Kate Bush è una degli artisti più enigmatici ed eclettici della musica moderna, un personaggio dalla creatività strabiliante e di grande riservatezza. È estremamente probabile chiedersi, dopo aver ascoltato per la prima volta la celeberrima Wuthering Heights (1978), chi sia questa ragazzina di appena diciannove anni in grado di comporre da sola un brano basato sull’omonimo romanzo gotico di Emily Brontë e riuscire a scalare le classifiche di tutta Europa, compreso il suo nativo Regno Unito. Un tuffo nella sua discografia, in occasione dell’anniversario dell’uscita del primo volume della quarta stagione della serie Netflix Stranger Things, responsabile della ricomparsa in cima alle classifiche mondiali del suo singolo Running Up That Hill (A Deal with God)(1985), potrebbe suggerire la risposta a questa domanda.
Scoperta da David Gilmour, chitarrista dei Pink Floyd, pubblica il suo primo album, The Kick Inside, nel febbraio 1978: il disco contiene il precedentemente citato singolo d’esordio Wuthering Heights, da cui traspare immediatamente la sua maturità nella scrittura e un talento nella composizione del tutto fuori dal comune; del brano, e in seguito della sua carriera, colpisce una criptica stranezza melodrammatica, che si snoda in un testi inusuali e un delicato falsetto. Particolarmente degna di nota è la ballata The Man with A Child in His Eyes, in grado di catturare sfumature dell’amore solitamente comprese ben oltre gli anni dell’adolescenza. Seppur l’album perda di momento nella seconda parte, è un memorabile viaggio nella testa di un’adolescente dai pensieri ben più anziani.
Considerato lo straordinario successo del lavoro d’esordio, la sua casa discografica spinge la cantautrice britannica ad estrarre un secondo album nel novembre dello stesso anno: Lionheart è, infatti, una collezione di brani già composti ancora prima del suo debutto. Lo stile è, conseguentemente, molto simile all’album precedente; nonostante la fretta nei tempi di produzione e il disappunto dell’autrice stessa, emergono tracce di grande introspezione e classe. Spicca il tema della ferocia del mondo dello spettacolo nella tragiche Wow e Hammer Horror, accompagnato dalle prospettive sulla vita ancora innocenti di In Search of Peter Pan (con una deliziosa interpolazione di When You Wish Upon A Star dal classico Disney), Oh England My Lionheart e Don’t Push Your Foot on the Heartbrake.
A partire dalla sua terza fatica in studio, Never For Ever (1980), Kate Bush diventa sempre più coinvolta nella produzione, oltre che nella scrittura, della sua musica. Ispirata dall’amico Peter Gabriel nell’uso della Fairlight CMI, un sintetizzatore digitale, l’artista inglese comincia a sperimentare con suoni ed idee: un esempio sono i vetri infranti nell’irriverente Babooshka, un brano raffiguranteuna signora che, per testare la fedeltà del marito, comincia a scrivergli lettere d’amore firmandosi come la donna del titolo.
Si prosegue con i drammi intragenerazionali descritti in All We Ever Look For, ornata dal suono dei tacchi di una signora che apre la finestra su una festa spagnoleggiante, per approdare ad un altro omaggio alla letteratura inglese, Il giro di vite di Henry James, con la ipnotica The Infant Kiss. L’album si conclude con due tracce stupefacenti: Army Dreamers denuncia l’inutilità della morte dei bambini-soldato, e Breathing descrive il dramma delle armi nucleari dal punto di vista di un feto costretto a respirare i fumi tossici inalati dalla madre. Infine Never For Ever si chiude con grida strazianti che implorano di aver qualcosa da respirare, accompagnate da una disturbante cronaca dell’esplosione di una bomba nucleare.
Probabilmente ispirata dalla struttura inusuale della traccia conclusiva dell’album precedente, Bush compone il suo quarto album in totale autonomia: nel 1982 esce The Dreaming, un trionfo di sperimentazione, ma certamente poco immediato. La ragazzina sognante degli esordi è ormai sostituita da una giovane adulta dotata di una creatività quasi aggressiva: nessuna delle dieci tracce ricorda anche solo vagamente la struttura di un successo radiofonico; piuttosto scavano tutte a fondo nella condizione umana, esplorando il valore della conoscenza in Sat In Your Lap, l’oppressione di popoli indigeni da parte dell’Occidente in Pull Out The Pin e The Dreaming (cantata con un caricaturale accento australiano), la piena accettazione di se stessi in Leave It Open. Spiccano tra tutte Night of the Swallow, che onora le sue origini irlandesi, e Get Out of My House, un omaggio letterario a Shining di Stephen King.
Lo scarso immediato successo dell’album orienta la sua casa discografica verso musica più accessibile al grande pubblico: il frutto di questa richiesta è il capolavoro della cantautrice, Hounds of Love (1985). Il suo quinto album è, infatti, composto da due parti: la prima, Hounds of Love, è una collezione di canzoni dal respiro radiofonico; la seconda, The Ninth Wave, è una suite di sette brani che racconta l’esperienza di una donna naufraga in mare. L’album si apre con la splendida Running Up That Hill, uno spettacolare inno all’empatia nelle relazioni umane e un tripudio di geniali intuizioni di produzione (non c’è da stupirsi che sia riuscita a salvare Max dall’insidiosa cattiveria di Vecna); prosegue con la traccia che dà il titolo all’album, che narra la paura di innamorarsi di nuovo dopo una delusione, per poi arrivare a The Big Sky, perfettamente in grado di catturare la gioia infantile di guardare le nuvole; la prima parte si conclude con la meravigliosa Cloudbusting, guidata da un persistente violoncello, mostra il primo impatto di un figlio con la crudeltà del mondo. La seconda metà è un mirevole lavoro di immedesimazione in un contesto di profonda sofferenza e solitudine, in cui si mette in discussione se stessi e i propri rapporti umani, per trovare la forza di salvarsi dall’oceano in tempesta, soprattutto le ultime tre tracce trasmettono un palpabile senso di euforica liberazione.
Il grande successo di Hounds of Love, e la rinnovata sicurezza in stessa, portano Kate Bush a creare il suo sesto album, The Sensual World, distribuito nel 1989. Forse l’album sonoricamente più coeso della sua carriera: l’ispirazione dietro il titolo dell’album e della prima traccia è l’Ulisse di Joyce, in particolare il monologo finale di Molly in cui prende piena percezione sensoriale del mondo. Il disco, poi, si snoda in una straordinaria combinazione di suoni tipici degli ’80 e richiami al folklore est-europeo, anche grazie alla partecipazione di un coro bulgaro (il Trio Bulgarka) in molteplici tracce. È difficile non notare il bizzarro testo di Heads We’re Dancing, nel quale una donna si rende conto, solo il mattino seguente, di aver ballato tutta la sera con Hitler; o la profetica Deeper Understanding, che descrive il rapporto morboso di un uomo con il suo computer. Le tracce più oscure sono certamente bilanciate dalle rassicuranti Love And Anger e Reaching Out, per concluder con la magnifica ballata al piano This Woman’s Work, la dolce descrizione della paura di diventare genitori.
A seguito di importanti lutti e perdite, viene pubblicato nel 1993 il suo settimo lavoro The Red Shoes, che prende spunto dalla favola Le Scarpette Rosse di Hans Christian Andersen, in cui una ballerina non riesce a trovare pace perché le sue scarpe non la fanno smettere di ballare. Il messaggio è chiaro: le sue tendenze perfezioniste e i lutti famigliari sono la causa del suo esaurimento. Dichiara di voler essere una Rubberband Girl, che si fa scivolare le cose e si adatta a tutte le situazioni, ma in realtà è davvero stanca, ferita e delusa. Il dispiacere della scomparsa di persone a lei care, compresa sua madre, è racchiusa nella struggente Moments of Pleasure in cui le nomina una per una. La delusione di una relazione fallita permea i brani And So Is Love, You’re The One e Why Should I Love You?, una sapientemente nascosta collaborazione con Prince.
Ritorna dopo ben dodici anni di assenza, con il doppio album Aerial (2005): il primo disco, intitolato A Sea of Honey, raggruppa canzoni dai temi e generi più disparati, ballate al piano dedicate alla propria lavatrice, brani soft-rock che celebrano Elvis Presley, Giovanna D’Arco e il pi greco, una danza rinascimentale per il figlio Bertie; il secondo disco, A Sky of Honey, è una suite che ricopre un’intera giornata in mezzo alla natura, dove si sente il canto degli uccelli in ognuna delle splendide tracce.
La sua ultima raccolta di brani inediti risale al 2011, 50 Words For Snow: l’album vede l’autrice reinventarsi per l’ennesima volta sperimentando con canzoni di lunghissima durata (il disco ha solo 7 tracce ma dura più di un’ora), la maggior parte del minutaggio è occupato solo da piano e voce, con arrangiamenti sparsi, a costruire un rassicurante quadro invernale. La traccia di apertura Snowflake descrive la caduta di un fiocco di neve, “interpretato” dal figlio Bertie; Misty racconta i sogni erotici di un pupazzo di neve; Snowed In At Wheeler Street è un emozionante duetto con Elton John nel quale impersonano due amanti che si inseguono nel corso dei millenni, senza mai trovare il tempo giusto per amarsi; le 50 Words For Snow del titolo sono elencate da Stephen Fry nell’omonima traccia.
Kate Bush è davvero una donna dai mille volti, una figura tanto sfuggente quanto incisiva, una “timida megalomane” come si è definita lei stessa. La sua raccolta musicale è un intero universo da esplorare: ogni album svela qualcosa in più di sé ad ogni ascolto, nessuna traccia è mai veramente simile alle altre e il contenuto lirico viene proposto senza freni. Con i suoi video musicali dalle coreografie elaborate e dagli sguardi spiritati, è riuscita a dimostrare che è possibile emergere senza rinunciare a niente di sé, che non serve abbandonare quella sana dose di follia per ricevere consensi e influenzare future generazioni di musicisti. Kate Bush è un raro caso di un’autrice in pieno controllo della sua produzione artistica, della scrittura e rappresentazione visiva delle sue opere. La sua musica è così straordinaria da far pensare che forse il patto con Dio che chiedeva in Running Up That Hill sia effettivamente avvenuto.
di Matteo Mallia
Mi chiamo Matteo, mi vanto di essere nato in un anno con 3 zeri, frequento la facoltà di Ingegneria Fisica al Politecnico di Milano, fin da piccolo ho sviluppato un’inguaribile passione verso i libri. Amo la musica: mi piacciono solo le cantanti con il nome d’arte che inizia con la L (sta a voi indovinare!) ma la mia preferita è Taylor Swift. Non riesco a non dire la mia opinione su film e serie TV, non lo farò nemmeno questa volta.