“Sempre il mare, uomo libero, amerai!”
Novecento, Alessandro Baricco
Nessuno è come voi tenebroso e discreto: chi osa, uomo, calarsi nei tuoi gorghi profondi? chi, mare, a te contendere i beni che nascondi? Tanto siete gelosi d’ogni vostro segreto!1
Con questi versi, Baudelaire in L’uomo e il mare (1875), come suggerisce il titolo stesso e anche il titolo che ho scelto per introdurre la mia riflessione, cerca di raccontare quella misteriosa concordanza che intercorre tra l’essere umano e il grande blu.
La spinta dell’uomo verso il mare, l’oceano, è un tòpos che ha stimolato le penne di intere pagine di letteratura: da Omero, che ha fatto navigare Ulisse per ben dieci anni animato da una brama insaziabile di sapere, prima di tornare a casa, a Hemingway, il cui pescatore combatte la forza delle onde e sfida il suono della solitudine. Poi, c’è la prorompente scrittura di Virginia Woolf, nella quale il mare, da La signora Dalloway a Gita al faro a Le onde, è l’unico essere in grado di spiegare la malinconia del ricordo delle estati infantili passate in Cornovaglia e il senso di vuoto interiore dato dal male di vivere. Non parliamo di Neruda, che nel mare, anzi, nel suo silenzio, parafrasa il verso biblico «polvere eri, polvere diventerai», sostituendo mare alla parola polvere nei versi de Il grande Oceano, un’ode di fortissimo impatto dove il poeta cileno cerca di districarsi tra le contraddizioni del mare stesso, una distesa d’acqua fatta di un impeto che torna sempre pace e viceversa:
Oltre le onde è protesa la tua statua [...] È tua la sostanza che ti colma. Piena di te è la curva del silenzio.2
Potrei andare avanti all’infinito, con le citazioni. Di citazione in citazione, emergerebbe il profilo di un rapporto ben preciso tra essere umano e mare, ovvero quello per cui il grande blu altro non è che uno specchio, nel quale si riflettono ed emergono le vibrazioni dell’anima, le sue sfumature e declinazioni. Il mare è pace, ma al contempo è tempesta; il mare è libertà, punto di approdo, ma anche di fine. In tutte queste pagine, c’è una costante: il mare è un mezzo, la forza propulsiva dei pensieri, che prende le mosse dall’osservazione di esso, dal ricordo di esso. Oppure prende spunto dalla vita in mare, divenendo cronaca di naviganti, marinai o semplici viaggiatori, semplici spettatori di risacca e vibrazioni di conchiglia. Di tutte queste pagine letterarie, ce n’è una, però, che indaga un rapporto diverso, atipico, dove il mare non è un mezzo, bensì uno scopo. Sto parlando di Novecento (1994) di Alessandro Baricco.
La storia raccontata in questo monologo, per quanto, a suo modo, banale e priva di qualunque tipo di svolta narrativa, è molto più complessa di come appare: Novecento, anzi, Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, è un uomo che ha vissuto la sua intera vita, dalla nascita alla morte, sul piroscafo Virginian, un transatlantico gigante che nei primi trent’anni del Novecento compieva la grande traversata dell’Oceano dall’Europa alle Americhe. È tra le onde del mare che Novecento scopre di avere un talento grandissimo: suonare il piano a colpi di una musica che, al tempo, prima di lui, non esisteva: il jazz. A raccontarci la sua storia è Tim Tooney, un giovane trombettista salito sul Virginian nel ’27 col sogno di suonare; egli diventerà fin da subito suo amico, condividendo con lui discorsi filosofici e stralci di mondo.
Quello di Novecento è un microcosmo, perfetto, fatto di microcosmi. La nave è il primo di questi, in quanto qui non si tratta di un semplice mezzo di trasporto, ma di un contenitore di vita e vite, da quella di Novecento stesso a quella di «ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana»3, a quella dei suoi marinai, marconisti, spalatori di carbone, cuochi e capitani. Poi c’è la vita della terza classe, la più vera, la più vita, quella dove la «cuccetta sembra un letto a due piazze» e «Ci si sta meglio che in ospedale», come avrebbe detto De Gregori, che in Titanic (1982) centra perfettamente quell’atmosfera, alla quale Baricco si ispira e usa come sfondo di Novecento. Perché qui, sfondo e protagonista, non sono, come ci si aspetterebbe, il mare e Novecento. Lo sfondo è la vita umana che scorre, il tempo di una viaggio, di un jazz o di un charleston dal gusto anni ‘20, e il protagonista non è Novecento, bensì il mare. Il mare è un essere vivente che respira, che pensa, che detta le sue leggi. «Da una nave si può anche scendere, ma dall’Oceano…»4, dice Tim proprio nelle battute iniziali.
Tutta la vicenda gira intorno alla suspence creata da Baricco, che porta chi legge a chiedersi: “Ma Novecento… scenderà mai da quella nave?”. Per quanto la risposta sia ovvia, è interessante seguire il viaggio che ci porta al tragico epilogo. Come nella migliore produzione romantica, i sentimenti e le azioni di Novecento sono legate, con un filo invisibile, alle mosse del mare, dell’acqua. Ad esempio, il primo incontro tra lui e Tim avviene in una notte di tempesta, che segue le note di una nenia (rielaborata poi da Eugenio Finardi nel testo della canzone che riprende il verso iniziale della ninna nanna di Baricco, Il mare ha deragliato (2006)), ma anche le note del pianoforte suonato da Novecento, che chiede a Tim di togliere i freni che bloccano lo strumento al parquet della grande sala da ballo della nave. E qui avviene una delle cose più folli: Novecento, Tim e il piano iniziano a ballare al suono dell’Oceano infuriato:
ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava, non smetteva un attimo, ed era chiaro, non suonava semplicemente, lui lo guidava, quel pianoforte, capito?, coi tasti, con le note, non so, lui lo guidava dove voleva, era assurdo ma era così. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l’Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte. Oh yes.5
Il mare, in Novecento, suona di voce propria. Questo è ancor più evidenziato nella magistrale trasposizione cinematografica di Giuseppe Tornatore, La leggenda del pianista sull’oceano (1998), dove il mare suona con le note del pianoforte del Maestro Ennio Morricone. Quando Novecento suona, Tim lo osserva, e gli chiede a cosa pensa quando suona, quando accarezza i tasti del pianoforte. Nel film c’è questa scena che ho ancora impressa nella mente dalla prima volta in cui l’ho visto, dove, per un istante, il mare si fonde con gli occhi di Novecento, divenendo di quella sfumatura che mesce cielo e acqua. L’uomo viaggiava, mentre suonava, e raccontava al suo amico dei viaggi che faceva. Viaggi veri, in posti reali e città esistenti, tra le strada di Parigi, le tigri del Bengala o i tramonti di New Orleans. Viaggi descritti con una vividezza strabiliante, per essere i racconti di un uomo che dal mare non era mai sceso. Eppure lui li conosceva davvero, perché sapeva ascoltare e leggere le persone. Sarà la domanda di Tim a metterlo in crisi:
diosanto non potrai continuare tutta la vita ad andare avanti e indietro come uno scemo… tu non sei scemo, tu sei grande, e il mondo è lì, c’è solo quella fottuta scaletta da scendere, cosa sarà mai, qualche stupido gradino, cristo, c’è tutto, alla fine di quei gradini, tutto. Perché non la fai finita e te ne scendi da qui, una volta almeno, una sola volta. Novecento… Perché non scendi? Perché?6
In quella domanda c’è già la risposta, che è in quel “tutto”. Ad un certo punto della storia, Novecento sembra seriamente intenzionato a rispondere con i fatti, a quella domanda. Sembra pronto a scendere: è proprio lì, sulla scaletta, e proprio sugli ultimi scalini si ferma, in silenzio, e osserva. Nessuno, dal ponte della nave, capisce cosa stia osservando, ma Novecento lo sa bene: osserva il mare, anzi, ascolta il mare e la città davanti a sé. Il “tutto”, appunto. È un’osservazione breve, tant’è che, come se nulla fosse successo, Novecento torna sulla nave. Vista da fuori risulterebbe follia allo stato puro, ma, con l’occhio di Novecento, la reazione è assolutamente coerente con tutta la sua vita. Dopo quella parentesi, al porto successivo, Tim scende per sempre dalla nave, perché «Se fai il marinaio […] il mare è il tuo posto, ci puoi stare fino a schiattare e va bene così. Ma uno che suona la tromba… Se suoni la tromba, sul mare sei uno straniero, e lo sarai sempre. Prima o poi, è giusto che torni a casa»7.
Continuerà a pensare a quello strano essere umano che lo aveva segnato per la vita, continuando a chiedersi cosa, quel giorno, avesse visto di così terribile dal dissuaderlo dal proposito di scendere. Gli giunse, attraverso una fuga di notizie, che Novecento fosse ancora sulla nave, nonostante la guerra fosse finita e nonostante la stessero riempiendo di dinamite per farla esplodere e dismetterla in mezzo all’Oceano. E proprio seduti su una dinamite, Tim ottiene la risposta tanto attesa da un Novecento tutt’altro che rassegnato.
Nel monologo finale, che riporterò integralmente e con cui vi lascio, Baricco delinea il profilo di un uomo lucido che comprende l’enormità del tutto, un tutto troppo grande perché un solo uomo, vissuto per una vita intera tra l’andatura nota delle onde e la tastiera di un pianoforte, riesca a cominciare una vita “terrena”. Perché se hai vissuto una vita intera sul mare, suonando il jazz della burrasca, il tuo tutto è definito nel blu, non nelle strade, non nei palazzi, non nelle scelte quotidiane:
Non è quel che vidi che mi fermò/ È quel che non vidi/lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne/ ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo/ Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu/ Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me/ si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi/ di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita/ Se quella tastiera è infinita, allora/ non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio/ Cristo, ma le vedevi le strade? / Anche solo le strade, ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una/ A scegliere una donna/Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire/ Tutto quel mondo/addosso che nemmeno sai dove finisce/ E quanto ce n’è/ Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla?A viverla… / Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò.[…] Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio. […] Non è pazzia, fratello.Geometria. È un lavoro di cesello. Ho disarmato l’infelicità. Ho sfilato via la mia vita dai miei desideri. Se tu potessi risalire il mio cammino, li troveresti uno dopo l’altro, incantati, immobili, fermati lì per sempre a segnare la rotta di questo viaggio strano che a nessuno mai ho raccontato se non a te/.8
Note
- vv. 9-12, da L’uomo e il mare, in Baudelaire, C., I fiori del male, Mondadori, Milano, 2016.
- vv. 33-40, da El gran Ocèano, in Neruda, P., Poesie. 1924-64, Bur, Milano, 2018.
- p. 11, Baricco, A., Novecento. Un monologo, Feltrinelli Universale, Milano, 1994; le citazioni sono tratte tutte da qui.
- p. 12.
- pp. 29-30.
- p. 34
- pp. 51-2
- p. 55-62