Per il mese di agosto, L’Eclisse consiglia cinque raccolte di racconti che (forse) non conoscete. Quale migliore occasione per scoprirli se non sotto l’ombrellone?
Nel paese delle donne selvagge, Aoko Matsuda (2022)

Per la composizione della sua raccolta, la scrittrice giapponese Matsuda Aoko si ispira al folklore e alla mitologia appartenenti alla cultura giapponese: in particolare, vengono presi in considerazione gli yokai, ovvero un tipo di creatura soprannaturale traducibile con “demoni” o “spettri”.
Matsuda, però, aggiunge un tocco personale a tutto questo, sfidando e sovvertendo le tradizionali storie giapponesi. Esse, infatti, vengono accostate ai problemi del Giappone contemporaneo con un tocco moderno e femminista: i veri mostri di questa raccolta non sono i fantasmi, ma gli spettri creati da una società capitalista e patriarcale, dove le donne vengono continuamente sminuite e svalutate. Al centro di ogni racconto, troviamo una protagonista che rivendica, in modo tragico o di sfida, la propria femminilità di fronte a un mondo popolato dalle ingiustizie delle disparità. Ogni narrazione espone una storia di trasformazione (a volte letteralmente di metamorfosi) di donne ferocemente indipendenti o che imparano ad accettare e a sfruttare il loro status di outsider. La collezione, inoltre, stabilisce lentamente un’intricata rete di connessioni tra i personaggi e i luoghi da loro frequentati, al centro della quale troviamo un’azienda misteriosa, composta da vivi e morti, amministrata dal misterioso e sensibile signor Tei.
Per quanto riguarda lo stile, infine, le protagoniste femminili utilizzano lo scudo dell’autoironia senza soccombere mai al vittimismo: attraverso un tono ora commovente, ora contemplativo, Matsuda riesce ad unire la cultura pop contemporanea alla narrazione classica giapponese.
Sillabari, Goffredo Parise (1984)

“Dire tutto con niente”: così Eugenio Montale definiva la poetica di Parise. Come un sillabario delle elementari, cinquantaquattro racconti, disposti in ordine alfabetico, narrano alcuni sentimenti umani essenziali e comuni a tutti noi (dalla A di amore alla S di solitudine). I suoi racconti vengono spesso definiti “poesie in prosa”: come pennellate delicate e tenui, a volte sbiadite, raccontano la vita nei suoi aspetti più reconditi, quelli relativi agli impulsi, alle emozioni, alle sensazioni e agli affetti che spesso sfuggono anche alla consapevolezza di chi li vive. I personaggi sono analizzati dettagliatamente, sia esteriormente che interiormente; al contempo, grande attenzione è riservata anche alla descrizione della natura e del paesaggio, ripresi quasi con occhio da pittore.
L’atmosfera che pervade i racconti è spesso onirica, a metà tra il reale e il non reale, venata di una leggera malinconia per situazioni o sentimenti che avrebbero potuto essere, ma che non furono. La conclusione di ogni racconto, inoltre, trasmette quasi una sensazione di sospensione e di non finito. E incompiuta, come ha dichiarato l’autore nell’introduzione alla pubblicazione, è la raccolta stessa: “[…] giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. […] Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi”. In effetti, ritengo che proprio l’incompletezza e lo sfuggente siano il giusto ritratto dei sentimenti umani, che perfezionano e consegnano queste pagine al lettore.
Undici solitudini, Richard Yates (1962)

Yates è un autore che certo non ha bisogno di presentazioni: in effetti, basta citare Revolutionary Road, il suo romanzo più famoso, in cui così bene ha saputo tratteggiare le (poche) gioie e le tante meschinità della borghesia americana, per comprendere la portata di questa raccolta. Scritto all’inizio degli anni Sessanta, Undici solitudini espone undici storie di varia umanità. I protagonisti dei racconti sono lavoratori frustrati e disagiati, coppie in crisi, mitomani ed emarginati, collocati all’interno di luoghi assolutamente comuni, come la scuola, il posto di lavoro o l’ospedale. Il fil rouge è un malessere diffuso e trasversale che si sviluppa nelle sue diverse espressioni di solitudine. Quest’ultima non va intesa con l’accezione che generalmente si dà al termine, bensì come il mancato confronto con il prossimo: in questa raccolta, infatti, i protagonisti si avvicinano e si sfiorano, ma poi ognuno procede sul proprio binario come treni destinati a non toccarsi mai, ostacolati dall’impossibilità di riuscire a comunicare e a capirsi reciprocamente. Yates parte da qui per arrivare direttamente al cuore del lettore con l’intento di inquietarlo e di farlo riflettere su quanto le vite descritte non siano poi così diverse dalle nostre; esattamente come avviene per i suoi personaggi, tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo cercato di risollevarci, con esiti non necessariamente positivi. Undici solitudini diventa, così, il ritratto folgorante, pungente e cinico non solo della società americana del secolo scorso, ma anche di quella attuale.
Narratori delle pianure, Gianni Celati (1985)
In autunno, passeggiando attraverso una pianura, la nebbia si confonde con il paesaggio, il tempo passa lento e silenzioso tra paesi assopiti, campi misteriosi e fiumi infiniti: uno scenario piatto e poco sorprendente, che Celati riesce a ravvivare attraverso racconti reali e immaginifici nei quali viene omaggiata la Pianura Padana. Essa diventa un macrocosmo in cui si susseguono esperienze di vita di gente comune, di gente che lavora, di gente che rientra a casa per l’ora di pranzo. Le trenta novelle raccolte nel libro, in effetti, hanno radici profonde nella realtà contemporanea e hanno come punto di partenza una geografia ben definita che attraversa tutta la pianura.
I personaggi che la popolano non hanno un nome, ma sono rappresentati dal loro mestiere o soprannome. La particolarità di questa raccolta è che, man mano che si procede con la lettura, le vicende narrate hanno sempre più il sapore del surreale e del fantastico. Tra i tanti temi affrontati, uno dei principali è lo scorrere del tempo: nel racconto Tempo che passa, ad esempio, si narra di una donna che ogni giorno va a lavorare in macchina, percorrendo una cinquantina di chilometri tra andata e ritorno: il momento più difficile della sua giornata è “quando al ritorno si ritrova sulla strada di casa, e si mette ad ascoltare il tempo che passa”. Altri temi affrontati sono la solitudine, la lontananza, ma anche l’importanza della famiglia, l’amicizia, la fantasia, l’ingenuità e le apparenze. Il narratore accompagna il lettore, quasi per mano, lungo la direzione in cui scorre il Po, finché non si giunge all’ultimo racconto Giovani in fuga, che corrisponde al superamento della cartina geografica iniziale: la pianura, alla fine, si dissolve, lasciando il posto alla vista del mare.
In sonno e in veglia, Anna Maria Ortese (1987)

È difficile riuscire a classificare la poetica di Ortese entro una categoria narrativa. Per semplificare, si può dire che In sonno e in veglia è una raccolta di dieci racconti: di racconti, però, non ne ha che una magnifica veste. Si tratta, infatti, di pagine di largo respiro in cui dissertazione filosofica, poesia e meditazione si fondono con un mondo fatato, sublime e invisibile di creature luccicanti, folletti, animali, principi e dame, che comunicano attraverso insolite formule magiche. Il lettore è sempre pervaso da una sensazione d’incertezza, nella quale fatica a comprendere se quanto sta leggendo sia frutto della realtà o dell’immaginazione, se sia concreto o sognato: i personaggi stessi, a volte, sembrano esistere solo nella fantasia dell’autrice. In effetti, in questa raccolta, Ortese infonde dubbi nella mente del lettore: la cultura stessa, il linguaggio, la morale, la famiglia, tutto l’umano e il reale vengono trattati e messi in discussione attraverso l’espediente del sogno, dell’irreale, del dubbio: rare, infatti, sono le relazioni pratiche e concrete. I toni dell’intero narrato sono delicati, somigliano quasi a un sussurro: un mondo invisibile e onirico, dove ogni cosa si trova sospesa tra il reale e il sognato; appunto, tra “sonno e in veglia”.

di Selena Penzo
Mi chiamo Selena con la elle e sono nata nel bel mezzo dell’inverno del 2003. Frequento lettere moderne presso l’università di Bologna, ma le mie radici sono nella campagna romagnola. Tra un esame, una tazza di the e una passeggiata, cerco di coltivare le mie passioni: la lettura, l’amore per la conoscenza e il teatro. Adoro chiacchierare, scattare fotografie e attendere la sera per scrivere tutto quello che mi passa per la testa nel mio diario. Nella lunga lista delle cose che vorrei fare, c’è anche questa: scrivere articoli per chiunque abbia voglia di leggerli.