Ogni tanto mi ricordo di controllare la mia lista di cose da vedere su Netflix, e mi sorprendo di trovarci titoli che nemmeno ricordo: c’è Una donna promettente che mi segue da quando era su un’altra piattaforma, oppure L’ultimo dei Mohicani, che nemmeno mi fa impazzire – ma Daniel Day-Lewis con quello sguardo da eroe maledetto lo fa restare nella watchlist, anche solo per onorare una canzone di Calcutta che mi fa sbellicare. Come, del resto, la mia abitudine a procrastinare le cose che vorrei guardare, ma di cui finisco per dimenticarmi. Birthcare Center, invece, è una di quelle serie che sono molto contenta di aver recuperato la scorsa estate, dopo un primo approccio ai k-drama fallito qualche anno fa con l’infinita epopea di Moon Embracing The Sun, ambientata in un passato fatto di vesti tradizionali e intrighi di palazzo.
Per chi non ne avesse mai sentito parlare, ‘k-drama’ è l’abbreviazione di korean drama, in soldoni le serie televisive sudcoreane. Con la diffusione mondiale del k-pop (cioè la musica pop del Paese), negli ultimi quindici anni la cultura e i prodotti d’intrattenimento della Corea del Sud hanno conosciuto una straordinaria ondata di popolarità fuori dall’Asia, culminato con il successo di Parasite agli Oscar e Squid Game su Netflix. I k-drama sono presenti su tutte le piattaforme, pur rappresentando una nicchia in confronto al mercato europeo e nordamericano. Personalmente, pensavo che l’abitudine di guardare anime e live action giapponesi avrebbe facilitato la visione dei k-drama e, in effetti, da un lato lo “shock” culturale è stato minore, anche se non ho ancora l’orecchio abbastanza allenato da riuscire a riconoscere i nomi dei personaggi, cosa che col giapponese (sottotitolato in inglese o italiano, s’intende) non mi succede.
Dall’altro, credo di essere diventata una spettatrice abbastanza selettiva da capire se e quando vale la pena arrivare all’ultimo episodio. Se con Moon Embracing The Sun la trama contorta e gli effetti speciali dozzinali mi avevano fatto desistere a metà serie – non dimenticherò mai i ninja che saltano dai tetti come se un mouse li spostasse sullo schermo –, con Birthcare Center è andata diversamente: forse perché intreccio narrativo, caratterizzazione dei personaggi e temi trattati hanno prevalso sugli elementi tecnici meno convincenti, ad esempio i filtri luminosi applicati agli highlight di puntata (qualcuno deve aver preso il termine alla lettera). Prima di esprimere un giudizio troppo severo, però, cerco sempre di ricordarmi che non sono una critica professionista e, dopotutto, in passato ho seguito con entusiasmo serie come Don Matteo, fiction che, dopo venticinque anni, fa ancora grandissimi ascolti nonostante abbia il tasso di omicidi del Bronx negli anni ’80 e il suo omonimo protagonista sia uscito di scena. Diciamo che la serialità italiana, pur non avendo i ninja volanti su green screen, ha i suoi motivi d’imbarazzo, e noi del pubblico ne siamo ben coscienti.
Fatto questo “bagno d’umiltà”, ecco a voi la recensione di Birthcare Center, traduzione inglese di Sanhujoriwon (산후조리원), trasmessa sul canale sudcoreano tvN nel novembre 2020. Attualmente, potete trovarla in streaming su Apple TV.
La trama
Oh Hyun-jin è una dirigente di successo nell’industria cosmetica sudcoreana: gestisce sapientemente la sua squadra, parla un ottimo inglese e ha sempre un aspetto impeccabile; insomma, è il perfetto esempio di instancabile donna manager. Alla soglia dei quarant’anni, però, Hyun-jin non ha figli ed è sposata con un uomo più giovane, Kim Do-yoon, due elementi sui generis per la cultura coreana; quando diventa madre e si trasferisce in un lussuoso sanhujoriwon, “centro di assistenza alla nascita”, ovvero il Serenity Center, per affrontare il periodo post-partum, per lei si apre un mondo sconosciuto dove ogni certezza viene ribaltata.
Viaggio in solitaria… forse
La prima prova di maternità che Hyun-jin affronta sono le complicazioni del parto, nel corso del quale rischia la vita: per quante persone la assistano, tra medici e familiari, la paura e il dolore restano individuali e si uniscono allo smarrimento dopo la nascita di suo figlio. Diventare madre non sempre coincide con l’esperienza da favola rappresentata dai media, dove una donna s’innamora a prima vista del proprio bebè; per Hyun-jin è, innanzitutto, una perdita di controllo e, inevitabilmente, d’identità, dal momento che il mezzo principale per raggiungere i suoi obiettivi è sempre stata la disciplina, a scuola come nel lavoro. Hyun-jin stenta a riconoscersi in un corpo gonfio, che fatica a sedersi o allattare. Il desiderio di essere una buona madre che vuole solo il meglio per suo figlio si scontra con il bisogno di ritrovare se stessa, cosa non facile dato che tutte le persone del Serenity Center, in primis ostetriche e direttrice, si rivolgono alle puerpere in quanto “mamme di”. Hyun-jin viene così chiamata “mamma di Tubetto di Colla”, dove “Tubetto di Colla”1 fa riferimento alla tradizione sudcoreana di dare un soprannome ai piccoli nei primi mesi di vita, prima di battezzarli ufficialmente.

Altra piccola grande rivoluzione successiva alla maternità è quella di coppia. La relazione tra Hyun-jin e il marito viene messa a dura prova non soltanto dai famigerati ormoni impazziti, ma anche da più realistiche insicurezze reciproche: se la protagonista teme di non risultare più desiderabile, Do-yoon si preoccupa di essere un buon compagno e di costruire la propria identità di padre, sebbene, perdonatemi il francese, la sua ingenuità a tratti rasenti la coglionaggine. Le scene in cui Do-yoon si confronta con altri padri non solo risultano tra i comic relief più azzeccati della serie, ma spostano l’attenzione su un altro lato oscuro della maternità, ovvero quello di oscurare la paternità, che non può contare sul legame dato dalla gravidanza. Diventare padri non comporta uno stravolgimento fisico, però non è di certo una passeggiata, soprattutto per chi come Do-yoon vuole un ruolo attivo, anziché aderire a un modello genitoriale più comodo e diffuso, ma emotivamente distaccato. D’altro canto, “i figli si fanno in due”, afferma la saggezza popolare.

Compagne di viaggio
Una volta schiuse le porte del Serenity Center, Hyun-jin entra in una bolla che quasi sembra scollegata dalla realtà esterna – e totale fantascienza per me. Quella dei centri di questo tipo non è un’invenzione, bensì un fenomeno legato al sanhujori, traducibile come “cura postnatale”, cioè un insieme di pratiche per consentire il recupero psicofisico della madre. Se una volta ciò era possibile all’interno di una famiglia estesa, dove nonne, zie, cugine e altre parenti si occupavano della puerpera, oggi sono i centri ad assumere questo ruolo, dietro pagamento di una retta mensile; una ricerca ha stimato che nel 2021 ben l’81,2% delle neomamme ha trascorso il periodo post-partum in un sanhujoriwon. Niente male per un Paese come la Corea del Sud, il cui tasso di fertilità ha toccato lo 0,72% nel 2023, lanciando a proiezioni nefaste riguardo al dimezzamento della popolazione. Al di là dei calcoli asettici (e ansiogeni), nella serie il Serenity Center accudisce madri e figli attraverso una routine giornaliera, scandita da pasti bilanciati, sedute di allattamento, esercizi per il pavimento pelvico. È, inoltre, uno spazio di condivisione per le sue ospiti, che possono costruire una rete di solidarietà tra mamme. L’intento sarebbe quello, perlomeno.
A prima vista, Hyun-jin si trova davanti a una gerarchia che prende la forma di un treno, dove le madri si auto-ripartiscono dalla prima classe all’ultimo vagone. C’è l’ape regina Cho Eun-jeong, moglie-trofeo e genitrice esemplare di due gemelli allattati al seno fino ai due anni, oltre che di un nuovo nato; c’è l’outsider Lee Roo-da, giovane stilista e madre single che sceglie il latte in polvere, suscitando non poche critiche; c’è chi usa una parrucca per coprire la caduta di capelli dovuta agli ormoni e chi aspetta col cuore in gola i risultati di analisi che nessun neonato dovrebbe mai fare. Sotto la superficie apparentemente perfetta, però, ci sono le mille e una sfaccettatura di maternità che vengono trattate con delicatezza e sincerità disarmanti; condividere dubbi e paure diventa il modo migliore per superarli. Anche il personaggio più antipatico ha qualcosa da mostrare in questo puzzle umano che riflette il mondo al di fuori dei cancelli del Serenity. Uno dei messaggi più potenti della serie è proprio questo: svestire i panni di supereroine per tornare umane è il modo migliore per assicurare il benessere di mamme e bimbi, e la società non può lavarsene le mani.

Cosa mettere in valigia
Da prima della nascita, una delle maggiori preoccupazioni dei futuri genitori è l’allestimento della cameretta; si aggiunge poi la borsa con tutto il necessario per i primi giorni di vita in ospedale (tutine, pannolini e via dicendo), finché l’elenco non diventa una lunghissima Bibbia del nascituro (se vogliamo restare nel metaforico), perché oggettivamente parlando è una successione di scontrini che non finisce più. Tra libri di preparazione al parto e ricerche discordanti su come far addormentare un neonato, a livello materiale diventare genitori sembra un labirinto pieno di pedaggi obbligati. Eppure non tutti lo sono. La volontà di dare il meglio ai propri figli viene spesso confusa con un’abbuffata di oggetti inutilmente costosi e superflui, come succede a Do-yoon quando va a cercare una carrozzina e rischia di comprare la Ferrari dei passeggini, dotata di mille optional ma nessuna differenza pratica con i modelli meno accessoriati. La critica al sistema economico, che in questo caso punta sull’emotività dei neogenitori per riempirli di cianfrusaglie, è tutto tranne che velata, e si porta dietro un’altra domanda: ma fare figli è sempre stato così difficile?
È vero che scienza e tecnologia hanno buttato giù parte del muro di false credenze su gravidanza e neonati, e una maggiore informazione permette una genitorialità più consapevole (che male non fa); lo sviluppo tecnico-scientifico non ha però impedito il sorgere di nuove ansie, né ha estirpato quelle vecchie. A volte, più di un manuale di pedagogia aggiornato, può una rassicurazione da parte di chi ci è già passato: la madre di Hyun-jin è per lei un sostegno molto importante, soprattutto nei momenti di sconforto. La protagonista, peraltro, con la propria maternità ha l’occasione di vedere con occhi diversi il loro rapporto.
Pur non potendo immedesimarmi completamente, visto che al momento non ho figli, sono rimasta colpita dall’onestà della sceneggiatura nel descrivere i lati più scomodi della maternità, uno su tutti il conflitto interiore che in molte, se non tutte, affrontano, ma sul quale si preferisce tacere per non rovinare l’aura di sacralità che riveste la nascita a tutte le latitudini. Come il sesso, il parto, qui inteso in quanto evento medico, è un tabù in cui, spesso, neanche le donne coinvolte sono davvero informate e, nei casi di violenza ostetrica, vengono trattate alla stregua di bambine capricciose. Che sia in Corea del Sud o in qualsiasi altro Paese, abbiamo ancora un grosso problema con la concezione del corpo femminile e il suo rapporto con la riproduzione e l’identità individuale.
Birthcare Center, però, non si fa problemi a sbeffeggiare questo segreto di Pulcinella e ci offre un ritratto schietto e universale del diventare madri nei Paesi più sviluppati. Avrei forse dedicato qualche minuto in più al tema del privilegio, dato che la permanenza in un sanhujoriwon non è esattamente economica, ma nel complesso questa serie ha svolto egregiamente il suo dovere.
Note
- I sottotitoli in inglese riportano letteralmente “Glue Stick”.

Joanna Dema
Sono Joanna, senz’“acca” e con la “i lunga” di Just Dance. Non sono molto brava a parlare di me seriamente, preferisco che lo facciano gli altri. Dovrei avere più di vent’anni, ma ho iniziato a contarli al contrario perché la gente non me ne dà più di quindici, che a quaranta è una bella cosa. Si spera di arrivarci, apocalisse permettendo. Spero anche di finire la magistrale in Traduzione prima che sia lei a finire me, ma ride bene chi ride ultimo…
Non fiori, ma cioccolatini (a un primo appuntamento).