Decolonizzare la memoria degli italiani
Quando nei libri di storia arriviamo al fatidico capitolo sul colonialismo, troviamo i protagonisti indiscussi di questo fenomeno, cioè Spagna, Portogallo, Olanda, Belgio, ma soprattutto Francia e Regno Unito. Questo perché, se analizzassimo una cartina del 1800, ipotizzando di assegnare ad ognuna di queste Potenze un colore diverso, vedremmo grandi macchie corrispondenti ai possedimenti1 inglesi e francesi. In questo grande quadro, però, si inseriscono, verso la fine del XIX secolo, altri attori, definiti nell’ambito della Conferenza di Berlino2 come “late comers”, ovvero nuove Potenze europee che aspiravano ad acquisire anch’esse l’ambizioso status di potenza coloniale. Tra queste si inserisce anche il Regno d’Italia, che, sotto il governo di Francesco Crispi, intraprende le prime mosse di un percorso di conquista tortuoso, brutale e, in fin dei conti, fallimentare. Pur cambiando le motivazioni “di facciata”, le fasi successive del colonialismo italiano saranno altrettanto controverse. Nella nostra cultura, tuttavia, questo passato è stato ignorato: ciò non significa dimenticato, perché tutt’ora lo si studia, ma, come per il fascismo, il popolo italiano e la sua memoria collettiva non hanno mai fatto i conti con le conseguenze sulle popolazioni sottomesse, cavalcando la retorica degli “italiani brava gente”.
Iniziamo anzitutto chiarendo cosa si intende con “colonialismo”: la storia delle colonie affonda le sue radici già nell’epoca romana, con una forte ripresa nel XV secolo e arrivando al suo apice nel XIX. In quest’ultimo periodo, però, il fenomeno muta nelle sue ragioni, passando dall’essere di matrice puramente commerciale a una missione politica, economica e sociale, per “civilizzare” le popolazioni considerate inferiori e sfruttarne al massimo le risorse economiche. Per questo motivo, quando si parla di colonialismo del XIX secolo, sarebbe più appropriato utilizzare il termine “imperialismo”, che include gli aspetti precedentemente menzionati3. Normalmente, però, nel caso italiano, non si sente mai dire “imperialismo italiano”, ma appunto “colonialismo italiano”, probabilmente per il fatto che all’inizio della sua carriera colonialista, il Regno d’Italia era nato da poco, molto debole al suo interno sotto tutti gli aspetti (compreso quello militare) e soprattutto non aveva ancora conquistato il proprio posto al tavolo delle Grandi Potenze europee. Sarà proprio questa una delle ragioni principali dell’inizio della spedizione coloniale italiana in Africa.
Come già accennato, il colonialismo italiano si sviluppa per fasi: l’epoca liberale, l’età giolittiana, il periodo fascista e la fase conclusiva nel secondo dopoguerra. Nel 1869 l’armatore genovese Raffaele Rubattino acquistò i diritti di scalo nella baia di Assab (Eritrea), poi di fatto passati nelle mani del Regno nel 1882. Questo possedimento sarà poi riconosciuto all’Italia dal Regno Unito nell’ambito della Conferenza di Berlino, fornendo quindi il proprio benestare alle truppe regie per espandersi nel Corno d’Africa. Il governo italiano, infatti, mirava al controllo sull’Etiopia, impresa strategicamente complessa, dato che l’Impero etiope era ben organizzato a livello politico e militare (dettaglio ignorato dalla dirigenza italiana che porterà alla sconfitta di Dogali nel 1887). Per queste ragioni, si scelse prima di conquistare Eritrea e Somalia. Si vede quindi come i primi passi di conquista siano stati molto lenti e incerti, da un lato per la politica delle «mani nette»4, dall’altro per la decisione del governo Crispi di partire alla conquista del Corno d’Africa. Questa ambivalenza porterà alla polarizzazione del dibattito politico: si tenterà prima di imporre un protettorato sull’Etiopia (Accordo di Uccialli, 2 maggio 1889, fallimentare), poi si procederà all’azione militare. Come si è detto, però, le capacità militari italiane non erano sufficienti a contrastare le truppe locali. A ciò, vanno sommati una serie di errori e sottovalutazioni del territorio e della situazione politica locale, dovute ad una presunzione di natura razzista: era infatti impensabile per la classe politica dell’epoca immaginare che una popolazione africana potesse essere sviluppata al punto di organizzare un proto-Stato5, figuriamoci un esercito e un impero. Da qui infatti si arriverà alla sconfitta di Adua nel 1896, con il conseguente Trattato di pace di Addis Abeba, il quale riconobbe il possesso italiano dell’Eritrea e l’indipendenza dell’Etiopia. Per quanto riguarda la Somalia, invece, negli anni seguenti una serie di accordi con i Sultanati locali permetteranno l’espansione dei territori controllati dalle truppe italiane e, nel 1905, il governo Fortis ne prenderà direttamente il controllo, riunendoli come “Somalia italiana”.
Dopo questa prima fase, concentrata nel Corno d’Africa, il colonialismo italiano riprese il suo slancio sotto il governo Giolitti, a ridosso della Prima Guerra Mondiale. In questo periodo, l’Impero Ottomano era molto debole, per cui risultò facile agli occhi dell’élite italiana una spedizione verso i territori libici (sotto il controllo turco), anche grazie allo spirito bellicistico e nazionalista di quegli anni. Di conseguenza, il 26 settembre 1911 il governo Giolitti inviò un ultimatum all’Impero Ottomano, chiedendo la cessione della Libia, con la speranza sottostante di riaffermarsi nella politica interna italiana dopo un periodo di apparente sfiducia. Il rifiuto di ogni ipotesi di protettorato da parte turca aprì irrimediabilmente le ostilità: nell’ottobre del 1911 le truppe regie sbarcarono a Tripoli, iniziando così una guerra dispersiva, costosa e sanguinosa. Impossibilitato in ogni caso a vincere la resistenza araba sul territorio libico, Giolitti spostò la guerra navale nell’Egeo, costringendo l’Impero Ottomano alla firma della Pace italo-turca, o Trattato di Losanna, in cui viene assicurato all’Italia il dominio sulla Libia.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, il colonialismo italiano riprese sotto la spinta fascista, che portò anzitutto al controllo diretto sui territori libici, e alla progressiva “italianizzazione” della Somalia (per quanto poi non ci fu la grande ondata migratoria degli italiani, come sperato dai vertici fascisti). Il vero obiettivo però restava l’Etiopia, ancora non controllata dagli europei in quanto sotto il controllo del negus. L’incidente di Ual-Ual (area strategica occupata dai militari italiani) fu il casus belli per la guerra contro l’Etiopia (5 novembre 1934). Questa spedizione fu brutale e facilitata dal distratto contesto internazionale, che assisteva all’ascesa del nazismo in Germania. L’Etiopia però, in quanto Stato membro della Società delle Nazioni, denunciò l’Italia per l’aggressione subita: a seguito della violazione dell’articolo XVI della Carta della Società delle Nazioni, l’Italia venne dichiarata “Stato aggressore” per uso di armi chimiche. Ma sarà solo una blanda condanna ad una serie di sanzioni economiche, cavalcate dal regime per giustificare la volontà di conquista. Il 9 maggio 1936, infatti, arrivò la proclamazione della vittoria sull’Etiopia da parte dell’Impero fascista, nonché il momento di massimo consenso al regime, che riuscì a “far grande l’Italia”.
Infine, con la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia perse tutte le sue colonie: la Libia passò prima una breve fase di amministrazione diretta di Regno Unito e Francia (sotto incarico delle Nazioni Unite), per poi arrivare all’indipendenza nel 1951, mentre l’Etiopia divenne indipendente dal 1944, con a suo carico anche il territorio eritreo. L’unico caso particolare fu la Somalia, affidata in Amministrazione Fiduciaria all’Italia (AFIS), con lo scopo di portare il Paese allo sviluppo politico, sociale ed economico, nella speranza di preparare la popolazione somala all’autogoverno e all’indipendenza.
L’impresa colonialista del Bel Paese non è mai stata giudicata al pari dell’esperienza dei nostri vicini francesi e inglesi. Si sa della nostra storia coloniale, ma si ignora il suo carattere violento e brutale. Un esempio a riguardo è proprio il ricorso alle armi chimiche in Etiopia precedentemente menzionato, scelto a scapito di una politica diplomatica probabilmente più efficace perché, secondo Mussolini, «l’Impero non si governa a mezzadria», propaganda che porterà alla strage di Debra Libanos del 1937. Allo stesso modo, non si conosce l’ambiguità del governatorato di Italo Balbo in Libia, che di fatto ha trasformato il Paese nella Quarta Sponda fascista, con edifici, autostrade, scuole e istituzioni inequivocabilmente coerenti con lo stile del regime, mentre la popolazione veniva rinchiusa in campi di concentramento in caso di ribellione, o “civilizzata” dall’emigrazione italiana nel Paese. Il mito del “buon italiano” – che solo recentemente è stato messo in discussione – affonda le sue radici proprio all’interno della costruzione dello Stato italiano risorgimentale che, sulla base di un principio nazionalista, rivendica il suo «posto al sole», come ben espresso dal discorso della Grande proletaria di Giovanni Pascoli. La stessa matrice razzista del colonialismo inizia molto prima: il razzismo istituzionalizzato arriva con l’ultimo fascismo, ma l’Italia liberale ed il regime avevano già praticato per decenni una “politica delle razze”, andando a tracciare confini territoriali e politici sulla base di etnie spesso non coincidenti con l’organizzazione preesistente. Le conseguenze di questo “razzismo politico” furono importanti e durature: alcune di queste divisioni inter-etniche sono giunte sino ad oggi nei territori africani (percepiti dai bianchi come divisi in tribù). Anche se ci fosse stata la volontà di fare i conti con questo passato buio, fra il 1948 e il 1951 venne meno qualsiasi possibilità di una Norimberga italiana per le atrocità commesse durante il periodo coloniale. A differenza della Germania e del Giappone, l’Italia riuscì ad evitare un processo internazionale. La mancata punizione di crimini così gravi ha generato quindi nella maggioranza degli italiani una visione sfocata e distorta dei fatti accaduti, come a dire che un processo non fosse nemmeno necessario. Insieme a questo, anche il fatto di aver perso le colonie in conclusione del secondo conflitto mondiale, ha contribuito notevolmente alla deresponsabilizzazione dell’Italia dal suo passato coloniale, andando quindi ad alimentare unicamente il falso mito degli “italiani brava gente”.
In realtà, l’influenza italiana sulle colonie non è nemmeno finita con la sconfitta, ma si è mantenuta fino all’indipendenza (nel caso di Eritrea e Libia, quindi fino alla fine degli anni Quaranta) e, con l’approvazione delle Nazioni Unite, in forma di Amministrazione Fiduciaria in Somalia. È dunque sbagliato pensare alla fine del colonialismo in coincidenza con la fine del regime fascista, perché la nuova Italia repubblicana fu molto attiva nelle ex colonie, dove agì grazie ai residui della vecchia amministrazione coloniale, riprendendo la stessa motivazione ricorrente: la necessità di ottenere uno status di prestigio internazionale. Ed è altrettanto sbagliato pensare che l’idea di riprendere il proprio passato coloniale fosse una posizione isolata nel panorama politico: vi era una vera e propria lobby che si spese a fondo per sostenere l’opera propagandistica, pur di mettere in rilievo gli interessi degli italiani nelle colonie, nonostante fosse piuttosto evidente che la politica perseguita sarebbe stata poco lungimirante e destinata al fallimento.
Non è la sede giusta per discutere sul dibattito diplomatico tra italiani e inglesi per la spartizione delle ex colonie in Africa (tutto ciò ignorando l’effettiva divisione territoriale e sociale delle diverse popolazioni locali), ma ciò che preme sottolineare è come l’opinione pubblica italiana abbia preferito relegare tutte le responsabilità all’esperienza fascista, facendo finta di non vedere ciò che stava accadendo oltre il Mediterraneo, pur di lavarsi la coscienza. La ripresa dei fili della storia dopo la caduta del fascismo finì per caratterizzare gli italiani come «un popolo depositario di una grande civiltà, composto fondamentalmente da brava gente i cui tratti essenziali non erano stati macchiati dal fascismo e neanche dalle sue guerre di aggressione» in Europa come in Africa (Patriarca 2010, 217-218). Il fascismo finiva così per diventare un incidente di percorso, a cui venivano ricondotte tutte le colpe della storia italiana espiate poi attraverso la Resistenza. In modo non dissimile, tutti gli aspetti negativi del colonialismo, come le guerre, la violenza, la segregazione razziale e lo sfruttamento economico, finirono per essere ricondotte al colonialismo fascista, con il risultato di caratterizzare in modo positivo il colonialismo italiano della Repubblica. E proprio questa mitizzazione del passato ha contribuito a legittimare la gestione ambivalente dell’Amministrazione Fiduciaria in Somalia.
I risultati conseguiti in Somalia alla fine del mandato furono limitati e, nel complesso, al ribasso rispetto alla capacità dell’Italia di esercitare una concreta influenza postcoloniale sulla classe dirigente somala anche dopo la fine dell’AFIS. Nonostante tutti i limiti dell’azione italiana nei dieci anni di mandato, il caso della Somalia è sicuramente quello che più si avvicina agli esiti di tanti altri processi di decolonizzazione in Africa: i nuovi dirigenti nazionalisti presero il potere dopo averne contrattato la devoluzione con l’ex potenza coloniale in una logica che spesso vide gli stessi nazionalisti crescere all’ombra del potere coloniale in termini di istruzione, cultura e ideologia nazionale. Il lavoro dei coloni italiani insieme alle politiche di valorizzazione economica intraprese dall’allora governo coloniale furono gli argomenti per eccellenza sui quali fondare le pretese italiane; al tempo stesso, divennero strumenti utilissimi per iniziare a proporre quella rilettura edulcorata e buonista del passato coloniale che sottolineava la “civilizzazione” e lo “sviluppo” delle colonie, dimenticando di rendere conto delle tante discriminazioni, violenze e guerre perpetrate, e rendendo sempre più evidente lo scarto tra la realtà storica del colonialismo e il discorso sul passato coloniale italiano.
In generale, la presenza italiana nelle colonie ha comportato una serie di conseguenze politiche, sociali ed economiche notevoli, sia durante il periodo coloniale che dopo l’indipendenza di questi Stati. A livello politico, il tessuto amministrativo coloniale ha sempre ignorato la struttura socio-politica già presente sul territorio per la presunta superiorità culturale europea impregnata di razzismo; ciò ha portato al difficile rapporto tra le forze politiche “tribali” e le forze governative che sono poi salite al potere, cadendo nel circolo vizioso di cattiva governance e corruzione diffusa, fino alle situazioni più critiche di guerre civili e colpi di stato militari. A livello economico, le colonie sono sempre state sfruttate per le loro risorse, in modo da sostenere la nascente industria italiana, implementando tutta una serie di politiche (soprattutto agricole) che ignoravano le condizioni del tessuto sociale, e depauperando di fatto la loro economia, costringendole a diventare dipendenti dalle esportazioni italiane (modello poi ripreso seppur con una retorica differente dal Modello Mattei). Proprio l’ignoranza del territorio ha favorito la resistenza della popolazione nelle aree rurali, che sfuggivano così dalle politiche economiche italiane, restando però sottosviluppate e abbandonate al loro destino. Infine, l’idea del governo, specialmente durante il periodo fascista, di emigrazione italiana massiccia per “italianizzare” le colonie non ha portato ai risultati sperati, proprio perché, a causa delle resistenze locali, gli insediamenti italiani erano ridotti, minando quindi la creazione di legami economici e sociali tra colonizzatori e colonizzati (come invece si è visto in India). Le conseguenze di questi legami mancati si sono fatti risentire anche dopo la decolonizzazione, per cui, pur mantenendo relazioni per un certo livello preferenziali con le ex colonie, la cooperazione economica tra queste e l’Italia non è minimamente paragonabile agli esempi francesi e inglesi. Inevitabilmente, l’esperienza coloniale ha lasciato i suoi strascichi nelle economie locali ancora in via di sviluppo, ostacolandone la crescita autonoma dopo l’indipendenza. Tecniche quali la creazione di imprese di nazionalità mista hanno permesso da un lato lo sviluppo economico di alcuni settori fondamentali, ma dall’altro le neonate e inesperte industrie si sono ritrovate isolate e senza abbastanza fondi per potersi autogestire. Questi subdoli meccanismi hanno portato inevitabilmente a problemi economici e sociali che poi hanno favorito l’ascesa al potere delle frange più estremiste della società. Nel caso dell’AFIS, è emblematico l’esempio della Somali Airlines, la quale divenne interamente statale solo nel 1977, quando il governo comprò tutte le quote da Alitalia. La vera cooperazione, attiva ancora oggi, è soprattutto di carattere umanitario, principalmente riguardante l’assistenza tecnica6 vista la mancanza di ingenti risorse economiche da dedicarvi.
Passando all’aspetto sociale e culturale, la produzione letteraria e cinematografica ha aiutato notevolmente a ripulire la coscienza degli italiani: film come Somalia d’oggi o Testa d’Elefante dimostrano come il passaggio italiano abbia aiutato i “poveri africani sottosviluppati” a progredire verso la civilizzazione così come intesa dalla cultura occidentale; oppure, il cortometraggio Somalia. Missione conclusa ha mostrato la cooperazione caratteristica del periodo dell’AFIS. In generale però, la critica letteraria italiana, così come quella storiografica, soffre tuttora di un complesso che può essere paragonato a quello della rimozione psicanalitica. Ci sono argomenti di cui non solo la critica letteraria italiana, ma anche la letteratura, non si sono mai occupate, nonostante siano di fondamentale importanza per definire l’identità nazionale, tra cui per l’appunto il colonialismo italiano. Nessuno si è mai preoccupato, se non di recente, di studiare ad esempio le prime grandi migrazioni italiane, che non sono quelle verso le Americhe, bensì verso l’Africa. Allo stesso modo, l’altro lato del colonialismo italiano dimenticato riguarda l’Istria, terra persa con il Trattato di pace del 1947, diventata praticamente un tabù all’interno dell’opinione pubblica nazionale. La nostra cultura si è arenata nell’immaginario rinascimentale della classicità, rafforzato dalla visione degli stranieri nei nostri confronti, che ci hanno sempre considerato come il Paese dei Grand Tour, del buon cibo e delle vacanze al mare. Abbiamo quindi sempre giovato di questa de-responsabilizzazione auto-conferita e corroborata dagli altri. L’unico modo per rendere legittima ed effettivamente critica la nostra produzione letteraria e culturale sarà inevitabilmente quello di “decolonizzare le menti degli italiani”.
In conclusione, questo articolo si è posto il problema di evidenziare come la percezione del nostro passato coloniale sia assolutamente distorta e influenzata da una retorica senza vere basi storiche su cui appoggiarsi. È inevitabile che l’esperienza coloniale abbia lasciato degli effetti che, per certi versi, si notano ancora oggi, anche se sono paradoralmente nascosti all’ombra di esperienze più imponenti come quella francese e inglese, in alcuni casi meno brutali di quella italiana. L’idea del “buon italiano” o la retorica degli “italiani brava gente” non regge ad un attento esame storico: dovremmo prendere coscienza di questo fatto e fare i conti con la nostra storia. Altrimenti, continueremo a imbatterci in stupidi errori, sottostimando le potenzialità di un continente in rapida crescita e con cui potremmo avere un rapporto preferenziale, vantaggio su cui i nostri vicini europei non possono contare.
Note
- Con il termine “possedimenti” si intende la dominazione, sia diretta che indiretta, tipica del colonialismo ottocentesco, con una presenza più o meno diffusa degli europei nelle istituzioni coloniali e più o meno integrata nella società.
- La Conferenza di Berlino del 1884–1885 regolò il commercio europeo in Africa centro-occidentale nelle aree dei fiumi Congo e Niger e sancì la nascita dello Stato Libero del Congo sotto l’influenza di Leopoldo II del Belgio. La Conferenza fu voluta dal Cancelliere tedesco Otto von Bismarck e dalla Francia, allo scopo di regolare le molteplici iniziative europee nell’area del Bacino del fiume Congo. Tuttavia, la conferenza, seppure non negli atti ufficiali, consentì alle potenze europee di rivendicare possedimenti all’interno delle zone costiere occupate, il che portò al cosiddetto “Scramble for Africa”.
- Con “imperialismo coloniale” si intende l’evoluzione specifica del colonialismo che ha caratterizzato le principali potenze mondiali nel XIX secolo. Tra i pilastri fondamentali di questo fenomeno troviamo mercantilismo e la nascita degli Stati-Nazione: il mercantilismo imponeva un sistema economico globale che utilizzava i materiali preziosi per misurare la ricchezza, che, nel periodo in questione, era concentrata nelle mani dei nuovi (quantomeno formalmente) Stati-Nazione. Di conseguenza, la conquista e il controllo diretto di nuovi territori permetteva nuovi e costanti introiti nelle casse della madrepatria, andando così ad aumentare la ricchezza nazionale.
- Tendenza dell’Italia a mostrarsi come “pulita” sulla questione coloniale durante le conferenze internazionali, per la consapevolezza di non avere le capacità e le risorse di intraprendere un processo di conquista.
- Il concetto di proto-stato si riferisce a una forma primitiva di organizzazione politica e sociale che precede la piena formazione di uno stato sovrano. Esso rappresenta una fase iniziale in cui si manifestano elementi fondamentali dell’organizzazione statale, ma senza il completo sviluppo delle strutture giuridiche e amministrative tipiche di uno stato moderno.
- Con assistenza tecnica si intende la cooperazione basata sulla fornitura di tutte le conoscenze atte a garantire beni e risorse economiche, che include aspetti quali l’istruzione, l’assistenza scientifico-tecnica e fondi per la ricerca.
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