Recensione del libro La ricetta dell’incanto di Francesco Boer e Fabio Bortesi
“Siamo ciò che mangiamo”
è una frase che viene utilizzata spesso, talvolta senza capirne il senso e inserita nei discorsi più per ragioni distaccate dal suo vero significato e per via del suo blasone. In realtà, non c’è nulla di più vero e, al tempo stesso, più beatamente ignorato da parte nostra. Questo è uno dei princìpi che il libro La ricetta dell’incanto, scritto da Francesco Boer e da Fabio Bortesi, cerca di spiegare.
Pur senza pretese di assolutismo, l’approccio dell’opera in questione è a dir poco funzionale e funzionante: ogni macro-argomento viene sminuzzato, proprio come il cibo, in piccole ma complete disamine su ogni elemento che i due autori hanno ritenuto necessario approfondire. La frammentarietà dei capitoli non è un limite logistico, ma una possibilità per comprendere meglio il tutto senza rischiare di mettere insieme aspetti e ingredienti totalmente separati tra loro. Ancora una volta, il parallelismo con il cibo descritto, narrato e analizzato si dimostra quantomeno efficace: ammesso e non concesso che la pietanza gustata sia di proprio gradimento, averne più (micro)porzioni che non siano mischiate con altri sapori è particolarmente apprezzabile.
Quindi, cosa hanno analizzato i due scrittori?
Dopo una partenza con due alimenti tra i più comuni, come pane e vino, il “viaggio” alimentare diventa sempre più peculiare. Va detto che non si riscontra l’apparizione di molto che vada al di fuori delle nostre abitudini, ma il modo con cui il tutto è stato riportato vede e prevede un distacco dei comuni canoni di linguaggio culturale e alimentare. In effetti, in un contesto sociale che punta specialmente all’immagine e alla buona riuscita della stessa, i due autori vanno a fondo delle pietanze citate, descrivendo quei processi che l’occhio umano non riesce nemmeno a distinguere per le microscopiche dimensioni. È il caso del grano per il pane, nonché dell’uva e delle sue caratteristiche per il vino. Gli ingredienti naturali che vengono impiegati nella formulazione di una rilevante quantità di questi pasti rappresentano un aspetto su cui si soffermano gli autori, dimostrando che sono proprio i suddetti elementi a darci la vita ogni giorno mediante l’alimentazione. Insieme a questi, ce ne sono altri il cui significato, nonostante la loro sussistenza e importanza, si sta totalmente perdendo, come l’acqua. Proprio l’acqua può e deve essere oggetto di una riflessione socio-economica molto importante: se in alcune zone del mondo se ne ha in abbondanza e ci si può “permettere” addirittura di sprecarla, in altre regioni nemmeno così lontane viene spesso e volentieri a mancare. L’assenza di una sostanza così essenziale per la sopravvivenza non “solo” di uomini e animali, ma anche e soprattutto del pianeta, dovrebbe spingere le persone a chiedersi come comportarsi in relazione a tale problematica, anziché bearsi nella propria abbondanza che, anzi, rischia di essere sempre più temporanea.
Dopo aver citato un problema così ampio e diffuso, non si può non considerare ulteriormente la collettività come aspetto di condivisione del cibo. Senza dover addentrarsi in ambiti particolarmente forbiti, la pratica di mangiare insieme a persone care è tuttora in uso ed estesa alla quasi totalità delle società di tutto il mondo. Com’è facile immaginare, questa usanza ha origini antichissime e la si può ritrovare in tantissimi riferimenti. La parola “compagni”, oggigiorno utilizzata nei rapporti interpersonali più disparati, ha origine dal latino “cum-panis“, ovvero “persone con cui si condivide il pane”. L’aspetto religioso legato a questa pratica è pressoché evidente, così come è ovvio che si sia estesa anche alle occasioni laiche della convivialità. Lo stesso ragionamento vale per molti altri beni alimentari che i due autori cercano di spiegare minuziosamente: talune tra le bevande menzionate nel libro, specialmente quelle alcoliche, hanno funzioni aggregative. Si tratta di beni che la terra, anche in senso fisico, dona agli uomini affinché possano trarne qualche guadagno. Proprio “I doni della terra” danno nome a uno dei macrocapitoli. Si tratta di un’analisi interessante perché dà dimostrazione di quanto l’essere umano, nel corso del tempo, abbia affinato e sperimentato il proprio rapporto con la Natura fino a trovarne un’armonia almeno apparente, così come mostra quanto sia controproducente maltrattare la stessa terra che permette all’uomo di avere delle sostanze fondamentali per il suo benestare. Proprio in questo capitolo si fa riferimento a una delle attività più importanti della storia dell’umanità: la raccolta. Importante non solo per i frutti, letterali e metaforici, di cui l’uomo ha imparato a godere, ma anche per l’umiltà che l’essere umano ha sempre dovuto mostrare alla terra madre che, con grande generosità, gli ha fornito i beni necessari al sostentamento. La chimica e l’industria hanno fatto perdere questi moniti che, però, non hanno mai perso la loro attualità, anzi…
Dopodiché, un plauso che bisogna fare agli autori nella più totale onestà intellettuale è quello di non essersi tirati indietro dinanzi ad alcuni argomenti “scottanti”. Tra questi, il sempre dibattuto (non-)consumo della carne e la sessualità legata all’aspetto alimentare. In entrambi i casi, i due autori si sono dimostrati capaci nell’esprimere un’opinione doverosamente equilibrata senza fare torto a nessuna delle fazioni, soprattutto per quanto concerne il dibattito sul consumo della carne, parzialmente giustificato da alcuni dei lati più “animaleschi” dell’uomo. Così come sono riusciti a non (s)cadere in volgarità nel paragrafo legato all’erotismo, portando anzi con sé riferimenti culturali non di poco conto, legati a fasi della vita della dea Demetra dopo la morte della figlia Persefone.
L’ultimo aspetto citato, per ordine cronologico ma certamente non per importanza, è la deriva negativa che sta prendendo l’alimentazione e ciò che le gravita intorno nella nostra epoca. Nel bene e nel male, il nostro mondo globalizzato è ormai pervaso da una catena di standardizzazione che ha rimosso l’identità specifica di ogni singolo prodotto, portando questa ventata omologatrice quasi fino al sentimento interiore delle persone. Di pari passo, anche la produzione alimentare ne ha ampiamente risentito, vedendo spazzare via in un lasso di tempo brevissimo le modalità “classiche” di preparazione, come quelle manuali e non industriali. Se è indubbio che la realizzazione ne ha giovato in termini logistici ed economici, è altrettanto ovvio che è andata scomparendo quasi del tutto quell’artigianalità che rendeva uniche le qualità alimentari dei vari prodotti acquistati. In questo modo, come specificato dagli autori sin dall’introduzione a dir poco eloquente, è stata eliminata la possibilità di portare a tavola i reali sapori e qualità dei piatti che non provengono più dalle loro fonti naturali, bensì da macchinari di cui conosciamo a malapena l’entità. Per queste ragioni, il libro fa comprendere che sarebbe opportuno optare per qualche passo indietro, pur senza esagerare, nella produzione e nell’acquisto dei generi alimentari. È chiaro che, ormai, il processo che ha portato alla suddetta standardizzazione è irreversibile. Ciononostante, la sua limitazione sarebbe opportuna per una serie di motivi; tra questi, indubbiamente, il fatto che all’interno delle pietanze siano presenti anche caratteristiche molto più vicine a noi di quanto non pensiamo e di quanto non riusciamo a riconoscere per via della frettolosa frenesia dei nostri tempi, come il fatto che, in maniera simbolica, l’alimentazione contiene in sé sia la vita che la morte in maniera ciclica e questo permette di ritrovarsi esistenzialmente anche nei meccanismi di rinuncia e tentazione che riguardano ogni essere umano. Allora, se e quando ciò accadrà, si potrà combattere la standardizzazione di cui sopra, portandoci a essere sempre meno grigi verso noi stessi e verso il mondo. Finalmente, potremo dire che
“siamo ciò che mangiamo”.
Ringraziamo Wudz Edizioni per l’invito, Enrico Gabrielli per l’intervista e Libreria Germi per l’evento. Per maggiori informazioni: https://www.wudzedizioni.com/
di Alessandro Mazza
Nato nel 2002 in Romagna, sono studente all’Università di Bologna. Lo studio è, fortunatamente, fra le mie passioni, come lettura, musica e scrittura. Insieme ad altre meno “auliche”, come lo sport. Curioso per natura, mi pongo domande e cerco risposte, molto spesso senza successo, ma con conoscenze in più.