chiedendogli se all’interno di un evento così aperto e partecipato, riesca anche lui a sentirsi accolto e ascoltato. La sua risposta non lascia dubbi “Assolutamente sì, al cento per cento”.

Davide arriva da un’esperienza importante: a maggio porta sul palco del Blue Note di Milano “Nuova Forma”, un progetto che ha espresso tutta la sua libertà stilistica, con una forte componente personale ed espressiva. Shorty lo dice con lucidità e calore:
“il Jazz Festival, il jazz club, sono il mio habitat naturale. Non solo musicalmente, ma per il tipo di umanità che si genera. Sono cresciuto nel freestyle e nell’hip hop italiano, ma la svolta è arrivata a Londra, nei giorni passati al Ronnie Scott’s. Questo mi ha permesso di vivere un certo tipo di ambiente, un certo tipo di comunità. La comunità jazz inglese è molto giovane, molto aperta, e molto contaminata. Questa cosa ti mette a contatto con tante opinioni diverse ma che comunque convivono e c’è sempre un confronto molto costruttivo”.
Nella sua voce c’è qualcosa che vibra tra armonia e urgenza, tra la melodia e il pensiero. Per Shorty, prima ancora del jazz, c’è l’hip hop, una matrice del suo presente musicale: insieme, si mescolano e senza etichette creano un codice che gli permette di muoversi tra generi, spazi, riflessioni e stati d’animo. “Se da una parte ci sono l’armonia e le melodie, dall’altra ci sono il ritmo e le parole”. Nell’ambiente jazz percepisce “un senso di comunità, mi fa sentire più libero, al sicuro, visto e compreso, che non è scontato”.
Un incendio due anni fa ha bruciato il suo studio a Londra; “un evento che mi ha forzato ad andarmene, avevo il mio studio, mi ritrovavo a invitare gente, a registrare, una situazione ideale. E questo da un giorno all’altro non ce l’ho più, sparito. E questo disco – Nuova Forma – è nato da molte limitazioni”. Le stesse che però l’hanno portato a creare un’opera che ha riscosso successo, infatti lo stesso Davide dice che quello che più lo fa sorridere e sentire fiero di questo progetto è proprio che un progetto “nato in cameretta” sia finito sul palco del blue note e, adesso, del Novara Jazz. Riflette su quanto questo evento, che ha portato via un luogo fisico, ha poi lasciato spazio ad una nuova consapevolezza. Si tratta di un percorso intriso di maturazione, che gli ha insegnato a gestire la frustrazione senza rinnegarla, ad abitare l’errore, a cercare quella distanza emotiva che non è chiusura, ma lucidità.
Un’intervista che è stata molto di più di un confronto sul suo percorso artistico, perché oltre alla musica, ai racconti di palco e produzione, è emersa una voce profondamente umana. Attraverso il racconto delle sue esperienze – dal palco alla produzione – sono emerse riflessioni autentiche e profondamente condivisibili: l’importanza di non cedere alla frustrazione, di cercare equilibrio. Davide Shorty ha condiviso pensieri che non restano nel perimetro dell’arte, ma si allargano all’esperienza umana come cerchi nell’acqua: parole che parlano di resilienza, trasformazione, e del coraggio di stare nel presente anche quando fa male. Un dialogo che si è trasformato in uno specchio per chiunque lo stia ascoltando e, perché no, un esempio di come si possa cadere senza perdere il ritmo, riuscendo a non lasciarsi abbattere dalle difficoltà, a trasformare la perdita in occasione di rinascita, e ad affrontare la frustrazione non come ostacolo, ma come parte integrante del cammino.
E così, mentre la sera cade, come una melodia lenta, tutto prende vita e le parole di Shorty si trasformano in note. Quelle parole raccolte nell’intervista — sul bisogno di comunità, sull’importanza della contaminazione, sul jazz come linguaggio vivo — hanno trovato il loro naturale compimento sul palco, in un concerto che ha chiuso il festival con una forza autentica, viscerale.
Il suo live è stato più di una performance: è stato un abbraccio collettivo, un momento in cui ciò che era stato detto — della fragilità, della libertà, del sentirsi visti — si è fatto suono. E forse non poteva esserci chiusura migliore per questo Novara Jazz: una serata che ha coronato, con grazia e intensità, la bellezza discreta e potente di queste giornate novaresi.


Giulia Coppola
Giulia, meglio nota come Giulietta. Nata nel 2000 sotto il segno del Drago, quando non sono sommersa dai libri mi piace sorseggiare un bicchiere di vino (rigorosamente rosso) in compagnia di un episodio di Twin Peaks o ascoltando buona musica. Laureata alla Cattolica in Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali, attualmente studio Editoria e Cinema. Studio lingua giapponese e recensisco libri e film, proponendo chiavi di lettura critiche e consapevoli.