Gibuti, un desolato pezzo di terra africana apparentemente marginale, privo di risorse naturali e con un’estensione pari a quella della nostra Emilia Romagna, nasconde un enorme potenziale geostrategico. Al crocevia tra i continenti africano ed euroasiatico, il Gibuti si affaccia sullo stretto di Bab al-Mandab, anche chiamato “Porta delle Lacrime”: situato tra il Mar Rosso ed il Golfo di Aden, questo passaggio marittimo, che non supera le 16 miglia nautiche, è uno dei più trafficati al mondo e rappresenta una via fondamentale per il commercio internazionale. Lo sfortunato soprannome è dovuto all’insidiosità del territorio, soggetto a forti correnti e tempeste improvvise, che hanno causato molti naufragi e morti nel corso dei secoli. Secondo la tradizione, le “lacrime” sono quelle appartenenti alle anime perdute di chi è annegato in quelle acque tempestose.
Leggende a parte, il Gibuti non passa sicuramente inosservato: infatti, a godere della sua posizione vantaggiosa oggigiorno ci sono l’America, la Cina, il Giappone, la Turchia, la Francia e l’Italia. Le sei potenze possiedono basi militari di grande importanza disperse all’interno dei confini gibutiani (anche Germania, Regno Unito e Spagna sono presenti militarmente, tramite l’appoggio garantito delle basi militari dei loro alleati): questo Paese-caserma alloggia il più elevato numero di basi militari estere sul pianeta. È il solo posto al mondo dove le due superpotenze rivali, Cina e Stati Uniti, si possono spiare da vicino (così come tutti gli altri paesi). Un vero e proprio “nido di spie”.
Ma la storia di Gibuti come avamposto militare non è una questione recente. I primi a sfruttare questo territorio furono, nel Medioevo, i sultanati musulmani, vassalli dell’Abissinia, che per conto degli arabi trafficavano gli schiavi. La cosiddetta “tratta del Mar Rosso”, infatti, collegava l’Etiopia con la zona mediorientale (Iran, Arabia Saudita, paesi del Golfo ecc.).
Nel 1884 la Francia consolidò la sua presenza nel Corno d’Africa issando qui la propria bandiera e decretando la creazione della costa francese somala, compresa tra l’Eritrea italiana e il Somaliland britannico. La Francia, in questo periodo di intense competizioni imperialistiche segnato dalla Conferenza di Berlino, si rese conto dell’importanza strategica della regione e decise di rafforzare il controllo sul porto di Obock, già sotto il suo dominio, per mantenere una posizione strategica nel golfo di Aden. In tal modo, la Francia sarebbe riuscita a prevenire qualsiasi tentativo di invasione della propria colonia da parte delle potenze rivali, britannici e italiani. Nelle grandi battaglie degli imperi coloniali, la Francia riuscì così a conservare una posizione chiave a Gibuti.
La “svolta” per il Gibuti avviene però durante la decolonizzazione dell’Africa, negli anni Cinquanta. Il sogno imperialista finisce, gli imperi coloniali iniziano a dissolversi e il Gibuti, ancora francese, è ambito sia dalla Somalia, desiderosa di estendersi, sia dall’Etiopia, dove Hailé Selassié ritiene necessario un accesso al mare. Nessuno di questi due Paesi porterà avanti questo obiettivo, ed ecco che, finalmente, nel 1977 il Gibuti dichiara la sua indipendenza, uscendo ufficialmente dalla tutela francese.
Negli anni Novanta il Gibuti esplose in un conflitto interno, apice di una rivalità storica tra la comunità Afar (minoranza afroasiatica) e quella Issa (somala). La ribellione Afar imbracciò le armi contro il regime degli Issa, che uscirà vittorioso da questo conflitto nel ’94.
Oggi il Gibuti vive sotto il governo autoritario di Ismail Omar Guelleh, presidente dal 1999. Il regime è autore di tortura, traffico di esseri umani e corruzione. L’Indice di Sviluppo Umano rispecchia perfettamente questa situazione: il Gibuti infatti si colloca al 171° posto su 193 paesi, alla fine della scala dell’ISU, nella fascia bassa. La tragica situazione interna del Gibuti passa sicuramente in secondo piano rispetto agli interessi strategici delle grandi potenze che sgomitano su questo territorio. Anzi, proprio perché la terra viene affittata agli stranieri, il governo gibutiano incassa una quantità di denaro notevole: se gli Stati Uniti pagano 63 milioni di dollari l’anno per un contratto di locazione dell’area di 10 anni, la Cina paga 20 milioni di dollari l’anno.
Avvicinandosi al “nido di spie” si possono scorgere istantaneamente gli Stati Uniti, che nel 2002 hanno costruito una base permanente, a Camp Lemonnier, e che accoglie quattromila soldati e contractor, dozzine di elicotteri, caccia, aerei da pattugliamento marittimo e tante altre risorse militari. A Camp Lemonnier trovano spazio anche le unità antiterrorismo e le forze di intervento rapido del Pentagono, che, dopo il trauma dell’11 settembre, seguito dalla dichiarazione di guerra mondiale al terrorismo lanciata da Bush, godono di una posizione di sorveglianza unica sulle regioni con un’elevata concentrazione di reti jihadiste. I quattromila marines sono principalmente impegnati contro Al-Shabaab in Somalia, che si oppone al governo di Mogadiscio, e contro Al-Quaeda e gli Houthi nello Yemen.
Da due decenni anche la Cina ha riconosciuto l’importanza di una presenza militare nel Gibuti, costruendo così al suo interno la sua prima base militare all’estero. Gibuti è, per la Cina, il più importante snodo per l’iniziativa della Nuova Via della Seta, uno dei più grandi progetti geopolitici ed infrastrutturali, lanciato da Xi Jinping e portato avanti grazie a investimenti pubblici e privati e opere di finanziamento, offerti dalla Cina in cambio dell’accesso alle risorse. “Lontano” dalle basi occidentali, infatti, 400 soldati cinesi vivono isolati con la missione di proteggere gli scambi commerciali con il continente africano. Un indebitamento record quello coi cinesi, ben il 45% del PIL gibutiano. Per arginare l’influenza cinese, è sbarcato nel Gibuti anche il Giappone con forze aeree, navali e un contingente militare.
La porzione europea di questo epicentro strategico vede innanzitutto la Francia, seppur molto meno influente che in passato, con basi interforze, aree e navali, e 1450 soldati in permanenza. La base italiana, invece, è operativa dal 2012 ed è intitolata al Tenente Amedeo Guillet, il “Comandante Diavolo”, chiamato così per la sua straordinaria capacità di condurre azioni di guerriglia contro le truppe britanniche, riuscendo a combattere in clandestinità anche mesi dopo la caduta del Regno d’Italia in Etiopia nel 1941.
Il governo gibutiano trae non poco vantaggio dalla presenza di basi straniere (solo da USA e Cina riceve 100 milioni di dollari l’anno): infatti, ha concesso basi anche alla Turchia e all’Arabia Saudita (che ormai investe principalmente nel porto di Berbera, in Somalia, che potrebbe far concorrenza al Gibuti come sbocco marittimo etiope).
Il Gibuti ha così due facce. La prima è caratterizzata da grattacieli e costruzioni dal gusto occidentale, vissuta dai parenti e i fidati sodali dell’autocrate Guelleh, che costruiscono la loro ricchezza grazie a sgravi fiscali e corruzione. E poi, la faccia che si nasconde sotto l’ombra di questi immensi palazzi, quella dei quartieri abitati da migranti in fuga dalla guerra, che soffrono a causa della fame e della periodica siccità. La maggior parte del paesaggio è arido e rinsecchito: è da qui che Dino Buzzati, inviato dal Corriere della Sera, vide il fortino abbandonato che gli ispirò il Deserto dei Tartari.
Il distacco tra le due realtà è garantito dal crescente interesse straniero e dagli ingenti investimenti verso il Gibuti, soprattutto dopo l’inizio della guerra a Gaza. D’altro canto, a rendere pericoloso il passaggio di Bab al-Mandab, ci sono i ripetuti attacchi degli Houthi yemeniti, ad esempio quelli contro i mercantili diretti in Israele o di presunta proprietà israeliana, che hanno costretto molte compagnie di navigazione a optare per nuove rotte, più tortuose, distanti ed economicamente impegnative. L’Unione Europea, come risposta a questi attacchi, ha installato una task force navale per garantire la sicurezza delle acque del Mar Rosso e del Golfo di Aden.
Bibliografia
1. La Repubblica, “A Gibuti s’incontrano tutti i soldati del mondo” Reportage di Giovanni Porzio, 19 Maggio 2024
2. Arte, Dietro le Mappe, “Gibuti: un crocevia di ambizioni geopolitiche”, 25 Novembre 2023
3. Rivista Limes, “Il fascino indiscreto di Gibuti” di Laura Canali, 26 Luglio 2019
4. Rivista Domino, “Viaggio a Gibuti” di M. Giusti, 14 Maggio 2024
Carlotta Pedà
Carlotta, classe 2003, nata e cresciuta nel grigiore del capoluogo lombardo, seppur con radici meridionali. Per scappare dalla pioggia milanese mi rifugio al cinema, in palestra di arrampicata o all’università. Studio International Politics and Law all’Università degli Studi di Milano con la vana aspirazione di comprendere meglio il funzionamento di questo strano mondo. Se nella foto sembro antipatica è perché vengo male quando sorrido.