In un celeberrimo articolo del 1981 per L’Espresso, Italo Calvino approfondiva alcune possibili definizioni, organizzate in un elenco numerato, di “classico”, tra le quali la più conosciuta è senz’altro la sesta: «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»1. Non è difficile traslare questa descrizione, succinta quanto efficace, ad altre forme mediali e culturali, come i film: e, non a caso, è forse nel cinema che il discorso sui “classici” si fa ogni giorno più vivace ed articolato.
In quanto arte nuovissima, eppure strettamente imparentata con le “sorelle maggiori” (letteratura, pittura e teatro), il cinema ha cercato di definire praticamente da subito un canone di “classici”, termine molto amato anche dai marketing strategists. Ad esempio, lo studio d’animazione Walt Disney decise di chiamare proprio “Walt Disney Classics” una delle sue prime linee di VHS, distribuite dal 1984 al 1994, includendovi alcuni dei suoi maggiori successi, in precedenza ri-distribuiti esclusivamente al cinema ogni decina d’anni circa. Un film “classico” può essere definito in molti modi, per esempio facendo riferimento al cosiddetto “periodo classico” della Storia del cinema, ovvero quello che va dall’avvento del sonoro (1927) all’era delle nouvelles vagues europee e il crollo dello studio system hollywoodiano, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Tuttavia, è possibile definire “classici” anche film successivi a questa finestra temporale (pensiamo a Taxi Driver di Martin Scorsese, del 1976, o a Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, 1988) e, soprattutto, film precedenti.
Non è forse un classico del cinema italiano il – probabile – primo kolossal della Storia, Cabiria di Giovanni Pastrone (1913)? O le commedie di Buster Keaton e Charlie Chaplin, da Come vinsi la guerra (The General, 1927) a Il monello (The Kid, 1921)? O ancora i capolavori dell’espressionismo tedesco, da Il gabinetto del dottor Caligari (1920, R. Wiene), a Metropolis (1927, F. Lang) a Nosferatu il vampiro (1922, F. W. Murnau)?
Proprio quest’ultimo film è un caso studio eccellente, per una serie di motivi. Innanzitutto, perché è stato oggetto di studio di influenti volumi della critica e della teoria cinematografica, come il seminale Lo schermo demoniaco (L’écran démoniaque. Les influences de Max Reinhart et de l’Expressionnisme, Parigi, André Bonne, 1952) di Lotte H. Eisner. Inoltre perché, famosamente, è esso stesso tratto da un “classico”, quel Dracula di Bram Stoker (1897) che per poco non ne fu la rovina. La vicenda è nota, ma è bene riassumerla brevemente per chi non dovesse averla approfondita in precedenza. Nosferatu fu il primo e unico film prodotto dalla Prana-Film (fondata nel 1921 da Enrico Dieckmann e Albin Grau) che, pur non avendone pagato i diritti, volle trarre una pellicola sui vampiri dal romanzo di Stoker, pensando che bastasse cambiare alcuni punti secondari della vicenda, i nomi dei protagonisti e l’ambientazione per non incorrere in problemi legali. Non fu così, in quanto la vedova di Bram Stoker, Florence Balcombe, intraprese una lunga e dispendiosa causa con i creatori del film, la quale portò alla bancarotta la Prana-Film e si concluse con l’ingiunzione di bruciare tutte le copie in circolazione. L’ordine fu eseguito, ma la difficoltà nel tracciare le esportazioni della pellicola (e la pratica della pirateria, già avviata e florida nell’epoca del muto), permisero a sparute copie di salvarsi, consentendo la trasmissione del film fino ai giorni nostri.
Dracula è stato adattato numerose altre volte al cinema. Si evidenziano in particolare le versioni del 1931 (diretta da Todd Browning per la Universal e interpretata da Bela Lugosi nel ruolo principale), del 1958 (regia di Terence Fisher per la britannica Hammer Film e interpretazione principale di Christopher Lee) e del 1992 (Francis Ford Coppola, anche produttore con la sua American Zoetrope, e Gary Oldman). Più interessante, però, è il fatto che Nosferatu stesso abbia ricevuto ben due remake, prima nel 1978, con Nosferatu, principe della notte, diretto da Werner Herzog e interpretato da Klaus Kinski, Isabelle Adjani e Bruno Ganz, e poi nel 2024, grazie al film di Robert Eggers, attualmente al cinema e capitanato da Bill Skarsgård, Lily-Rose Depp e Nicholas Hoult.
Naturalmente, quella del remake è una pratica ben consolidata a Hollywood – e non solo. Qualche anno fa, critica e pubblico avevano evidenziato, chi con interesse, chi con fastidio, come A Star is Born di Bradley Cooper (2018) fosse già la quarta (!) iterazione del soggetto di Robert Carson e William Wellman, già portato sullo schermo nel 1934, nel 1964 e nel 1976. È ovvio che i film di Herzog e Eggers, tuttavia, compiono un’operazione leggermente più raffinata, proprio in virtù della complicata storia produttiva del film del 1922. I loro Nosferatu, infatti, non sono solo nuovi adattamenti del romanzo di Stoker, anche se la filiazione c’è ed è, in gradi variabili, evidente. Essi si rifanno esplicitamente a un film precedente, diventando, forse, la più forte argomentazione a favore dell’inserimento del capolavoro di Murnau tra i “classici” del cinema.
Allo stesso tempo, è vero che lo status di “classico” porta con sé anche una certa aura di sacralità. Spesso, in quanto pubblico, pensiamo i classici “intoccabili”, necessariamente superiori a qualsiasi modifica o interpretazione successiva, per quanto autoriale. Eppure, gli artisti trovano spesso notevole stimolo nel dialogo col canone, soprattutto coloro che si identificano in categorie marginalizzate o subalterne: per esempio, The Birth of a Nation – Il risveglio di un popolo (2016, Nate Parker), fa del riferimento a Nascita di una nazione di David W. Griffith (1915) un punto imprescindibile del proprio discorso sull’oppressione razzista della popolazione nera negli Stati Uniti d’America. In altri casi, la citazione è più ludica (Swimming Pool di François Ozon, 2002, e La piscine di Jacques Deray, 1969, per esempio). Addirittura, il remake fotogramma per fotogramma di Psycho (Alfred Hitchcock, 1960) girato da Gus Van Sant nel 1998 interroga in maniera radicale le pratiche della citazione e del remake stesso. Nel caso di Nosferatu, entrambi i registi hanno un legame molto forte con il film di Murnau: Eggers ha spesso ripetuto quanto la visione di esso, intorno ai dieci anni, abbia influito sul suo gusto artistico, mentre Herzog lo considerava il più grande film tedesco mai realizzato2 e vedeva nella storia del conte Orlok un riflesso tanto della situazione della Weimar pre-hitleriana quanto della situazione della Germania divisa dalla guerra fredda.
Una lettura politica di Nosferatu era già stata proposta da Siegfried Kracauer in Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, pubblicato originariamente nel 1947. Per Kracauer, il vampiro interpretato da Max Schreck è un «tiranno assetato di sangue», verso cui la fantasia tedesca del periodo provava un «sintomatico» odio-amore3. Herzog parte da quest’idea, proponendo una conclusione alternativa e pessimista: se originariamente il male pestifero del vampiro veniva sconfitto dall’«amore» rappresentato da Ellen, la moglie del protagonista Hutter (versione traslata del Jonathan Harker letterario), nella versione del 1978, Jonathan Harker diventa a sua volta un vampiro, sopravvivendo sia a Dracula che alla moglie Lucy – Herzog ripristina i nomi originali. Eggers, a sua volta, apporta una modifica forte alla storia del conte vampiro, spostando il punto di vista da Hutter (qui si torna ai nomi dati da Murnau) a Ellen, che diventa a tutti gli effetti la protagonista del film. Una scelta del genere, ovviamente, è perfettamente coerente nell’epoca post-Me Too e rispecchia ancora una volta l’idea di Calvino per cui i classici non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire.
Sia Herzog che Eggers rendono omaggio al Nosferatu muto con numerose citazioni visive, nel caso del primo anche di intere sequenze. Inoltre, l’impronta autoriale di ognuno è ben visibile, cosicché i loro Nosferatu si inseriscono perfettamente nella loro filmografia e nella loro poetica, e non risultano un unicum giustificato solo dall’omaggio cinefilo. Per esempio, Eggers approfitta del tema vampiresco per scavare nel folklore est-europeo, dissotterrando le fonti usate anche da Stoker e dall’antesignano John Polidori (autore nel 1819 de Il vampiro, che influenzò notevolmente il romanziere irlandese), ed esalta gli aspetti più mostruosi, orrorifici e cruenti dei mostri succhiasangue. Herzog esercita, invece, il suo occhio abituato a sottolineare il rapporto uomo-natura ed esaspera il senso di profonda solitudine dei personaggi. Chi fosse interessato ad approfondite le differenze tra i tre film, può dirigersi su YouTube e vedere questo video, scritto da Isabel Custodio per il sempre eccellente canale Be Kind Rewind – ovviamente, aspettatevi qualche spoiler.
La costante tensione tra omaggio e revisione, tra inventiva autoriale e citazione fedele, tra rispetto della fonte e nuove interpretazioni dei temi estrapolabili dalla stessa, testimonia e cementifica lo status di “classico” del film di Murnau; allo stesso tempo conquista il pubblico e eleva le versioni di Eggers e Herzog a opere intelligenti, ponti tra la loro epoca e quelle che l’hanno preceduta. Anche il pubblico continua a subire il fascino del vampiro: la versione di Herzog fu un successo, soprattutto in Germania Ovest e in Italia, mentre quella di Eggers ha incassato il doppio del costo di produzione in soli dieci giorni. Soprattutto, a più di cent’anni di distanza, questa storia è ancora capace di generare animati dibattiti e di raccontare il mondo con la poesia e il ritmo4, per citare Lotte Eisner, che la contraddistinguono. L’ombra di Nosferatu aleggia ancora sul cinema, titanica.

Note
- Italo Calvino, “Italiani, vi esorto ai classici”, L’Espresso, 28 giugno 1981, pp. 58-68.
- Werner Herzog sul set di Nosferatu, dal DVD italiano del film (Ripley’s Home Video).
- S. Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, ed. it. a cura di Leonardo Quaresima, 2001, Torino: Lindau, p. 129.
- Lotte H. Eisner, F. W. Murnau, 1964, Parigi: Losfeld/Le Terrain Vague, p. 27.

Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo – ha madre ligure e padre francese – e per L’Eclisse fa l’uccello del malaugurio. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha due gatti e molti dubbi.