Il 25 ottobre scorso Halsey è tornata con la sua quinta fatica in studio, l’album The Great Impersonator. Quest’ultimo lavoro trova la sua genesi a seguito di un periodo estremamente travagliato per la cantautrice americana, reduce da un traumatizzante trascorso personale, una battaglia tra la vita e la morte contro il cancro. Halsey ha temuto che questa sarebbe stata l’ultima volta in cui entrava in studio per registrare le sue canzoni, tormentata dalla paura di lasciare da solo suo figlio. Queste intense preoccupazioni e dolori sono stati distillati in quella che probabilmente è l’opera migliore dell’artista: un concept album dai testi struggenti che arrivano, tragicamente genuini e “vissuti”, dritti al cuore grazie alla convincente scrittura e interpretazione.
Il disco si basa sulla domanda di chi sarebbe stata Halsey come artista nei decenni passati, a partire dagli anni ’70 fino ai primi anni 2000: spaventata dall’idea di non aver più tempo a disposizione, fa un tuffo nel passato e trova l’ispirazione dai suoi più grandi riferimenti musicali. Ognuna delle 18 tracce è, infatti, dedicata e ispirata ad una leggenda della musica che l’artista americana impersona e incanala per raccontare la sua storia: da qui è scaturita una brillante campagna promozionale sui social della cantante, dove ogni giorno pubblicava foto che la ritraevano nel ricreare i look iconici dei suoi idoli, tra cui David Bowie, Cher, Kate Bush e Britney Spears.
Nonostante la trazione in rete, la preoccupazione che questo impersonare gli altri l’avrebbe messa in ombra era perfettamente lecita, ma è sufficiente anche solo un ascolto per cogliere quanto questo timore sia infondato: l’identità di Halsey traspare più forte che mai in un susseguirsi estremamente coeso di brani interpretati con genuina passione e pieni di vita, nonostante le tematiche. La cantante del New Jersey è arrivata alla ribalta dopo essersi costruita una community su tumblr, arrivando sulla scena dell’alternative pop con l’ormai iconico album Badlands (2015); in seguito, si è sempre ritrovata in bilico tra il perseguire i suoi istinti più creativi e cercare il successo da classifica con brani come Closer e Without Me. Con The Great Impersonator non resta più alcun dubbio su quale fronte sia quello in cui Halsey si trova più a suo agio.
Ciascuno brano presente nel disco è un tassello essenziale di un’analisi profonda e sfaccettata di sé: il fulcro della narrazione è la battaglia della cantante contro la malattia e come questa sfocia inevitabilmente nel suo modo di relazionarsi con sé stessa, con le figure-cardine della sua vita e con Dio. Nonostante sia consapevole di non essere l’unica al mondo a soffrire, come sottolinea in Only Living Girl in LA, la sua condizione di profondo dolore fisico e mentale la spinge a mettere in discussione i suoi rapporti e il suo passato.
Le tre colonne portanti del racconto sono le tracce omonime Letter to God, differenziate solo dal decennio musicale da cui prendono ispirazione. Nella prima, del 1974, l’autrice si immedesima nella sé bambina, quando pregava Dio di poter esser malata, perché invidiosa di un bambino di 5 anni con la leucemia, sempre sotto la premurosa attenzione dei genitori: il motivo di tale disperazione è chiaramente il suo contesto familiare disfunzionale, un padre assente e violento spesso in litigio con la madre. Halsey è sicura che, invece, a casa di quel suo amico i genitori non litighino, che la famiglia sia unita nell’aiutarlo a combattere la sua malattia, e che lui non debba fare nulla per renderli felici, ma sia sufficiente che resti in vita come dichiara nel verso «he didn’t have to clean his room, it was enough to be alive»1.
Nella seconda Letter to God, del 1983, si rende conto che le sue preghiere da bambina sono state avverate quando era finalmente felice: ora è lei quella con gli aghi nelle braccia, costantemente indebolita dai trattamenti medici giornalieri. Halsey cambia le sue preghiere («Please God, I don’t wanna be sick»2), ora ha troppo da perdere per poter accettare che tutto quello che ha costruito si disintegri di fronte ai suoi occhi.
Nell’ultima, del 1998, prega Dio di lasciarle del tempo da passare con suo figlio, perché ha finalmente trovato l’amore che ha cercato per tutta la vita. Da pelle d’oca il momento in cui muta per la terza volta i suoi desideri e il suo rapporto con Dio: «Please God, you’ve gotta be sick, why do you have to make it hurt and why is it over so quick?»3, com’è possibile che Dio voglia che soffra così tanto e che tutto finisca così presto? Le tre versioni della canzone e del suo ritornello sono un vero e proprio manifesto del viaggio narrativo in cui siamo accompagnati durante l’ascolto: ogni evoluzione, dubbio e sconvolgimento delle priorità è giustificato e validato dalla brillante scrittura; ogni canzone è una scena che caratterizza l’eroina di questo autobiografico bildungsroman.
L’infanzia difficile e l’emancipazione da essa vengono affrontati in I believe in Magic, una splendida ballata sullo scorrere inesorabile del tempo, tra il vedere la madre invecchiare e suo figlio crescere fin troppo velocemente, e in Hurt Feelings, in cui rimugina sui sentimenti conflittuali che prova verso il padre assente: si rende conto di averlo appoggiato nello sminuire la madre solo per avere le sue attenzioni, si interroga se contattarlo ora che è “canuto e bianco” e le sembra innocuo, oppure se salvarsi da un altro scherzo del destino. L’abile penna di Halsey racchiude tutto questo tormento nello splendido verso «you didn’t chase me through the park, so now I’m chasing you»4.
La disfunzionalità del mancato affetto del genitore si intreccia con le delusioni sentimentali in età adulta della cantante: Life of the Spider è un brutale e straziante ritratto della relazione con il padre di suo figlio, un uomo debole e narcisista; piuttosto che supportarla ad attraversare un lungo periodo di cure, è rimasto schifato dalla sua condizione come se lei fosse un ragno mostruoso nel bagno, da uccidere quando meno se lo aspetta, da intrappolare in un bicchiere per bearsi dello squilibrio di potere instauratosi, da far dondolare sopra lo scarico del gabinetto prima di farla fuori. Nella lapidaria Arsonist, giunge alla conclusione che alcuni uomini non sono in grado di amare, che questa è una capacità che alla nascita non hanno ricevuto e sono condannati a lasciarsi alle spalle solo terra bruciata, mentre scappano dalle vite che hanno distrutto.
Questa lacerante solitudine fa da catalizzatore per il momento più alto del disco, la superba Lonely is the Muse: un bravo alternative rock, associato nella campagna promozionale per questo album ad Amy Lee degli Evanescence. In un crescendo continuo di tensione e sgomento, sostenuto da delle chitarre “sporche”, con potenti riverberi e linee di basso poderose, Halsey racconta di essere stata musa di uomini che l’hanno usata allo scopo di trovare l’ispirazione per scrivere musica con certificazioni di platino («I’ve inspired platinum records»5). Racconta anche come qualcun altro abbia contribuito a costruire o distruggere la sua immagine pubblica («I’ve spent years becoming cool and in one single second you can make a decade of my efforts disappear»6). Nella tempesta di questo subbuglio, tuttavia, si rende conto della pungente ironia di non essere priva di colpe, ed essersi guadagnata due dischi di diamante con delle canzoni ispirate dalla sua vita privata («I’ve mined a couple diamonds from the stories in my head»7), forse addirittura beffandosi di aver avuto più successo degli uomini che ha frequentato; nonostante ciò, sa bene che è impossibile scappare dal senso di solitudine e impotenza di dare in pasto al pubblico la sua intimità («I’m reduced to just a body here in someone else’s bed»8), solo per collezionare emozioni da tramutare in musica per scalare classifiche. Halsey riconosce con disprezzo la sua inclinazione ad imporsi una metamorfosi per assecondare le preferenze degli uomini («I can always reassemble to fit perfectly for you or anybody that decides that I’m of use»9); si accorge di essere ridotta ad un mero utensile («I’m just an apparatus»10) da adoperare per collezionare materiale su cui basare testi, scritti da uomini che la spremono emotivamente solo per aver entrambi qualcosa da cantare. In Darwinism, arriva persino a chiedersi se questo suo atteggiamento da consapevole mutaforma («what if I’m just cosmic dust?»11), sradicato dalle norme relazionali («You all know something that I don’t»12), cosciente di essere emarginato, sia un suo deficit evolutivo («You all grew body parts I fear I’ll never grow»13).
The Great Impersonator è, in conclusione, un lavoro dalla scrittura minuziosamente sfaccettata e stratificata; nonostante la copiosa quantità di autoproclamate ispirazioni e la persistente e lugubre aura di morte e dolore che lo permea, la vera Halsey arriva a gran voce e spicca più viva che mai.
Note
- Non aveva bisogno di pulire la sua camera [per far sì che i suoi genitori fossero contenti di lui], era abbastanza che fosse vivo
- Per favore Dio, non voglio essere malata
- Per favore Dio, non devi star bene, perché fai in modo che stiamo male e perché finisce tutto così presto?
- Non mi hai mai rincorso al parco, quindi io ora rincorro te
- Ho ispirato dischi di platino
- Ho speso anni a diventare di tendenza e in un singolo secondo puoi far scomparire gli sforzi di un decennio
- Ho estratto un paio di diamanti dalle storie nella mia testa
- Sono ridotta solo ad un corpo qui nel letto di qualcun altro
- Mi posso sempre riassemblare per inserirmi perfettamente, per te o per chiunque decida che gli posso essere utile
- Sono solo uno strumento
- E se fossi solo polvere cosmica?
- Voi tutti sapete qualcosa che io non so
- A tutti voi sono cresciute delle parti del corpo che temo a me non cresceranno mai
Matteo Mallia
Mi chiamo Matteo, mi vanto di essere nato in un anno con 3 zeri, frequento la facoltà di Ingegneria Fisica al Politecnico di Milano, fin da piccolo ho sviluppato un’inguaribile passione verso i libri. Amo la musica: mi piacciono solo le cantanti con il nome d’arte che inizia con la L (sta a voi indovinare!) ma la mia preferita è Taylor Swift. Non riesco a non dire la mia opinione su film e serie TV, non lo farò nemmeno questa volta.