“Era meglio il libro”: sulla trasposizione
Il cinema ha vampirizzato le altre arti fin dalla sua nascita. Dalle interpretazioni mute delle maggiori opere liriche, a inizio Novecento, alle prime rappresentazioni filmate dell’Inferno dantesco, i pionieri della Settima Arte si sono sempre appellati alle sue sorelle maggiori per cercare di ottenere il riconoscimento di una dignità intellettuale e artistica. Un caso che limpidamente esprime questa volontà è quello di Cabiria, film del 1914 diretto da Giovanni Pastrone per la Itala Film: ben prima delle teorie sull’autorialità nel cinema, il primo grande kolossal venne pubblicizzato più o meno ovunque come un prodotto della penna di Gabriele D’Annunzio. Nella realtà, il Vate si limitò a scrivere – pare anche svogliatamente – un paio dei cartelli del film, tuttavia il suo nome attirò masse di pubblico e i plausi della critica intellettuale, come possiamo leggere in una celebre recensione dell’epoca, firmata da Matilde Serao per Il Giorno1.
D’altronde, questa strana avventura che è il cinema nasce lontana dal Parnaso. Quando, nel 1895, i fratelli Lumière rivelano a Parigi la loro macchina delle meraviglie, il cinematografo si aggira tra gli scaffali polverosi dell’Ufficio Brevetti, le piccole aule delle accademie di scienza, e soprattutto i tendoni delle fiere, pronto a meravigliare il popolino. Oltreoceano, dove Thomas Edison aveva già subodorato il potenziale commerciale delle immagini in movimento, tutti, in pieno stile American Dream, potevano divertirsi con qualche trucco di Méliès o un inseguimento serrato alla Griffith, alla modica cifra di un nichelino.
Come dicevamo, però, già a pochi anni dalla sua nascita, il cinema comincia a sentire l’esigenza di attingere ai grandi capolavori della letteratura (e alle biografie dei maggiori personaggi storici). Da una parte, questo permetteva di attirare le élites più snob, le quali sarebbero venute al cinematografo più volentieri per un Amleto con la grande attrice Sarah Bernhardt, piuttosto che per una comica di Cretinetti. Dall’altra, il pubblico di massa, poco alfabetizzato, avrebbe riconosciuto ugualmente le storie raccontate, anche se a grandi linee, di fatto aprendo la strada anche a una valenza pedagogica del nuovo mezzo. Proprio ispirandosi al romanzo dell’Ottocento, poi, David Wark Griffith riuscirà nell’impresa di salvare il cinema dal puro intrattenimento, trasportandolo dalle sue rudimentali origini a un sistema produttivo moderno e sempre più canonizzato, quando realizzerà il primo lungometraggio ad arrivare nelle sale cinematografiche, Nascita di una nazione (1915), non a caso adattato da un romanzo – The Clansman di Thomas Dixon Jr..
Al giorno d’oggi, il sorgere di una nuova ondata di cinefilia diffusa e lo status ormai pienamente istituzionale dei premi cinematografici non dovrebbe più far dubitare dell’artisticità del mezzo cinema. Eppure, questo sembra ricoprire tuttora per molti un ruolo ancillare nei confronti del suo eterno nemico-amico: il libro. Quante volte ci è capitato di sentire, o di dire noi stessi, “il libro è sempre meglio del film”? Quante altre abbiamo sentito un docente rimproverare un pigro alunno per aver guardato l’adattamento cinematografico di un libro assegnato per le vacanze estive, invece di leggere l’originale?
Io stessa, essendo un’avida lettrice da ben prima di sviluppare la passione per il cinema, mi sono spesso interrogata su come dovessi pormi rispetto a un adattamento di un libro che avevo letto, o peggio ancora che volevo leggere. La risposta che sono arrivata a darmi è sicuramente banale, ma forse è anche parzialmente sottovalutata. Signore e signori, il cinema e la letteratura non sono la stessa cosa.
La trasformazione del testo scritto in immagini, infatti, propone a sceneggiatori e registi numerosi ostacoli, dalle caratteristiche fisiche degli attori, da abbinare a quelle dei personaggi di carta, alla ricostruzione visiva dei luoghi e delle atmosfere evocati da un vocabolario sapiente, alla scelta delle vicende da includere. Quest’ultimo punto è, secondo me, il più interessante, in quanto la deliberata scelta di cosa portare sullo schermo può essere un indicatore lampante dei valori correnti. Cercherò di spiegarmi meglio con un esempio.
Tra gli innumerevoli adattamenti del capolavoro di Lev’ Tolstoj, Anna Karenina, vorrei confrontare la pellicola del 1935, diretta da Clarence Brown, con il film del 2012, per la regia di Joe Wright. A quasi ottant’anni di distanza, infatti, possiamo notare notevoli differenze, ma anche curiosi punti in comune. Ad esempio, la scelta delle attrici impiegate nel ruolo principale, da una parte Greta Garbo e dall’altra Keira Knightley, risponde all’esigenza di un’Anna elegante, aristocratica, con una certa freddezza di fondo (probabilmente derivante da uno stereotipo nei confronti del popolo russo e certamente non dal personaggio di Tolstoj, uno dei più passionali della letteratura mondiale). Freddezza che, com’è noto, era tipica dell’immagine e della recitazione di Garbo e che anche Knightley esprime attraverso la secchezza, rigidità, geometria del corpo e del viso magrissimi. Inoltre, entrambe le attrici sono, al momento dell’uscita dei rispettivi film, delle dive in grado di attirare una grande fetta di pubblico, anche se sull’orlo di un periodo calante della carriera, e legate a ruoli simili, per certi aspetti, a quello dell’adultera russa: l’aristocratica europea per Garbo (già regina Cristina2), l’eroina romantica e ribelle per Knightley – interprete di Lizzie Bennet3, Lady Georgiana Spencer4 ed Elizabeth Swann nella saga di Pirati dei Caraibi.
Dove i due film differiscono è, appunto, nella scelta dell’aspetto da evidenziare del colossale romanzo-mondo. Il film del 2012, infatti, si concentra sull’aspetto “mediatico” della relazione extraconiugale di Anna e Vronsky, sull’attenzione maniacale catalizzata dalla loro palese dimenticanza delle regole della buona società ipocrita e fragile. Wright cerca di esprimere questo concetto, decisamente calzante nell’epoca social, ambientando l’intera vicenda all’interno di un elegante teatro in disuso, nel quale i personaggi si muovono come burattini impazziti. Nella versione con Garbo, invece, salta subito all’occhio la dimensione materna di Anna, l’affetto da lei provato per il figlio Serjoža, usato anche come arma di ricatto dal padre Aleksej Aleksandrovič. In un’epoca di forte censura negli Stati Uniti, dentro e fuori le mura di Hollywood, in cui la Grande Depressione e il codice Hays avevano decretato un ridimensionamento dell’emancipazione femminile degli anni ’20, questa scelta non può non far pensare ad un addomesticamento della figura “ribelle” dell’adultera Anna Karenina (la quale paga con la vita il rifiuto delle norme patriarcali), ma anche della diva Greta Garbo, spesso al centro delle cronache mondane per via di comportamenti licenziosi e inaccettabili, tra cui, a sentire le malelingue, anche relazioni con donne. Anche il suicidio finale della protagonista viene vissuto in modo praticamente opposto: Knightley è l’eroina tragica, immolatasi perché non riesce più a sopportare la crudeltà degli uomini nei suoi confronti; Garbo è la giudiziosa, seppur traviata, madre di famiglia che capisce di non poter lavare la macchia sulla propria reputazione se non con il proprio sangue.
A mio parere, alla luce di quanto appena detto, diventa difficile decretare un vincitore nell’eterna gara tra il libro e il film: quello che uno non può offrire (l’interiorità dei personaggi, un uso talvolta sublime della nostra lingua, la lunghezza di riflessioni intellettuali), è compensato dalle peculiarità dell’altro (la cura nella ricostruzione di luoghi, costumi e ambientazioni a volte lontanissime nello spazio e nel tempo, la bellezza di alcune immagini, musica emblematica di sentimenti o situazioni). Inoltre, se la lettura, a partire dall’invenzione gutemberghiana, è diventata un fatto sempre più privato, quindi conciliante l’auto-analisi e la riflessione personale, quando guardiamo un film ci mettiamo sempre in dialogo con l’immaginazione e le riflessioni di altri, che possono aver trovato degli spunti completamente diversi, ma non per questo meno interessanti, a partire dalla stessa, identica materia prima.
Anche guardando la questione da un lato meno idealista, tuttavia, non è difficile rintracciare il duraturo successo della pratica dell’adattamento televisivo. Il cinema, infatti, è da sempre una pratica commerciale, un’arte che è anche industria, e questo implica una quota di pragmatismo economico nelle scelte di produzione, almeno per il cinema mainstream – ma anche il cinema underground o d’autore non disdegna di ispirarsi a opere preesistenti: cito Agent Lemmy Caution: Mission Alphaville (J.L. Godard, 1965) come esempio principe. Come agli albori, anche oggi un produttore cinematografico sa di puntare sul sicuro adattando un classico o, al contrario, un successo editoriale recente. Sulla questione, su consiglio della sempre precisa Vittoria Tosatto, rimando a L’adattamento da letteratura a cinema. Volume I. Teoria e pratica, Armando Fumagalli, Dino Audino, Roma 2020.
Il pubblico, dal canto suo, continua a ripagare questa scelta: non sono forse adattamenti i film Marvel? Peraltro, adattamenti di letteratura “bassa”, quei fumetti che pochi anni fa non meritavano neanche il riconoscimento di “arte”. Così come non mancano sugli schermi trasposizioni dei libri più amati su TikTok, ma anche degli intramontabili (consiglio a tutti la visione del recente Emma., A. De Wilde, 2020).
E allora, viene da chiedersi, tutta questa ostinazione a ripeterci che “era meglio il libro”, non sarà forse qualche residuo snobistico che ci porta a considerare ancora il cinema come arte di serie B? Che poi, ammettetelo, il libro non l’avete letto nemmeno voi.
Note
- M. Serao, Chi si commoverà? Chi ammirerà?, «La Cine-Fono» [n. 280, 9 maggio 1914, 49].
- La regina Cristina (Queen Christina, R. Mamoulian, 1933).
- Orgoglio e Pregiudizio (Pride and Prejudice, J. Wright, 2005).
- La duchessa (The Duchess, S. Dibb, 2008).
Tra le righe
Editoriale · L’Eclisse
Anno 3 · N° 2 · Maggio 2023
Copertina di Laura Maroccia.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo editoriale: Greta Beluffi, Ludovica Borelli, Matteo Capra, Michele Carenini, Anna Cosentini, Joanna Dema, Clara Femia, Eugenia Gandini, Marta Gatti, Chiara Gianfreda, Nikolin Lasku, Rosamaria Losito, Matteo Mallia, Erica Marchetti, Laura Maroccia, Giovanni Melli, Marcello Monti, Valentina Oger, Alessandro Orlandi, Matteo Paguri, Luca Ruffini, Arianna Savelli, Tommaso Strada, Vittoria Tosatto, Marta Tucci, Marta Urriani.