Nel primo articolo di questa serie (che trovate qui!) ho provato a riassumere la complessa storia dello skateboard, analizzandolo sia come sport, che come una vera e propria dinamica sociale. Nel quadro d’insieme che ne è risultato – al di là di vicende individuali e passaggi storici – la città si è rivelata essere uno degli elementi centrali di un’importante narrazione culturale che ci aiuta nel comprendere le dinamiche del contemporaneo. Da questo assunto inizia un secondo percorso, che mette in relazione lo skateboarding alle forme architettoniche cittadine con cui esso entra in contatto.
Volendo trattare dell’aspetto fisico degli ambienti occupati dallə skater, occorre innanzitutto distinguere gli spazi non autorizzati e quelli autorizzati. Nella prima categoria subentrano quei contesti, più o meno estesi, in cui lo skateboard è protagonista primario, ma non esplicitamente previsto; ciò significa che questi luoghi o strutture architettoniche non sono progettati per la fruizione attraverso la tavola. Come si è già detto nel precedente articolo, gli elementi di arredo urbano che lo skate sfrutta sono molti, tutti differenti fra loro; tra gli altri si trovano panchine, gradinate, fioriere e ringhiere. È importante far notare come l’assenza di autorizzazione si delinei come un fatto politico: in questi contesti l’attività dello skateboarding è (in quasi tutti i casi) vietata dall’autorità ufficiale. Nel secondo gruppo, invece, trovano posto gli interventi architettonici finanziati da istituzioni pubbliche o private e che sono costruiti con l’intenzione di creare uno spazio esclusivamente dedicato allə appassionatə dello skateboard. Che si tratti di poche rampe o di un’intera porzione di terreno adibita a skatepark, questi luoghi godono del benestare dell’autorità pubblica; ciò deriva dal rispetto di precisi canoni di costruzione e di utilizzo delle strutture. Una volta chiarite le differenze tra questi due “filoni architettonici” possiamo osservare più da vicino le dinamiche che caratterizzano questi luoghi così particolari, partendo dagli spazi non autorizzati.
Uno degli aspetti più interessanti che riguardano gli spazi “colonizzati” dallo skateboard riguarda, come già detto, la varietà di oggetti che vengono sfruttati, in senso concreto e metaforico, come rampa di lancio per evoluzioni e movimenti sempre più audaci. Quel che non è sempre facile cogliere è, invece, il modo in cui la diversità di queste strutture e la loro posizione influenzino in maniera profonda la sua essenza più “culturale”. Una volta in movimento, lə skater stravolge la prospettiva sullo spazio che lo circonda: ogni ente fisico diventa non solo un ostacolo, ma un alleato della creatività dell’individuo. La sua mente viaggia tra possibilità e opzioni, impegnata in scelte da prendere in decimi di secondo: dove un passante vedrebbe una piazza vuota e poco interessante, ləi visualizza traiettorie e movimenti precisi. Non è un’esagerazione, dunque, parlare di una vera e propria componente “artistica”; sfruttando inventiva e capacità atletica, ognuno può proporre in maniera tangibile la propria visione dello spazio circostante, che viene dunque reinterpretato secondo canoni e regole sempre nuove. Solo attraverso la comprensione di questo tipo di dinamiche ci si può approcciare alla definizione più importante per quanto riguarda gli spazi urbani e lo skateboard: lo spot.
In sintesi, lo spot è l’habitat cittadino dellə skater. Dal punto di vista architettonico, esso può avere sembianze diverse a seconda dei casi, ma ciò che importa davvero è la sua funzione. Lə skateboarder lo considera una sorta di luogo sicuro, appartenente al tessuto urbano, eppure paradossalmente così distante dalle sue logiche; se al di fuori regnano le leggi ufficiali (e soprattutto quella delle automobili), nei confini autodefiniti dello spot è la tavola a farla da padrona. È così che scalinate, piazze e porzioni di parchi possono popolarsi, in modo quasi inspiegabile, di decine di ragazzə che fanno della propria passione un’occasione di ritrovo e aggregazione sociale. Occorre dire, per onor del vero, di come questo concetto sia difficilmente comprensibile se lo si rapporta unicamente al contesto italiano; nel nostro paese, per parziale mancanza di cultura o per eccessivi contrasti con la classe politica, il numero di luoghi urbani “sacri” allo skateboard è minore di quello che si riscontra in altri Paesi. Inutile dire che buona parte degli spot più iconici al mondo si trova negli Stati Uniti, patria della disciplina: tra gli altri, spiccano nomi di luoghi come El Toro, China Banks e la Hollywood High. Una rapida ricerca su YouTube vi permetterà di trovare decine di video – amatoriali e non – di trick pazzeschi eseguiti da scalinate ed elementi architettonici di altezza vertiginosa, in una buona percentuale riscontrabili all’interno di complessi scolastici; solo un’altra strana contrapposizione tra uso prefigurato e re-purposing (di cui parleremo più avanti).
Inoltre, negli USA – ma anche altrove – sono importantissime le community: gruppi più o meno ampi di skater di qualsiasi età, provenienza ed estrazione sociale legati a un preciso contesto urbano. È la community, la comunità, infatti, a garantire allo spot il suo status peculiare. Tutto parte da una vera e propria “scoperta” di un luogo qualsiasi, ma che per qualche motivo salta all’occhio di uno o più individui; oltre alla presenza di elementi e oggetti percepiti come “utili”, spesso conta anche la posizione defilata dai centri storici cittadini e dai luoghi dell’autorità politica e/o locale. Considerato lo stato delle normative che regolano l’uso del suolo pubblico sia in Italia che all’estero, non è difficile immaginare come ciò avvenga anche per evitare – per quanto possibile – conflitti e problematiche difficili da gestire. Il resto del processo avviene quasi automaticamente: tramite passaparola, altri soggetti giungono a conoscenza del luogo e ne fanno, man mano, un contesto di ritrovo proprio di una ritualità collettiva di grande importanza. È in questo modo che si formano le community, che possono poi dare il via a processi correlati, come ad esempio l’avvio di crew: esse sono definibili come gruppi organizzati di skater (professionistə o non) che viaggiano compatti attraverso i territori, partecipando a competizioni ufficiali e producendo, ad esempio, filmati e riviste a partire dalle proprie “esplorazioni”. Queste testimonianze garantiscono inoltre una rappresentazione visiva fondamentale per la disciplina, grazie al valore iconico del rapporto fra essere umano e architettura. Esaltato in primis dal mezzo fotografico, esso gode ancora oggi di un forte impatto estetico ed emotivo; ne sono un esempio alcune copertine di “Thrasher”.
È doveroso nominare, per quanto riguarda il contesto italiano, community solide come quella di “MC”, Milano Centrale. Da anni infatti lo spazio antistante alla maggiore stazione ferroviaria del capoluogo lombardo è un punto di ritrovo per l’intera scena di skateboard nazionale, ma non solo: vi si incontrano anche skater provenienti dall’estero che fanno di Piazza Duca D’Aosta una tappa importante del proprio viaggio verso Milano, città di per sé importantissima per il contesto italiano.
Sono infatti molti gli spot milanesi a guadagnarsi una menzione d’onore per il loro contributo alla storia e all’evoluzione della disciplina nel nostro Paese: tra gli altri si possono citare Piazza Gino Valle (appena di fronte all’edificio di Casa Milan), ma anche luoghi più centrali, come le gradinate esterne del palazzo di Microsoft Italia. Il forte valore rappresentativo di questi luoghi è inoltre esaltato dalla presenza di progetti come “Fotta”, rivista specializzata nata nel 2022 e subito affermatasi anche grazie a un approccio multidisciplinare, che unisce alla passione per lo skate quella per l’arte e la grafica. Ne nasce un prodotto genuino e radicale, capace di raccontare al meglio l’impatto che lo skateboard può avere sul territorio.
Rimane ora da affrontare brevemente la seconda gamma di spazi, quelli autorizzati. Quel che va specificato, innanzitutto, è che essi conservano alcuni dei caratteri tipici degli spot urbani. Il valore della community, ad esempio, risulta fondamentale anche per le strutture ufficialmente adibite alla pratica dello skateboard; del resto, la stessa presenza di skatepark e rampe nelle città è spesso dovuta ad un’azione bottom-up1. Quel che spesso accade, infatti, è che un gruppo di ragazzə decida di organizzarsi e, attraverso vari metodi, iniziare a far sentire la propria voce esprimendo l’esigenza di avere un luogo protetto e sicuro dove potersi ritrovare. Con l’intenzione di costruire un centro di importanza sociale, alla pratica sportiva in sé possono legarsi attività come i corsi di avviamento alla disciplina; simili proposte possono rappresentare anche un importante incentivo all’intervento dell’autorità locale, che viene in questo modo convinta a investire in strutture adeguate laddove ne si certifichi la mancanza.
Se le autorità decidono di assecondare le esigenze della comunità, nel confronto in cui si inseriscono poi le aziende specializzate nella costruzione di strutture adibite allo skating. Per garantire che le architetture siano sicure e di buona qualità, la progettazione e l’edificazione degli skatepark vengono talvolta affidate agli membri della community, oppure a piccole aziende fondate su nuclei di skater o ex-skater. È il caso di “Uao Skateparks”, che si auto-definisce come “una compagnia di skater che hanno scelto di dedicarsi con passione all’apprendimento delle arti necessarie alla realizzazione degli skatepark, diventando così artigiani professionisti”. Questo tipo di iniziativa ha un fortissimo impatto su due livelli: in primis, garantisce la costruzione di strutture che evitino rischi ed incidenti, ma che permettano un’esperienza stimolante e adrenalinica. In secondo luogo, aziende come Uao offrono una mediazione diretta con la comunità che ha richiesto il loro intervento; solo chi riconosce le proprie radici culturali nello skateboard è capace di comprendere i bisogni dellə skater, specialmente quando le autorità non sono capaci di offrire un dialogo costruttivo.
È doveroso, prima di chiudere questo percorso, ricordare almeno altre tre forme architettoniche importanti per comprendere la presenza urbana dello skateboard. La prima è, banalmente, la superficie stradale: se è vero che la cultura street fa sì che siano gli spot a farla da padroni nel contesto cittadino, esiste un’altra fetta di utenti che preferisce strade superfici piane. Si tratta di coloro che utilizzano il longboard, ma anche dei surf-skater, interpreti di uno stile che replica le movenze del surf. Altre due tipologie architettoniche sono gli skatepark privati al chiuso e i D.I.Y. (Do it yourself). Differenti nelle loro caratteristiche, essi sono contraddistinti da una comune differenza che li divide dai park tradizionali: non sono infatti legati alla supervisione da parte dell’autorità, nonostante siano strutture costruite per lo skate.
Nel primo caso, si tratta di magazzini o grandi immobili trasformati in veri e propri playground utilizzabili solo secondo le norme e i regolamenti definiti dai privati che li posseggono. Un esempio di questa dinamica è il Pinbowl Skatepark di Milano. Il D.I.Y. strettamente inteso è, invece, un contesto difficile da inquadrare: spesso si tratta di una porzione di suolo pubblico o privato in disuso; esso viene occupato e trasformato da una community attraverso oggetti di recupero e interventi artigianali in una sorta di “skatepark approssimato”. Frequentemente soggette a sgomberi e contestazioni, queste realtà possono avere un forte significato per le comunità e per i quartieri che le ospitano: è il caso del The Grove, a Londra, raccontato anche in un breve documentario su YouTube.
Quel che si può dire, in conclusione, è come l’architettura e le dinamiche urbanistiche possano essere d’aiuto nella comprensione di una sottocultura, come quella dello skateboard, determinata e contraddistinta da processi difficili da cogliere dall’esterno, ma non per questo meno interessanti da analizzare. Ciò che per un semplice cittadino o per un passante può sembrare solo un luogo di passaggio privo di ogni altro scopo si trasforma, ad un occhio più attento, in un’opportunità di fare esperienza in maniera rivoluzionaria – e a tratti anarchica – dello spazio che ci circonda. In un’epoca che sembra sprofondare sempre più velocemente nell’indifferenza alle forze profonde che muovono la nostra esistenza, avvicinarsi a questo tipo di sguardo sulle città può essere un’occasione importante per dare nuovo significato a ciò che troppo spesso diamo per scontato.
Note
- Traducibile come “dal basso all’alto”, il termine bottom-up è spesso utilizzato nelle scienze umane e sociali per descrivere processi e cambiamenti messi in moto dai soggetti alla base della gerarchia sociale (ad esempio, le fasce meno abbienti o non privilegiate di una popolazione). È spesso usato in contrapposizione a top-down (letteralmente “dall’alto al basso”).
di Matteo Capra
Nato a Concorezzo (andate pure a cercare su Google, vi giuro che esiste) nel 2002 e mai davvero cresciuto, mi divido tra mille interessi diversi senza mai saper scegliere. 24 ore al giorno con le cuffie nelle orecchie, salgo e scendo dal mio skateboard mentre scrivo poesie e cerco l’opera cinematografica definitiva. Mi diverto a fare l’esteta; colleziono qualsiasi oggetto o ricordo in cui io possa riconoscermi, vantandomi di possedere qualsiasi disco o libro che si possa ritenere “vecchio”. Emotivo al 200%, con la mia scrittura cerco di fissare la bellezza che trovo intorno a me. Ah, nel tempo libero studio Scienze Umanistiche per la Comunicazione alla Statale di Milano..
[…] è detto nei precedenti capitoli di questo ideale racconto (Breve storia urbana dello skateboard e I luoghi urbani dello skateboard, n.d.r.), i contesti fisici occupati dalla tavola nel contesto cittadino sono molti: accomunabili […]