Autorialità e follia
Viviamo un’epoca incredibile e terribile, testimone Tea Hacic, che intitola l’ultima puntata del suo podcast MORTE ALLE MACCHINE. La possibilità di utilizzare ChatGPT è stata ripristinata in Italia, e Tea si immagina un futuro, non troppo lontano, in cui si presenteranno davanti a noi due prodotti culturali, per due mercati diversi: il primo, più economico, sarà opera delle Intelligenze Artificiali; il secondo, rimarrà prerogativa dell’uomo. Ancora una volta sarà chiesto ai consumatori di scegliere consapevolmente. Nulla di nuovo sotto il sole del Liberismo capitalista, insomma, che si prende le proprie responsabilità (se lo fa) ex post.
È un tempo in cui il concetto di autorialità guarda l’abisso e l’abisso gli restituisce lo sguardo.
Voi direte: sì Nikolin, ma cosa c’entra tutto questo con il Salone del libro e coi libri? Ebbene, è importante, mai come ora, sapere distinguere cosa fa l’autore umano e il grande autore.
Quando si tratta di umanità, a mio parere, la chiave sta nell’analogia, intesa come capacità non computazionale di associare simboli (i simboli sono tutto ciò con cui il linguaggio artistico parla, le tessere essenziali per produrre) e creare nuovi significati. Sia vero che tutti siamo potenzialmente artisti, ecco, non è tuttavia vero che tutti vogliamo fare arte e siamo pronti a prenderci le responsabilità di autori.
Vorrei qui rifondare il concetto di autorialità e porlo in una posizione temporale antecedente all’opera. L’artista, l’autore, il creatore, a mio avviso, è colui che consapevolmente sceglie la pazzia. Non la pazzia intesa nel nostro gergo comune, ma più foucaultianamente, la pazzia come allentamento dall’ordine, di pensieri e materiale, che governa la società. Ecco, l’artista sarà allora colui che, per coraggio o per costrizione, consapevolmente o inconsapevolmente, si allontana dalle ideologie egemoni. Impossibile altrimenti produrre qualcosa di nuovo, e di valore, precisamente perché diverso da quello che è accettato dalla società. Tornando ancora brevemente a Foucault e a ciò che afferma nella sua Storia della pazzia, se è vero che l’uomo occidentale ha allontanato, già in epoca medievale, il pazzo, relegandolo alla nave dei folli e poi all’ospedale, è altrettanto vero che le nostre società sono affamate di pazzia, di mentori e guide che possano aiutare a fuggire dalle catene dell’ordine vigente. Insomma l’autore non è tale in quanto creatore: l’artista è prima di tutto un folle e il risultato della sua pazzia è la sua arte.
Ora vorrei, assieme a voi, rintracciare i segni di un’autorialità forte, e farlo sviscerando una delle canzoni che più amo di Lana del Rey: Ultraviolence.
[Verse 1] 1 He used to call me DN 2 That stood for Deadly Nightshade 3 'Cause I was filled with poison 4 But blessed with beauty and rage 5 Jim told me that, (6) he hit me and it felt like a kiss 6 (7) Jim brought me back, (8) reminded me of when we were kids
Ambiente introduttivo è la memoria – qualcuno apostrofava Lana (call me) Deadly Nightshade (la Belladonna), ma nel verso 3 il soggetto della subordinata causale cambia e diventa una prima persona. Qui sta la prima scelta interessante della canzone: Lana spezza la sintassi e crea un certo grado di confusione, per cui le affermazioni del verso 3 e 4 sembrano provenire da lei. Al quinto verso ecco il verbo dichiarativo (Jim told me that) che chiarisce il fraintendimento: le parole sono da imputare a Jim. Il setting psicologico della canzone è così introdotto: Lana, come scopriremo, è succube di Jim, e non distingue più i suoi pensieri da quelli provenienti da lui. Ecco il frutto della pazzia: il sovvertimento sintattico mima la condizione psicologica della cantante e la esplica. Lana sceglie di ignorare le norme grammaticali e crea qualcosa di nuovo e diverso, un prodotto linguistico non standard.
Il primo tema che si incontra è quello della pianta dal doppio significato metaforico. La belladonna, da un lato è un chiaro riferimento al fascino oscuro di Lana, dall’altro ha una funzione prolettica, anticipando ciò che succederà al ritmo della canzone, che diventerà progressivamente tachicardico e sincopato. Come i frutti della pianta, anche Lana è “piena di veleno”. L’interpretazione dei versi 3,4,5 è più difficile ma ci vengono in aiuto alcune dichiarazioni rilasciate dalla stessa cantante, che ci racconta della sua esperienza a New York, dominata dalla figura di un guru a cui lei si affidò. Il nome Jim potrebbe essere un riferimento a Jim Jones, figura controversa nella storia americana, che fondò nella Guyana una comunità di nome Jonenstown e che dopo alcuni controlli di un deputato e dei giornalisti, indusse gli stessi membri della comunità ad un suicidio di massa. Jim potrebbe essere altresì un’indicazione del veleno di cui Lana era piena, il Jim Beam, un whiskey, di qui la confessione della dipendenza dall’alcol. Come si può osservare, domina il procedimento dell’analogia, con una modalità piuttosto particolare: più che di associazioni si tratta di sovrapposizioni. Alcune esplicitate, tra Lana e la Belladonna, altre implicite e dal senso non chiaro, come l’utilizzo del nome “Jim”.
[Chorus 1] 1 With his ultraviolence 2 Ultraviolence 3 Ultraviolence 4 Ultraviolence 5 I can hear sirens, sirens 6 He hit me and it felt like a kiss 7 I can hear violins, violins 8 Give me all of that ultraviolence
Nei versi iniziali di una canzone o di una poesia è sempre bene osservare lo schema rimico. Si può dire che se il piano o le percussioni scandiscono il ritmo della musica, le rime sono lo strumento con cui avviene la partizione più evidente delle poesie. I primi 4 versi presentano delle quasi-rime alternate, gli ultimi due quasi-baciate. Lievi dissonanze, distorsioni conformi allo stato psicologico alterato. Molto importante la quasi-rima kiss-kids – una quasi baciata con la parola bacio! – che conferma le nostre impressioni: l’innocenza non è quella spensierata dell’infanzia, ma quella di una persona che è stata resa una quasi-bambina da una sudditanza psicologica. Ecco un altro segno di pazzia artistica dal gusto tipicamente modernista (Montale apprezzerebbe le quasi rime) a sovvertire le norme tradizionali delle rime perfette. E poi subito un altro: gli ultimi due versi sono in realtà una quartina condensata (a dimostrare questa tesi il fatto che le pause del canto cadano dopo le parole “that”, “kiss”, “back”, “kids”). Il ricordo sta diventando più vivo, e anche il ritmo della poesia si contrae accodandosi al tempo memoria: i quattro complementi oggetto (“me”, “me”, “me”, “me”) battono il tempo della canzone ma anche delle botte. Questo climax ritmico-sintattico condurrà al primo chorus.
I primi quattro versi contengono la stessa parola (ultraviolence) ripetuta, proprio come le quattro battute di “me” che li hanno preceduti. Le rime baciate si condensano poi all’interno degli stessi versi (“sirens,sirens”, “violins, violins”). Una sirena suona sempre in due battute, che per effetto doppler sentiamo prima lontane le une dalle altre e più lunghe (ultraviolence-ultraviolence; ultraviolence-ultraviolence), scandite verso dopo verso, e quando è vicina invece scandite entro lo stesso verso.
Inoltre il 6 verso del chorus rima con il (6) del verse 1, se si considera la tesi della quartina condensata prima enunciata, in kiss-kiss; insomma i sesti versi si stanno baciando e il ricordo dell’amore violento di Jim prosegue.
Tema del ritornello e della canzone è l’ultraviolence. Il rimando scontato è ad Arancia Meccanica, e alle sedute di ultraviolenza del protagonista Alex, sotto l’influsso dello stupefacente Latte+. A farci abbandonare questa ipotesi è, però, la quasi omofonia tra le parole ultraviolence e ultraviolet ( per questa intuizione devo ringraziare la canzone Ultraviolet di FKA Twigs): la natura di questa violenza è anche psicologica, oltre che fisica, e quindi invisibile proprio come la luce UV. In quel prefisso ultra è quindi insita la natura duplice della violenza. Altro segno di ciò che dicevo nella premessa: ecco che la tradizione, il riferimento a Kubrick, è presente e smentito, addirittura rovesciato. Lana gioca con il nostro orizzonte culturale e ci mette alla prova, insomma ci vuole fare impazzire è solo chi è pronto ad abbandonare l’orizzonte di senso a cui è abituato, può capire il tema della canzone in tutte le sue sfumature.
Il gioco delle omofonie prosegue nelle percezioni allucinatorie delle sirens e dei violins, anch’esse parole quasi omofoniche rispettivamente ai termini silence e violence. A parer mio è erroneo considerare quelle sirene come reali; esse rappresentano piuttosto, in riferimento alle figure mitologiche, la condizione di intrappolamento di Lana. Questa tendenza di liricizzazione piuttosto che di descrizione sembra trovare conferma nella violence che viene sublimata nella parola violins, nelle botte che diventano violini.
[Verse 2] 1 He used to call me poison 2 Like I was Poison Ivy 3 I could have died right there 4 'Cause he was right beside me 5 Jim raised me up, he hurt me but it felt like true love 6 Jim taught me that, loving him was never enough
Una variazione del tema del doppio con una pianta già incontrato: poison ivy è sia l’edera velenosa sia l’antieroina e femme fatale della DC Comics. In questo secondo verse Lana sembra proseguire la scena del primo: ce la immaginiamo accasciata, quasi svenuta e Jim al suo fianco. Prosegue anche la dualità irrisolta del rapporto che sfugge all’equazione violenza = male. Direbbe il poeta russo Brodskij che Lana con la sua arte prolunga la prospettiva della nostra sensibilità, dimostrando che l’attività estetica sfugge a qualsiasi morale prestabilita e provoca, poiché sfida il manicheismo di un giudizio rapido e perentorio. Esistono davvero rapporti che non ci rendono dipendenti? È possibile amare senza ossessione ci chiede la cantante attraverso i due occhi delle parole love e loving.
[Bridge] We could go back to New York Loving you was really hard We could go back to Woodstock Where they don't know who we are Heaven is on Earth I would do anything for you, baby Blessed is this union Crying tears of gold like lemonade
Di quei violini suonati dal vento L’ultimo bacio, mia dolce bambina Brucia sul viso come gocce di limone L’eroico coraggio di un feroce addio
Le prospettive interpretative aumentano, e si confondono, in questo bridge: Lana gioca con tutto quello che ci ha detto e non detto finora e aggiunge carne al fuoco. Una lettura letterale proietta la relazione di abuso con Jim (che si tratti dell’alcol o dell’uomo) a New York. È questa la città in cui la cantante inizia la sua carriera e cerca il riconoscimento, soprattutto nella comunità di autori e scrittori. La sua speranza era di ritrovare un clima accogliente e stimolante, come quello della Beat generation, che ha poi portato al movimento Hippie e a Woodstock. Speranza disattesa. E infatti il Paradiso è calato, per downgrade sulla Terra, così come la lacrima, per una speranza, infranta, o per la nostalgia, di una golden age, casca fino alla bocca e sa di limone, amaro e salato. È una belatedness salmodiante quella di Lana (la parola blessed è in effetti cantata per esteso e senza la contrazione tipica dell’inglese moderno, proprio a mimare la lettura della Bibbia), la nostalgia di un’epoca culturale prospera si fonde alla nostalgia universale del Paradiso Terrestre. Di nuovo domina il procedimento analogico, di nuovo Lana nella sua follia sovrappone la dimensione personale, storica e religiosa e crea una nuova intensità del sentimento della tardezza che ci è concesso di percepire attraverso l’ascolto.
Come potete osservare ho posto, subito sotto al bridge, quattro versi di Carmen Consoli. Perché? Principalmente per dimostrare la mia tesi iniziale: artiste lontanissime, che non si conoscono, ricorrono a simboli simili. È questa caratteristica a rendere l’arte potenzialmente fruibile da tutti. È la mia postura coraggiosa, che non ha paura di essere considerato un pazzo che vede cose che non esistono, a permettermi di potervi offrire questa possibile analogia e di creare un dialogo impossibile tra queste due artiste.
[Interlude] I love you the first time, I love you the last time Yo soy la princesa, comprende mis white lines 'Cause I'm your jazz singer and you're my cult leader I love you forever, I love you forever
Siamo arrivati alle battute finali. Osserviamo innanzitutto come il verbo I love racchiuda dapprima due tempi definiti, la prima e l’ultima volta, e poi si estenda all’infinito, per sempre. Lana è consapevole della sua operazione artistica: sta consegnando il ricordo ad una canzone, sta consegnando le sue esperienze di vita all’arte, consegnandole, come il suo amore, si auspica, ad un tempo indeterminato. E ci chiede, di fare lo sforzo di comprendere tra le righe, cioè di comprendere gli spazi bianchi, il non detto, e allo stesso tempo di non giudicarla (il riferimento alla cocaina, nel sintagma white lines, è quasi inequivocabile).
Mi auguro che questo articolo abbia gettato un po’ di luce su quel mistero che è la creazione di un’opera artistica, in questo caso specifico la composizione poetica, e che possa avervi fornito degli strumenti per individuare e apprezzare la follia degli artisti. Scriveva Sylvia Plath nel suo diario, memorandum a se stessa: rimani aggrappata alla vita. Rimaniamo allora aggrappati a ciò che ci rende vivi, alla nostra umanità, che è la capacità di essere pazzi e apprezzare la follia.